L’incipit dell’intervento di Slavoj Žižekalla convention di Syriza pubblicato dal Manifesto è, come spesso capita alle produzioni del filosofo sloveno, brillante e accattivante: «Al termine della sua vita Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi, fece la famosa domanda “che cosa vuole una donna?”, ammettendo la perplessità di fronte all’enigma della sessualità femminile. Una simile perplessità sorge oggi: “Che cosa vuole l’Europa?” Questa è la domanda che voi, il popolo greco, state rivolgendo all’Europa. Ma l’Europa non sa quello che vuole» (Alla fine la Grecia ci salverà, Il Manifesto, 8 giugno 2012). Tuttavia, usare la citazione freudiana come metafora in grado di illuminare la problematica “sessualità” della Vecchia Europa, se può suonare in qualche modo suggestivo, rischia di mettere subito su una falsa pista il pensiero non pago delle riflessioni mainstream – di “destra” o di “sinistra” che siano – intorno alla scottante questione europea. Ma forse è proprio il pensiero del filosofo sloveno a essere completamente sconnesso dal reale processo storico-sociale.
Innanzitutto l’Europa posta nei termini in cui li ha messi Žižek semplicemente non esiste, mentre esiste uno spazio geosociale chiamato Europa nel cui seno si “dialettizzano” capitali e sistemi-paese da sempre concorrenti fra loro. Ripeto: da sempre. La crisi economica ha semplicemente reso evidente ciò che tutti i più seri analisti politici ed economici (chissà perché quasi tutti “conservatori”) del mondo hanno detto e scritto nel corso dell’ultimo mezzo secolo, in barba alle elitarie e pasticciate chimere vendute al mercato delle ideologie dai federalisti europei «senza se e senza ma».
Ancora fino al 2008 il politico europeo (in Italia quasi sempre leghista o berlusconiano) che osava denunciare tutte le contraddizioni insite nella costruzione dell’Unione Europea e, soprattutto, dell’Eurozona, veniva subito zittito con una valanga di insulti politicamente corretti (cioè rigorosamente europeisti). «Lei è un euroscettico, s’informi!»: ecco la sanguinosa accusa. Il dogma tecnocratico di Jacques Delors (la moneta unica europea come base dell’edificio politico-istituzionale europeo) era il paradigma del buon politico europeo. Ma già nel corso della crisi finanziaria del 1992 si rese evidente come la Germania rimanesse «l’unica potenza in grado di farsi carico degli impegni richiesti per una più profonda unificazione economica e politica europea» (Robert Gilpin, Le insidie del capitalismo globale, p. 206, Università Bocconi Editori, 2000). L’integrazione economica dei diversi paesi dell’Unione non poteva non porre la questione della Sovranità Nazionale, la quale nei dibattiti fra le persone colte del Vecchio Continente veniva trattata alla stregua di un cane morto. Salvo poi scoprire che il Leviatano nazionale non ne vuole sapere di tirare le cuoia, per lasciare il posto al Moloch Sovranazionale in grado di competere ad armi pari con le altre creature mostruose che devastano l’umanità: Stati Uniti, Cina, India e via di seguito.
Come ho scritto altre volte, nel «sogno europeista» storicamente convergono (si “scaricano”) diverse e contrastanti esigenze. In primis quella di controllare da vicino la Germania: «Naturalmente, le “ambizioni egemoniche” che l’integrazione europea si riprometteva di contenere erano in particolare quelle di una nazione: la Germania. L’averla integrata e ammansita è stata la grande conquista dell’Europa» (Robert Kagan, Paradiso e potere, p. 62, Mondadori, 2003). La stessa Germania, immersa peraltro in un senso di colpa alimentato ad arte dalle potenze vittoriose, ha accettato di buon grado la camicia di forza “europeista”, e le ragioni, di assai facile comprensione, si compendiano in due date: 1918 e 1945. Due catastrofi epocali nell’arco di un tempo così breve avrebbero spezzato la volontà competitiva (un tempo chiamata «volontà di potenza») di qualsiasi nazione. Ma la Germania, se può essere contingentemente spezzata e ridotta al rango di Paese reietto, non può venir privata della sua storia e del suo corpo sociale, ossia di quella che chiamo Potenza sistemica. Tanto alla fine della Prima quanto alla fine della Seconda Guerra Mondiale gli Stati Uniti hanno fatto di tutto per sostenere un’economia tedesca ridotta ai minimi tempi, e non l’hanno certo fatto per ragioni umanitarie, le quali nel contesto della competizione globale fra le Potenze mondiali si danno come mero strumento ideologico al servizio di obiettivi radicalmente disumani. Già Keynes, nel 1919 (Le conseguenze economiche della pace), sostenne che fiaccare la Germania significava mettere nelle condizioni l’Europa di produrre nuovi e più gravi disastri sociali.
