L’UNIONE EUROPEA NON È CHE UN’ESPRESSIONE GEOGRAFICA! (LA GERMANIA NO)

Per quanto paradossale possa sembrare, la stessa Germania vive con una certa angoscia la propria intrinseca, strutturale potenza economica (e, più in generale, sociale tout court), perché più di una volta nella sua storia ne ha saggiato le dure conseguenze. Anche per questo la leadership di quel Paese ha cercato nell’europeismo una sorta di Super-Io transnazionale che tenesse al guinzaglio le sue “naturali” pulsioni espansionistiche. Ma l’oggettività delle cose ha una sua logica che non è facile imbrigliare.

L’attuale crisi internazionale conferma plasticamente ciò che in molti hanno sempre pensato: l’Unione Europea è un mito fabbricato dalla leadership politica, economica e culturale del Vecchio Continente. Ovvero, detto in termini più “dialettici”, la sua esistenza è garantita dagli interessi che i diversi Paesi che la compongono vi trovano: se vengono meno questi interessi nazionali l’Unione Europea come entità politica non ha alcuna ragione di esistere.

All’ombra dell’ideologia europeista non hanno smesso un solo minuto di marciare i vecchi interessi degli Stati Nazionali, i cui confini sistemici (politici, istituzionali, economici, ideologici) hanno resistito alla pressione della globalizzazione capitalistica e, per certi importanti aspetti, si sono rafforzati proprio grazie ad essa. La crisi economica iniziata alla fine del 2007 ha dimostrato ciò che tutti, in alto bordo, hanno sempre saputo, ma che hanno taciuto, per salvare le apparenze (che in politica contano, eccome) e per non finire nella categoria politicamente scorretta e poco trend degli «euroscettici». Vale a dire, che il destino dell’Unione Europea, in quanto entità politica non ectoplasmatica, è saldamente nelle mani, come sempre, oggi più che mai, della Germania. Soprattutto la Grecia, la Spagna e il Portogallo hanno scoperto con orrore che la moneta comune europea in realtà non è che il Teutonico Marco con altri mezzi. La controfigura della divisa tedesca, il cui cuore non smette di pulsare (soprattutto nell’Europa Centrale), ha i capelli biondi e gli occhi azzurri, per non dispiacere l’esigente – con molte ragioni, bisogna riconoscerlo – contribuente tedesco.

Stigmatizzando «l’ipoteca tedesca sull’euro», Francesco Giavazzi lamentava, qualche mese fa, l’antipatica circostanza per cui «La Merkel decide anche per noi: la posta in gioco sono le condizioni che la Germania chiede per salvare l’unione monetaria. Il futuro dell’euro si deciderà nel Consiglio europeo del 24 marzo» (Il Corriere della Sera, 29 Gennaio 2011). Fino a quel giorno continuerò ad avere gli incubi: sogno tutte le notti la Merkel dagli occhi azzurri che mi fa il berlusconiano cucù!

Commentando una notizia sfuggita all’attenzione del «grande pubblico» (peraltro distratto dalle vicende erotiche del Premier), Paolo Valentino proietta l’incubo tedesco su una dimensione mondiale, e non a torto: «Non sarà un nuovo giorno dell’infamia, come quello di Pearl Harbour. Ma la conquista del New York Stock Exchange da parte della Borsa di Francoforte è uno di quei passaggi dove la storia si diletta a concentrare simbolismi, ironie e metafore. Stiamo assistendo a una pacifica rivincita, 65 anni dopo la vittoria americana nella Seconda guerra mondiale» (Corriere della Sera, 16 Febbraio 2011). Qualcuno avverta il bravo giornalista che non esistono rivincite pacifiche, tanto più quando esse evocano scenari bellici. Anche perché i conflitti tra le Nazioni nascono in primo luogo sul terreno della “pacifica” competizione economica.

Lo stesso Valentino cita un’affermazione di pura marca Tedesca confezionata dal Der Spiegel: «I Tedeschi vogliono in futuro dominare il mercato mondiale». Siamo al Welt-Volk, al popolo che ha una missione di portata storica mondiale da compiere. Inascoltato, il «revisionista storico» Ernst Nolte ha ripetuto questo concetto in tutte le salse, precisando che «non vi è ragione di temere un predominio politico tedesco in Europa causato dalla potenza economica della Germania» (Intervista sulla questione tedesca, 1993, Laterza). E invece bisogna proprio temerlo, perché la potenza politica (inclusa la sua manifestazione militarista) si radica, in primo luogo, sulla potenza economica: questo è l’autentico significato dell’imperialismo, concetto che i teorici dell’Impero non capiranno mai.

Per quanto paradossale possa sembrare, la stessa Germania vive con una certa angoscia la propria intrinseca, strutturale potenza economica (e, più in genare, sociale tout court), perché più di una volta nella sua storia ne ha saggiato le dure conseguenze. Anche per questo la leadership di quel Paese ha cercato nell’europeismo una sorta di Super-Io transnazionale che tenesse al guinzaglio le sue “naturali” pulsioni espansionistiche. Ma l’oggettività delle cose ha una sua logica che non è facile imbrigliare.

Nella vicenda della crisi libica abbiamo addirittura assistito al tentativo orchestrato dalla Francia e dall’Inghilterra di far fuori i cospicui interessi italiani sul suolo africano, per sostituirli con i loro: altro che «concertazione europea»! L’Italia sta giocando di sponda con la Germania per rintuzzare il proditorio tentativo, e per adesso sembra che l’intelligente azione diplomatica italo-tedesca stia riscuotendo un certo successo. Ma contro i cinesi non si potrà fare molto!

Scriveva Jeremy Rifkin qualche anno fa: «Il sogno europeo è il tentativo di creare una nuova storia […] Il nuovo sogno europeo è potente perché osa suggerire una nuova storia […] Mi auguro che la nostra fiducia non vada delusa» (Il sogno europeo, 2004, Mondadori). Luogocomunisticamente, lo Scienziato Sociale di successo metteva a confronto il «declinante sogno americano» (il progressista Obama, allora, era sì sotto i riflettori, ma per abbronzarsi, in vista delle elezioni presidenziali di qualche anno dopo) con il «nascente sogno europeo, un sogno che promette di portare l’uomo verso una consapevolezza globale, all’altezza di una società sempre più interconnessa e globalizzata». Detto che «il sogno europeo» è sempre stato, dal punto di vista umano, un incubo, mi chiedo se si può essere ammalati di ideologia a tal segno da non riuscire a vedere la macroscopica dinamica dei processi sociali? Evidentemente sì. E Rifkin non è certo il più cattivo tra gli Scienziati Sociali in circolazione…

5 pensieri su “L’UNIONE EUROPEA NON È CHE UN’ESPRESSIONE GEOGRAFICA! (LA GERMANIA NO)

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