DAS VOLLENDETE GELDSYSTEM

«Ciascun individuo possiede il potere sociale nella sua tasca sotto forma di una cosa. Togliete alla cosa questo potere sociale, e dovrete dare questo potere immediatamente alla persona» (Dal manoscritto di Marx del 1851 Das vollendete Geldsystem – Il sistema monetario perfetto). Ma la «cosa» è un rapporto sociale.

La moneta unica europea ha una dialettica interna molto interessante. Per molti versi essa è una moneta sui generis, perché le manca il supporto della Sovranità. Battere moneta e dichiarare la guerra erano un tempo le due più importanti prerogative che definivano la Sovranità nazionale: spada e zecca. «Il denaro posto nella forma di mezzo di circolazione è moneta», e in questa guisa esso «perde il suo carattere universale, per assumerne uno nazionale, locale … Riceve un titolo politico e parla per così dire una lingua diversa nei diversi paesi» (K. Marx, Lineamenti, I, pp. 187-188, La Nuova Italia, 1978). Che lingua parla l’euro? L’esperanto? o la lingua matematizzata di Giuseppe Peano?

L’euro non ha dietro di sé nessuna Sovranità nazionale, né l’Unione Europea di cui essa è emanazione può considerarsi, nemmeno alla lontana, alla stregua di una entità politica di pari rango rispetto a quella statuale. Sappiamo che proprio intorno a questa grave anomalia si sono avviluppate le contraddizioni economiche e politiche che hanno messo in profonda crisi l’intera costruzione europea, o, più correttamente, l’idea che di essa si erano fatta gli europeisti. Questa anomalia per così dire cosmopolita essa ovviamente la condivide con la BCE, una banca a sua volta molto sui generis, «né carne né pesce», per dirla con i suoi moltissimi critici e detrattori. Non erroneamente si paragona la Banca Centrale Europea alla Federal Reserve, per sottolineare i limiti che derivano alla prima dalla sua inconsistenza politica, non essendo emanazione di uno Stato unitario, ancorché federale.Tuttavia, proprio questa sua “neutralità” politica, questa sua natura sovranazionale e apolide, ha fatto dell’euro per molti aspetti una moneta perfetta dal punto di vista della dinamica capitalistica, e non a caso è stata soprattutto la Germania, ossia la società capitalisticamente più forte dell’Unione, la prima nazione esportatrice d’Europa e tra le prime nazioni a livello mondiale, che alla lunga ha tratto i maggiori benefici dall’introduzione della moneta unica. Il denaro in quanto «equivalente universale di ogni cosa» è, per dirla con J. Steuart, «misura della potenza delle diverse nazioni».

Né, d’altra parte, i tedeschi avrebbero mai accettato l’euro se non avessero avuto la certezza, economica se non matematica, che da esso non sarebbero derivati problemi alla loro economia e alla loro compatta ed efficiente organizzazione sociale. Com’è noto, in fatto di moneta la Germania è sempre stata particolarmente sensibile, e solo dopo un attento esame della situazione e la sottoscrizione da parte dei partner europei di un trattato (firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992 ed entrato in vigore il 1° novembre 1993) che le offriva sufficienti garanzie essa ha rinunciato al marco. Non a cuor leggero. Rinunciato peraltro solo formalmente, perché il vecchio e prestigioso conio teutonico in realtà continua a vivere, sebbene in una dimensione spettrale, e tuttavia pronto a subentrare alla moneta unica in caso di catastrofe politico-finanziaria. Il marco è l’invisibile centro di gravità attorno a cui ruota la moneta unica, che se guardata in controluce lascia chiaramente intravedere il «segno di valore» basato a Berlino. Un marco “truccato”, perché svalutato, e proprio per questo quanto mai utile all’export tedesco. Insomma, un sistema monetario perfetto!

Non c’è giorno che passi senza che il gruppo di banchieri che fanno capo alla BundesBank e che siedono nel Consiglio direttivo della BCE non ricordi a Mario Draghi il peso specifico che ogni economia nazionale dell’eurozona ha nel determinare la struttura economico-finanziaria dell’Unione. Ancora ieri il temuto Presidente della Banca Centrale Tedesca ha ammonito “Super Mario” a non trasformare la BCE in una specie di spaccio per tossicodipendenti: se le cicale vogliono salvarsi devono fare sacrifici e trasformarsi in formiche, e abbandonare una volta per tutte l’idea che si possa vivere eternamente a debito. La “crisi d’astinenza” della Grecia può solo farle bene. La guerra non serve forse a selezionare i migliori? «E i più deboli?» Si arrangino come possono! Ad esempio, scatenando una micidiale guerra fra miserabili.
Prima dell’introduzione della moneta unica i Paesi meno competitivi potevano giocare col cambio, e le svalutazioni competitive di marca italiano hanno fatto scuola in tutto il Continente. Il livellamento generato dal cambio fisso tarato su un alto standard (quello rappresentato dal marco, c’è bisogno di specificarlo?) ha reso impraticabile il vizietto italiano, e costringe i Paesi dell’«Europa periferica» a puntare su un assai diverso modello di competizione sistemica: di qui l’attuale crisi del debito sovrano in Portogallo, Grecia, Spagna e Italia. Alla lunga i reali valori dei singoli Paesi dell’Unione, prima nascosti dietro una sempre più obesa e improduttiva spesa pubblica, sono emersi, inevitabilmente, con grande disappunto per quelli di loro che per almeno un decennio hanno vissuto molto al di sopra delle loro possibilità. La crisi economica ha semplicemente accelerato e reso drammatico un processo che comunque avrebbe prodotto i risultati che ci stanno dinanzi. Come sempre, alla fine i nodi devono venire al pettine, e la politica del buttare la palla avanti e indietro, in attesa di un fischio finale che tutti sperano non arrivi mai, se non nei keynesiani tempi lunghi, ha mostrato tutta la sua inconsistenza. La partita è davvero finita, e supplicare l’arbitro perché conceda ancora tempo supplementare è uno spettacolo penoso, di più: grottesco. «Non potete spendere più di quello che avete incassato!», grida la formica tedesca alle cicale, sorda a chi le fa notare che soprattutto le industrie e le banche tedesche si sono avvantaggiate della “viziosa” generosità delle cicale.