La questione europea è la questione tedesca, e chi, come Žižek, si muove all’interno della dimensione europeista, sebbene da una prospettiva “di sinistra radicale”, non può fare a meno di confrontarsi con questa realtà. È la dimensione del conflitto sistemico fra i paesi europei che va recuperata in tutta la sua radicalità sociale e storica, e mi mette un po’ in imbarazzo doverlo “ricordare” all’autore de «La violenza invisibile».
Syriza non rappresenta affatto «una nuova eresia», come crede il filosofo sloveno, quanto piuttosto una strada percorribile dalla classe dominante greca, o da alcune sue fazioni, nelle odierne critiche circostanze: è una delle diverse opzione in campo, tutte egualmente pregne di lacrime e sangue per le classi dominate, schiacciate nella falsa alternativa tra europeismo e sovranismo. «La nostra libertà di scelta in effetti funge da mero atto formale di consenso alla nostra oppressione e al nostro sfruttamento» (Slavoj Žižek, La violenza invisibile, p. 150, Rizzoli, 2008). Anche con Syriza, il KKE e tutti gli altri raggruppamenti ellenici di sinistra e di estrema sinistra ci troviamo al centro della dimensione totalitaria illuminata dallo sloveno; essi, infatti, basano la loro azione politica a partire dai «veri interessi del Paese», o del «Popolo», ossia, tradotto in concetti non ideologici e al netto di ogni rognosa fraseologia pseudomarxista (il KKE propone «il potere popolare, il disimpegno dall’Unione europea e la socializzazione dei mezzi di produzione»: il socialismo in un solo Paese?), sulla base degli «autentici interessi nazionali». E dove c’è Nazione c’è Capitale, più o meno «di Stato» o «liberista-selvaggio».
Nei 40 punti del Programma elettorale di Syriza spiccano quelli dedicati alle nazionalizzazioni: «delle banche, delle imprese ex-pubbliche in settori strategici per la crescita del paese (ferrovie, aeroporti, poste, acqua), degli ospedali privati (Eliminare ogni partecipazione privata nel sistema pubblico sanitario)». Certo, chi associa la nazionalizzazione delle attività economiche al socialismo, o a qualcosa che gli somigli (secondo lo schema della «fase di transizione dal capitalismo al socialismo»), può pure gongolare dinanzi a una simile prospettiva – peraltro coltivata da non pochi partiti di estrema destra del Vecchio Continente: dal “socialismo” al nazionalsocialismo il passo può essere davvero breve… Come dimostra la storia del “secolo breve” (dallo stalinismo al fascismo, dal nazismo al keynesismo) nazionalizzare significa espande il potere di controllo sociale del Leviatano, magari in cambio di qualche briciola in più fatta cadere sulle masse proletarie: prima soddisfare i bisogni del corpo! È il triste «materialismo triviale» formato Diamat.
Può anche darsi che il nostro amico sloveno pensi di poter usare “tatticamente” Syriza per conseguire «più avanzati obiettivi», secondo quella che mi piace definire sindrome della mosca cocchiera. Purtroppo la mia indigenza in fatto di dialettica mi impedisce di cogliere il significato dell’ipotizzato “entrismo”, il quale a mio modesto avviso si risolve, puntualmente e necessariamente, in una politica al servizio di questo o quell’altro interesse capitalistico e/o nazionale: Grecia o Unione Europea, Euro o Dracma, Stato o Privato, Europa o America, Occidente o Oriente, e via di seguito. Quando si coltivano troppe illusioni, facilmente si corre il rischio di rimanere vittime dell’astuzia del Dominio.
D’altra parte, cosa abbia in testa Žižek quando parla di rivoluzione lo si evince da quanto segue: «Permettetemi ora di finire con una nota personale. Odio la sinistra tradizionale, intellettuale, che ama la rivoluzione, ma la rivoluzione che avviene in qualche luogo lontano. Era così quando ero giovane: più lontano è, meglio è, Vietnam, Cuba, ancora oggi, Venezuela». Lasciamo stare, qui, il Vietnam e Cuba, anche per rispettare la speranzosa gioventù del filosofo; ma farsi ancora delle illusioni persino sul Venezuela di Chávez!
