A mio avviso nel XXI secolo si può legittimamente parlare di Rivoluzione Sociale solo quando le classi dominate si presentano sulla scena della Crisi come Soggetto storico-sociale, informato da un autonomo programma politico e sociale. Quando le classi subalterne si muovono per iniziativa delle fazioni che stanno al potere o che aspirano al potere, mostrano tutta la loro impotenza sociale. Esse sono oggetto di una storia scritta da altre classi. Tutte le volte che la rivolta delle «masse diseredate» non è fecondata dalla «coscienza di classe», a spartirsi i dividendi del caos sociale sono i gruppi socialmente dominanti interessati a mettere in discussione lo status quo per acquistare più potere ai danni dei gruppi concorrenti.
Per dirla nei termini della marxiana critica dell’economia politica, il lavoro morto sussume sotto le sue disumane leggi il lavoro vivo, il presente domina sul futuro, la possibilità soggiace sotto l’imperio della necessità. Quando il sangue scorre a esclusivo vantaggio delle classi dominanti, parlare di «rivoluzione», magari solo «popolare» o «democratica», equivale a bestemmiare contro la verità.
A proposito di Marx, è interessante riflettere sul suo concetto di classe sociale. Scriveva il comunista tedesco descrivendo a grandi linee il processo di formazione del proletariato moderno (salariato) in quanto «classe per sé, e non per il capitale»: «Se qualche volta gli operai si raccolgono in massa compatta, ciò non è dovuto alla loro propria spontanea azione, ma all’azione della borghesia raccolta in fascio, la quale per raggiungere i suoi propri fini politici deve mettere in moto l’intero proletariato» (Manifesto del Partito Comunista). In tal modo «i proletari non combattono i loro nemici, ma i nemici dei loro nemici». In questa fase, osserva Marx, i salariati non rappresentano una classe – se non dal punto di vista meramente sociologico, o dalla «triviale» prospettiva dell’economia politica –, ma «una massa incoerente e confusa». Importante, a mio avviso, è anche il marxiano concetto secondo il quale il proletariato, organizzandosi come classe, si fa , per così dire, «partito politico».
Nelle cosiddette «primavere arabe», spacciate dal marketing politico-mediatico mondiale come «Rivoluzioni» (in Tunisia si vende la «rivoluzione» che profuma di gelsomino!), le «masse diseredate» sono state e continuano ad essere oggetto del processo sociale, ossia strumento, massa d’urto di un’iniziativa politica e sociale informata dagli interessi di una o più fazioni delle classi dominanti dei Paesi Arabi.
In Libia abbiamo addirittura assistito al paradosso di una «rivoluzione» assistita militarmente dall’imperialismo occidentale! Naturalmente non si è trattato di un paradosso, visto che siamo stati spettatori di un’iniziativa schiettamente imperialistica (soprattutto voluta dagli anglo-francesi, come ai bei tempi di Suez 1956) che ha approfittato delle crepe apertesi nel regime di Gheddafi sotto l’incalzare della ribellione della regione di Bengasi, storicamente antagonista della Tripolitania. Tanto a Bengasi quanto a Tripoli, le «masse diseredate» sono controllate e sfruttate da gruppi sociali e da clan più o meno in regola col processo storico e con l’attualità della Società-Mondo del XXI secolo. (D’altra parte, quando ancora la storia conosce un Paese come l’Afghanistan, c’è poco da sottilizzare!). In ogni caso, quindi, la lotta dell’Est ribelle non avrebbe potuto assumere i connotati di una «rivoluzione popolare», definizione dietro la quale ama nascondersi la borghesia in ascesa e il nazionalismo rampante.
In Tunisia, in Siria, in Arabia Saudita in Egitto e altrove nel «Grande Medioriente» (vedi l’Iran), classi dominanti e gruppi sociali vecchi e nuovi si contendono l’energia che promana dalla miseria delle «masse diseredate». Chi per rafforzare e stabilizzare i vecchi assetti economici e politici (è ciò che è successo in Egitto con la caduta di Mubarak: un colpo di Stato militare fatto passare per «rivoluzione»); chi per metterli in crisi, ma non tanto da squassare l’equilibrio politico-istituzionale della nazione, sperando piuttosto in un compromesso più favorevole ai suoi interessi (in fondo è ciò che auspicava lo stesso Mubarak, attraverso l’investitura del figlio Gamal, inviso ai militari per le sue manifeste simpatie nei confronti del programma di «riforme liberali» iniziato dal padre nel 2004); chi, infine, per far saltare senz’altro quell’equilibrio.
In quest’ultima rubrica vanno annoverati coloro che si battono per scongiurare la definitiva modernizzazione capitalistica dei Paesi Arabi (il fondamentalismo islamico costituisce il collante ideologico del “Partito Anticapitalista”), e coloro che, all’opposto, spingono per una loro più rapida e profonda «modernizzazione». Il “Partito Capitalista” ha nella Turchia di Erdogan il suo più importante punto di riferimento ideologico, politico e sociale. Allah è grande, ma il Capitale non scherza! Questo partito è particolarmente forte in Tunisia, ma anche in Iran trova larghi consensi presso una «società civile» che non ha smesso di svilupparsi e articolarsi all’ombra della dittatura khomeinista.
La posta in gioco è dunque alta, e la crescente rabbia delle masse, mentre rende più paurose alcune fazioni della classe dominante al potere da parecchi lustri, accresce lo spirito d’iniziativa di altre, non ancora coinvolte nella gestione diretta del potere e convinte di poter battere il ferro finché è caldo. I timidi segnali di rivolta che si registrano in Arabia Saudita penso rispondano a questa logica.
Come ho scritto altre volte, sulla scala mondiale oggi di «rivoluzionario» c’è solo il processo sociale oggettivo che ha nel Capitale il suo centro motore. «Rivoluzionario» nel marxiano senso di un processo che svapora tutto ciò che sembra stabile e immutabile (salvo, ovviamente, i rapporti sociali vigenti!): «tutto ciò che era sacro si profanizza, e gli uomini si trovano da ultimo a dover considerare le loro condizioni di esistenza con occhi liberi da ogni illusione» (Manifesto del Partito Comunista). Nel XXI secolo il Capitale ha riempito gli occhi della gente d’ogni sorta di illusione, ma questo l’uomo con la barba non poteva saperlo. In tutto il pianeta i salariati non sono che «una massa incoerente e confusa», e non è certo coltivando illusioni di «Primavere» che presto si rivelano freddi inverni che il «pensiero d’avanguardia» può aiutarli a diventare «classe per sé, e non per il Capitale». Le oceaniche manifestazioni a Piazza Tahrir devono invitare alla riflessione critica il pensiero che aspira a un punto di vista autenticamente «alternativo», resistente a ogni forma di ipnosi collettiva.
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