Chi usa quest’ultimo argomento in funzione antitedesca mostra tutta la sua grossolana ingenuità, la sua ignoranza intorno al funzionamento del sistema sociale capitalistico (non solo della sua «sfera economica»), oltre che la sua ottusità sovranista. Né ha molto senso “ricordare” alla Germania come in un passato non troppo remoto dalle sue parti il rapporto deficit pubblico-Pil non è stato sempre irreprensibile, anche perché essa avrebbe facile gioco nel ricordare ai critici poco credibili che il disallineamento dai noti e famigerati parametri è stato contingente e soprattutto virtuoso (sempre per la Germania!), ossia teso a creare nel Paese le premesse della lunga cavalcata competitiva che alla fine ha presentato il conto a tutti i concorrenti europei, a iniziare dall’Italia. Anche qui: c’è disavanzo e disavanzo, spesa pubblica (volta ad esempio al sostegno delle ristrutturazioni competitive delle imprese e del Welfare: è appunto il caso della Germania) e spesa pubblica (tesa ad esempio a mantenere in vita una struttura sociale largamente parassitaria: ci siamo capiti!).
La potente pompa capitalistica tedesca ha risucchiato enormi capitali dal resto dell’Europa attraverso un semplice salto di pressione sistemica. In effetti, più che sullo squilibrio fiscale, dovuto a reali o supposte diversità culturali e antropologiche fra l’ex area del marco e il Mezzogiorno europeo, l’attenzione dovrebbe piuttosto essere accesa sullo squilibrio commerciale, uno squilibrio delle partite correnti sorto sulla base dell’interscambio commerciale intracomunitario. Si calcola un surplus di 1300 miliardi accumulato in dieci anni, a partire dal primo gennaio 2002, anno di adozione formale della moneta unica nell’eurozona (secondo la Statistisches Bundesamt – Destatis, l’Istat tedesco). Al cospicuo surplus commerciale tedesco, di “livello cinese” (oltre il 5 per cento del Pil), ha fatto riscontro almeno negli ultimi dieci anni il deficit commerciale dei partner europei. Una buona parte di questo surplus commerciale è investita in titoli di Stato dei Paesi dell’eurozona in deficit commerciale, e in tal modo il cerchio competitivo tedesco si chiude in un modo estremamente fruttuoso per la Germania e nel modo esattamente opposto per quasi tutti i Paesi suoi concorrenti dell’eurozona, che si ritrovano indeboliti tanto sotto il rispetto industriale, quanto dal punto di vista finanziario. La spoliazione economica di questi Paesi da parte del Capitale tedesco è quindi totale, e ciò, tra l’altro, conferma l’idea secondo la quale l’imperialismo è un fenomeno sociale immanente al Capitalismo altamente sviluppato.

Come sempre, a scanso di odiosi equivoci, tengo a precisare che nella rubrica Imperialismo colloco tutti i Paesi europei, grandi e piccoli, “carnefici” e “vittime”, la potente Germania come la mentecatta (capitalisticamente parlando, è chiaro) Grecia. Dalle mie parti il patriottismo (anche quello federale-europeo), il nazionalismo, il sovranismo e l’invidia per chi sulla scena appare il più forte stanno a zero. L’ineguaglianza nello sviluppo economico-sociale dei Paesi è, sulla base del Capitalismo mondiale, non un accidente o il frutto di politiche scientemente predatorie, ma un fenomeno fisiologico, il cui dispiegarsi peraltro cambia continuamente di forma, come dimostra l’ascesa nella competizione capitalistica globale di Paesi che fino a mezzo secolo fa arrancavano nelle ultime posizioni.