È proprio vero: per trasformare il mondo occorre prima capirlo. Ma anche: First as Tragedy, Then As Farce.
la chiamerei sindrome di Dreyfuss: l’illusione degli intellettuali di mettersi “a capo” di qualcosa che si risolve invariabilmente nel mettersi “a fianco” del potere. L’atteggiamento da rockstar di Zizek spesso mi infastidisce. Da notare nel programma di Syriza la nazionalizzazione delle banche, punto programmaticamente onirico se si ambisce a rimanere all’interno dei trattati europeisti.
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Grazie per il link!
caro sebastiano
posso dire che in questi mesi ho frequentato lungamente il tuo pensiero e mi sono appropriato in parte della tua terminologia, che trovo adeguata alla critica del nostro tempo.
vorrei porti alcune domande:
nella dialettica libera individualità-comunità umana universalmente intesa Marx sembra non inserire alcuna mediazione, se non quel “governo dell’ amministrazione” di cui abbiamo già parlato. Mi sembra però che nella sostanza l’ipotesi sia di un rapporto diretto tra l’individuo umanizzato e l’umanità tutta. In realtà il problema mi sembra non affrontato, perchè un rapporto dialettico si compone dinamicamente di tre interlocutori, e mi sembra non che non si dia soluzioni, ma che non ci si ponga proprio il problema di una mediazione fra intimo e comune, rapporto che si problematizza appunto nel paese, nella famiglia, nel quartiere . Si critica a fondo e con ragione la comunità locale, organica e proprietaria, dove si riproduce “la vecchia merda” della produzione pre-capitalistica, ma poi (ma magari non ne so abbastanza) si tralascia il problema della comunità locale e della famiglia, cioè di chi poi invera l’universalità nel rapporto incarnato e quotidiano tra libere individualità.
Anche tu, mettendo in rapporto diretto Marx con Stirner (che non andavano affatto daccordo) mi pare tendi a non considerare il problema.
Problema che, per venire all’oggi, è posto dall’intricatissimo rapporto fra capitale e popoli aggregati attorno ad una lingua, che si sono costituiti (ne conosciamo la genesi effettuale) in stato nazionale. Da questo punto di vista sono vicino all’area comunitarista, soprattutto dal punto di vista teorico, mentre spesso me ne discosto dalle posizioni rispetto alla cronaca politica spiccia. Siamo credo daccordo che il capitalismo globalizzante è il veicolo che la prassi sociale sta usando per diffondere la consapevolezza incarnata e diffusa che è l’umanità stessa esistente l’unico titolare dell’umanità , sia pur attraverso una potenza del negativo che ancora farà male. Ma per quanto riguarda le mediazioni, non le ritieni necessarie?
Se ho capito bene poni il problema, sul piano della prassi e non della mera riflessione teorica (il darsi della cosa, non la sua astratta possibilità), del rapporto tra l’individuo e la sua comunità nella società postcapitalista. Certamente il rapporto tra particolare e universale non può essere immediato, diretto, anche nella comunità che si è liberata dalla necessità della politica in ogni sua configurazione organizzativa (dallo Stato ai partiti, e così via). Anche lì dovrà darsi necessariamente il momento della mediazione, un medium umanizzato, non c’è dubbio. La ricerca della concreta “mediazione comunitaria” conosce tuttavia un limite oggettivo, per così dire materialistico: non è possibile essere troppo concreti sul futuro, perché viceversa si corre il rischio di proiettarvi sopra l’odierna merda, sempre per esprimerci col raffinato gergo del vecchiaccio di Treviri. La cattiva utopia è sempre in agguato.
Ad esempio, la famiglia non va considerata come una forma sociale definitiva, insuperabile, tetragona, almeno nei suoi aspetti essenziali, ai mutamenti sociali. D’altra parte risulta assai difficile concettualizzare il suo destino a partire dal presente. Di più: ha senso, a prescindere dalla reale possibilità di una simile operazione, anticipare un processo sociale di cui ovviamente non sappiamo nulla? Anche qui il momento critico-negativo fa premio su quello costruttivo-positivo. Si tratta, a mio avviso, di mettere in discussione la “naturalità” di tutte le istituzioni sociali, metterne in luce la maligna radice storico-sociale (che si compendia nel concetto di società classista), e per questa via affermare la possibilità dell’umanizzazione di tutte le relazioni sociali, anche quelle che fanno capo al rapporto fra i sessi e fra genitori e figli. Noi siamo le nostre relazioni sociali, nell’accezione più profonda e totalizzante del concetto. Come poi nei fatti, concretamente, possa realizzarsi questa prospettiva è difficile dire, e forse oggi la cosa non sarebbe neanche centrale nell’elaborazione della teoria critico-radicale.
