L’ARIA INQUINATA DI TARANTO E L’ARIA FRITTA DELLA ROSSANDA

«Si deve essere ecologisti. Ma quindi anticapitalisti. O, come minimo, sostenitori di una primazia del pubblico sull’economico, in modo da determinarne l’indirizzo e la non dannosità per l’ambiente. Perché non si dice anche questo? Perché dal 1989 in poi non si ha più coraggio di dire nuda e cruda la verità sul meccanismo dell’impresa del capitale, nonché sulla rinuncia della sfera politica, continentale o nazionale, a controllarle». Così parlò ieri Rossana Rossanda.

Se ne ricava che, secondo la “vecchia signora del comunismo italiano”, il controllo dello Stato (il concetto di «pubblico» allude al Leviatano, non giriamoci ideologicamente intorno!) nella sfera economica «come minimo» non contraddice la prassi anticapitalistica. Come «massimo» potrebbe anzi favorirla. E se ne ricava anche che, sempre secondo la Signora in questione, il noto – e per i “comunisti” del Manifesto famigerato – evento verificatosi nel 1989 avrebbe provocato una cesura storica, tutta a vantaggio del sistema capitalistico mondiale e a bruciante svantaggio delle classi dominate del pianeta. La Rossanda non avrebbe scritto le panzane di cui sopra se non fosse una nostalgica (in ottima compagnia, beninteso) della «guerra fredda», quando almeno al Capitalismo si contrapponeva un «socialismo reale» certamente non con tutte le carte in regole rispetto all’ideale (sic!), ma quantomeno in grado di porre una realistica alternativa al Capitalismo liberale di stampo occidentale (sic al cubo, anzi: all’ennesima potenza). L’attuale nostalgia di molti “comunisti critici” getta luce sulla debolezza politica e teorica delle loro critiche al «socialismo realizzato» di ieri.

Da notare anche, nella Rossanda, un rigurgito di socialsovranismo, sotto forma di rivendicazione dell’autonomia del politico dall’economico, che non mancherò di monitorare.

Può essere credibile una critica “anticapitalistica” svolta da chi ha sempre messo nello stesso sacco capitalismo di Stato e socialismo, magari giocando nei salotti “radical-chic” con insulse teorie intorno alle «fasi di transizione» da un modo di produzione all’altro? Certo, rispetto alle «ex sinistre» che prende come proprio bersaglio polemico la Rossanda può sperare di fare bella figura, ma i compagni presi di mira sono talmente malmessi, che alla fine la stessa “comunista”, criticandone le – supposte – contraddizioni, non esce tanto bene dal confronto. La forza del «movimento operaio italiano» negli anni Sessanta e Settanta è un mito duro a morire presso l’ambiente sinistrorso del Bel Paese, e si capisce il perché: allora il sinistrismo politico-sindacale di matrice “comunista” (leggi: stalinista-togliattiano-maoista) era «egemone», per usare il linguaggio dei suoi militanti. Le fortune politico-culturali di quel vasto e «composito» fronte erano in gran parte radicate, per un verso  nell’assetto geopolitico uscito dalla seconda guerra mondiale (ruolo di superpotenza dell’Unione Sovietica, funzione ascendente della Cina almeno sul terreno della contesa politica internazionale, premessa della futura ascesa economica del grande Paese asiatico); e per altro verso nella struttura del Capitalismo italiano, molto “infiltrato” dallo Stato. Negli anni Ottanta, ai primi scricchiolii del vecchio ordine mondiale e dell’assetto economico-sociale dell’Occidente (definitiva chiusura del ciclo keynesiano, esigenza di una radicale ristrutturazione sistemica del Capitalismo), quella radice stalinista e statalista inizia a indebolirsi. Il resto è cronaca, noiosa e maledetta cronaca.

Insomma, dall’aria mefitica di Taranto, il cui corpo sociale è da decenni sottomesso alla maligna «logica del profitto» (per un giorno sono dalla parte della legalità, signori manettari: parlo il linguaggio della magistratura ecologicamente corretta!), all’aria fritta dei “comunisti”.

«Per l’Ilva, come qualche anno fa per la val di Chiana, non c’è dilemma fra lavoro e ambiente, c’è un sistema di proprietà, accettato dalle ex sinistre, che distrugge l’uno o l’altro, o tutti e due» (Ilva, i corni del dilemma, Il Manifesto, 31 luglio 2012). Così termina l’editoriale della nostra amica. Qui si allude forse al lavoro salariato (quello messo al centro della Santa Costituzione Italiana), il cui presupposto è il rapporto sociale capitalistico, con annesse “controindicazioni” – inquinamento ambientale incluso? Si allude al «sistema di proprietà» capitalistica, o semplicemente al regime privatistico di questo «sistema»? Domanda finale (abbastanza retorica e suggestiva): alle classi dominate del pianeta ha fatto più danni l’inquinamento delle industrie, come da copione del Capitalismo almeno da due secoli a questa parte, o l’inquinamento ideologico provocato dai figli e poi dai nipotini dello stalinismo-maoismo internazionale? Per quanto mi riguarda individuo questo dilemma, questo vero e proprio Aut-Aut: o la vita umana (prassi lavorativa inclusa) o l’ambiente sociale capitalistico, necessariamente disumano a cominciare dal lavoro a cui gli individui sono costretti per campare.

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