Ieri, nel corso del suo intervento al convegno sulle piccole e medie imprese organizzato dai Radicali Italiani a Padova, Emma Bonino ha dichiarato quanto segue: «Quando parliamo di equità non dobbiamo dimenticare che a novembre del 2011 eravamo sull’orlo del baratro. La prima misura di equità è stata salvare il Paese dal fallimento, perché il suo fallimento avrebbe implicato una maggiore sofferenza per tutti, a cominciare dai più deboli». Concordo in pieno con questa affermazione, o, meglio, ne condivido il concetto generale.
Infatti, nell’ambito della vigente società la salute di un Paese, ossia dello status quo capitalistico, molto spesso fa la differenza fra la sopravvivenza “dignitosa” e la miseria più nera di gran parte dei suoi cittadini. Solo in un caso il fallimento di un Sistema- Paese ha il benigno significato della promozione di nuovi e più avanzati rapporti sociali: in caso di rivoluzione sociale. In questo caso non solo i «più deboli» non ne sarebbero danneggiati, ma anzi se ne avvantaggerebbero grandemente, essendo peraltro essi stessi i protagonisti assoluti di quel catastrofico evento.
La rivoluzione sociale, quando non è una frase vuota buona da spendere nei salotti benecomunisti, non può darsi che come fallimento di un Paese, come catastrofe, anzi: come feconda catastrofe, nella misura in cui essa “getta” le fondamenta di un edificio sociale superiore. (E mi scuso per la vetusta metafora “strutturalista”, che forse mi deriva da mio padre: un muratore!). Per questo Carlo Cafiero ha potuto scrivere che «L’operaio ha fatto tutto; e l’operaio può distruggere tutto, perché può tutto rifare».
Alla vigilia del “fatale” voto in Grecia i teorici della bancarotta «qui e subito», nel seno degli odierni rapporti sociali, e quelli che pongono il falso dilemma: uscire o non uscire dall’euro? uscire o non uscire dall’Unione Europea? farebbero bene a riflettere sul reale significato politico delle loro posizioni “rivoluzionarie”. Soprattutto dovrebbero chiedersi se la vera, ancorché oggi puramente teoretica, domanda da porsi non sia piuttosto la seguente: uscire o non uscire dal Capitalismo?
Chi pensa che l’uscita del Paese (Grecia? Spagna? Portogallo? Italia?) dall’Unione Europea e/o dall’euro sia “oggettivamente” un passo nella giusta – anticapitalistica? – direzione inganna se stesso e chi è disposto a concedergli fiducia. Il sovranismo politico ed economico, come quello espresso in Grecia soprattutto dai partiti della “sinistra radicale” (da Syriza al KKE) è il veleno che una parte della classe dominante europea sta cercando di inoculare nelle vene delle classi subalterne, sempre sensibili ai richiami del nazionalismo, soprattutto in tempi di crisi economica. Come ho scritto altrove, il sovranismo è un’opzione tutta interna alla contesa intercapitalistica, tanto sul fronte interno, quanto su quello esterno. Il fatto che, come informava ieri, gongolando, Il Manifesto, la campagna elettorale di Syriza si è chiusa al canto di Bella ciao la dice lunga sul socialnazionalismo di questa formazione politica. Evidentemente c’è un «invasor» da cacciare fuori dalle amate sponde nazionali.
Il Capitale, in tutta la sua maligna dimensione sociale e in tutta la sua portata internazionale, e non la falsa alternativa fra economia nazionale e integrazione economica sovranazionale, è il vero problema, ed è precisamente a partire da questa radicale consapevolezza che bisogna organizzare le lotte contro la politica dei sacrifici, tanto nella sua configurazione rigorista (o “tedesca”) quanto nella sua variante progressista e sovranista. Senza alcun riguardo per la salute del Paese. Fuori da questa prospettiva valgono solo le ragioni del Capitale, nazionale e internazionale, così ben rappresentate da Emma Bonino, non a caso la più onesta, intelligente e meritocratica dei leaders italioti.
Dimenticavo: la “teoretica” non è separata da un abisso dalla prassi; ovvero: essa getta ponti sull’abisso.