D’altra parte, come amava dire Marx (e praticare Lenin: «Tutti i poteri ai Soviet!»), l’umanità trova sempre le risposte alle sfide che il tempo le pone. E nelle risposte naturalmente colloco la peculiare funzione del soggetto politico rivoluzionario – e qui, ovviamente, l’ombra del grande comunista russo torna a fare capolino. Avremo modo, penso e spero, di toccare in futuro anche il senso di questa funzione nella realtà del Capitalismo mondiale del XXI secolo, dopo secoli di dominio del Capitale e decenni di devastazione stalinista delle coscienze.
Oggi deve prevalere, sempre all’avviso di chi scrive, «la critica senza riguardi di tutto ciò che esiste», ossia il momento critico-distruttivo-negativo, ad esempio attraverso la critica di quello che il pensiero progressista, anche quello più “radicale”, ci presenta come rivoluzionario, e comunque come alternativo al “Capitalismo mainstream”. Mi riferisco a tutte le illusioni intorno al “Comune”, alle “primavere arabe”, alle “rivoluzioni” in salsa latinoamericana: ieri ho letto un post di Contropiano.com che descrive Evo Morales come il nuovo apostolo del “socialismo umanitario”! E, bada bene, non si tratta solo, o soprattutto, di mettere in discussione il carattere non “marxista” di quelle illusioni, ma innanzitutto di affermarne il carattere reazionario, antiumano, e per questa via affermare un punto di vista alternativo (io l’ho chiamato «umano»), presentandolo come quello che noi, non Marx, vogliamo in questa fase storica in rapporto al possibile futuro. Ma anche su questo punto fondamentale avremo modo di confrontarci.
Poste tutte queste “cautele” metodologiche, nulla osta a entrare nel merito della questione che hai posto – almeno secondo quello che ho capito – circa la dialettica fra individuo e comunità, e per questo ti sprono a fare anche tu dei passi descrittivi in avanti, in modo da focalizzare meglio il problema.
Per quanto riguarda la lotta politica, anch’io ovviamente pongo le mediazioni, e anzi, come insegnava Lenin e come problematizzavano fecondamente «il giovane» Lukàcs e la coeva sinistra comunista occidentale, tutta la politica rivoluzionaria si risolve nella ricerca del corretto rapporto tra teoria e prassi, tra tattica e strategia, tra obiettivi “minimi” e obiettivi “massimi”, perché il pensiero radicale rifugge come la peste tanto l’astratto estremismo massimalista e parolaio (alla Mussolini e alla Bombacci, tanto per fare degli esempi storici), quanto la realpolitik – e qui gli esempi da citare sarebbero troppi… La concettualizzazione della sindrome della mosca cocchiera si colloca in questa costellazione di idee. Lungi dall’aver risolto, sul piano della teoria e, men che meno, su quello della prassi questo problema, sono piuttosto nel pieno del lavoro teso a porlo nella maniera più corretta. Di qui la critica del sovranismo, ad esempio, e di tutte le posizioni che tendono a trasferire la lotta di classe sul piano della contesa interimperialistica. Per me la mediazione è fuori discussione, perché essa sta al cuore della dialettica reale e concettuale; si tratta piuttosto di stabilirne la qualità e la direzione di marcia. E qui, per adesso mi fermo, e mi scuso in anticipo se non ho inteso le tue intenzioni “problematiche” o se sono stato troppo elusivo.
Per quanto riguarda il rapporto Stirner-Marx trovi qualcosa su Eutanasia del Dominio, nei testi scaricabili. Tieni presente che si tratta di appunti di studio sistemati alla buona.
Come sempre ti ringrazio per l’attenzione e ti saluto!
grazie per il tempo e l’impegno che hai speso per decodificare le mie parole.
senza approfondire ora il discorso intrapreso, sappi che sono isolatissimo da molti anni e quindi non parlo mai per appartenenza identitaria o settarismo, ma per il puro piacere di capire, piacere che concorre anche a farmi respirare
Condividiamo lo stesso isolamento (purtroppo!) e lo stesso piacere (per fortuna!). Grazie a te. Ciao!
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