MISERIA DEL «POPOLO LAVORATORE»

Mario Tronti vuole salvare «l’idea di popolo»: già solo questa poco allettante – almeno per chi scrive – intenzione «culturale» e politica è sufficiente a qualificarlo come ideologo borghese – nell’accezione politica e non sociologica del predicato, ovviamente.

Salvare l’idea di popolo significa, quindi, mettere in sicurezza anche l’idea (e la prassi!) di Stato. Nonché quella di Nazione, perché, come egli giustamente osserva, «Non c’è nazione senza Stato». D’altra parte «non c’è popolo senza Stato» (Popolo, da Sinistrainrete, 26 Ottobre 2011). Nel momento in cui per un verso la globalizzazione capitalistica, e per altro verso il leghismo stressano la Sovranità della Repubblica Democratica fondata sul lavoro (salariato), gli intellettuali dai «lunghi pensieri» sentono il bisogno di solide certezze. «Non c’è nazione senza Stato. Ma non c’è popolo senza Stato. Questo è importante, da un lato per capire, dall’altro per stringere il problema ai tempi che ci riguardano e ci impegnano. Perché il tema è eterno. Biblico, prima che storico». Nella misura in cui fa del popolo, della Nazione e dello Stato delle categorie eterne, metastoriche, Tronti si colloca di diritto tra gli apologeti dello status quo.

D’altra parte, cosa ci si deve aspettare da un intellettuale che considera il Partito di Enrico Berlinguer un soggetto politico nel cui seno batteva ancora il cuore del «popolo comunista»? Cosa può sostenere di teoricamente e politicamente fecondo un ideologo che non comprende l’abissale distanza che separa il populismo a suo tempo combattuto da un certo Vladimiro Lenin, un movimento politico storicamente progressivo-borghese, con il populismo – di «destra» e di «sinistra» – ultrareazionario dei nostri confusi tempi? L’abisso non permette di azzardare nemmeno delle analogie! Ma tant’è…

Scrive Tronti: «E’ il punto di vista di classe che fa del popolo un soggetto politico. Senza classe non c’è politicamente popolo. C’è socialmente. O c’è nazionalmente. Due forme di neutralizzazione e di spoliticizzazione del concetto di popolo». Questo civettare maldestramente con Marx e con Carl Schmitt non ha reso un buon servizio al suo pensiero.

A proposito di Carl Schmitt, e per parlare un attimo di cose serie, ecco cosa scrive Gian Enrico Rusconi: «“Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione”. Questa perentoria sentenza è stata coniata da uno dei più controversi giuristi e politologi del secolo scorso, Carl Schmitt, con il sottinteso che le democrazie liberali non sanno decidere in casi di seria emergenza. Che cosa direbbe oggi il politologo tedesco? Identificherebbe oggi uno “stato d’eccezione” in Europa? In questa Europa diventata insicura nei suoi apparati istituzionali, dov’è la sovranità?» (Un’Italia a sovranità autolimitata, La Stampa, 27 Ottobre 2011). Professore, la Sovranità è lì dov’è sempre stata, ossia nel dominio totalitario degli interessi economici. Con tutto ciò che necessariamente segue sul piano politico-istituzionale, sul fronte interno come su quello dei rapporti tra gli Stati. La risposta è estesa a Tronti, il quale si chiede: «Chi decide nello stato normale, visto che lo stato d’eccezione si colloca ormai fuori dall’Occidente?»

«Il punto di vista di classe» rende possibile, per Marx e, se mi è concesso, per chi scrive, la trasformazione della massa informe dei proletari salariati in una Classe cosciente dei propri interessi e della propria funzione storica. Popolo è un «concetto-realtà» borghese che rimane tale nonostante le astruserie dottrinarie del noto intellettuale operaista, o post-operaista. Ai tempi del comunista di Treviri quel concetto conservava ancora una forte valenza progressiva, e così anche nell’arretrata Russia di Lenin; ma tirare in ballo nel XXI secolo «il punto di vista di classe» per accostarlo al Popolo, per «declinare» questo vecchio arnese concettuale in termini “movimentisti” e nuovisti, è degno della tradizione «comunista» del Bel Paese.

Ecco perché quando il Nostro afferma, a proposito del vero significato delle rivoluzioni del 1848, che Marx commise un errore, ancorché «geniale», bisogna quantomeno mettere mano alla pistola. E di fatti, il suo discorso («Popolo ed élite non porta al populismo. Porta al populismo capo ed élite») è tutto interno alla riflessione della classe dirigente italiana, di «destra» e di «sinistra», su come far fronte all’ondata «antipolitica» che rischia di creare mostri sociali e politici difficilmente gestibili, soprattutto in tempi di acuta crisi economica.

Scrive Tronti: «La classe operaia, nella sua orgogliosa rivendicazione di essere parte, nel rifiuto del lavoro, che nient’altro era che rifiuto di essere classe generale, è stata un soggetto rivoluzionario sconfitto. Perché la sconfitta politica non si traduca in fine della storia, è necessario riafferrare il filo là dove si è spezzato, riannodarlo e ripartire e proseguire». Il filo concettuale da seguire, per non perdersi nella postmodernità capitalistica, sarebbe il «Popolo lavoratore: nuovissima parola antica». Non avevo dubbi: la continuazione del putrefatto «Comunismo Italiano» (con tanto di esaltazione «operaista» del lavoro) con altri mezzi.

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