L’esistenza di una moneta unica nel contesto di un’area economica gravata da un cronico squilibrio commerciale impedisce quella dialettica valutaria (rivalutazione a un polo svalutazione al polo opposto) che un tempo “aggiustava” in qualche modo le cose fra i competitori europei, e ciò rende assai problematica l’esistenza dell’euro. «Il sistema produttivo tedesco, come un vero panzer, ha macinato nel campo dell’export risultati strepitosi nell’arco di un decennio, senza che vi sia mai stato un anno con un segno meno, salvo che con le più piccole Olanda, Irlanda, Slovacchia, paesi con i quali registra spesso dei deficit commerciali. Si tratta quindi di una superiorità strutturale nei confronti degli altri paesi comunitari, che consente di affermare in modo semplice e diretto, senza tema di essere smentiti, che a guadagnarci dal mercato unico e dall’euro c’è stato finora, in sostanza, un solo paese: la Germania» (Adriano Bonafede e Massimiliano Di Pace, Economia & finanza, Repubblica.it, 18 giugno 2012).

Lo squilibrio fiscale che si registra nell’eurozona è insomma in larga misura il riflesso di uno squilibrio sistemico ben più profondo, che ha nella cosiddetta economia reale il suo più importante centro di irradiazione. Inutile dire che chiedere alla Germania di diventare meno capitalisticamente virtuosa, magari attraverso generosi aumenti salariali e una frenata nella sua produzione orientata alle esportazioni, è come supplicare il campione centometrista di fare a meno di una gamba per rendere la corsa meno… sperequata. «Ora che l’Europa ha bisogno della Germania, ed in particolare del suo assenso verso i dibattuti Eurobond (o altri meccanismi simili), Berlino può riflettere sul fatto che vi sono buoni motivi per dimostrarsi riconoscente verso i propri partner europei, che hanno contribuito in maniera così determinante al suo benessere» (Adriano Bonafede e Massimiliano Di Pace). Più volte la Germania ha manifestato l’intenzione di «dimostrarsi riconoscente», ma a una precisa e imprescindibile condizione: avere la possibilità di controllare da vicino, da molto vicino, ogni singolo euro prodotto dal «lavoro tedesco» che va nella direzione dei Paesi bisognosi di “aiuto fraterno”. «Ma questo significa lasciarsi commissariare dalla Germania!» Si tratta, piuttosto, di trasformare in Diritto ciò che ormai è un fatto. Oppure, si salvi chi può!

La «Nazione europea» di cui parla Ernesto Galli della Loggia, «Cioè un’Europa che sia consapevole di tutto il suo passato, della portata e del significato dei valori e delle potenzialità di questo; che sia decisa a far valere gli uni e le altre nell’arena mondiale», non può che costituirsi intorno a un nucleo sistemico forte, che oggi fa perno sull’area germanica. Il «momento fondativo della politica, del “politico” in quanto riassunto di visione storica e d’intensità etica convergenti in un’appassionata determinazione», come egli scriveva sul Corriere della Sera del 20 agosto scorso, è una pura astrazione dottrinaria, un’illusione idealistica (speculare al «materialismo volgare» che giustamente Galli della Loggia ha rinfacciato ai tecnocrati alla Delors), se non trova il suo necessario radicamento sociale. E oggi il “sociale”, sul terreno delle relazioni intereuropee, parla il linguaggio della prassi economica. Chi odia l’idioma tedesco può sempre tapparsi le orecchie…

La donna più potente del pianeta.

«Quando arriveremo sull’orlo del precipizio, sono sicurissimo che apriremo gli occhi e ci salveremo tutti insieme», ha bofonchiato qualche giorno fa  Romano  Prodi a proposito del «sogno europeista». Giuliano Amato ha detto la stessa cosa, e in generale gli europeisti sono convinti che a un passo dal baratro la politica prenderà il sopravvento sulle «cieche leggi del mercato». E se stessimo già scavando sul fondo del baratro?

7 pensieri su “DAS VOLLENDETE GELDSYSTEM

  1. “…e dovrete dare questo potere immediatamente alla persona sulla persona.” Delineate in una frase le due civiltà: quella dipendenza personale e quella dell’indipendenza personale, con tutte le loro antitesi rispetto all’intero sociale – che genera le antitesi stesse.

    credo di aver capito che per certi versi tu ritenga opportuno, per il pensiero critico, lasciar fare il Capitale in quanto espressione principe della prassi sociale, e lasciarlo fare soprattutto perchè esso è involontario veicolo di ulteriori incontrollabili trasformazioni.
    Coerentemente poni l’autonomia di classe (che per ora non mostra un proprio nuovo soggetto politico che ne condensi altri attorno a sè) come bussola per orientarsi nel continuo rivoluzionarsi delle forme sociali capitalistiche.

    fatte queste premesse tu alla fine pensi sia più praticabile lo spazio politico europeo o ne ipotizzi uno globale?

    • A mio avviso l’alternativa non si pone in questi termini: contrapporsi al Capitale colto nel suo quotidiano divenire ovvero non contrapporvisi. Da anticapitalista radicale (nel senso marxiano delle radici ecc.) mi pongo piuttosto il problema di come sia possibile contrapporsi al dominio sociale capitalistico a partire dalle sue mille manifestazioni empiriche. Insomma, non credo in un’astuta, o dialettica, ragione della storia, per cui dal male nascerà necessariamente il bene. Ogni tipo di concezione teleologica – o millenaristica – del processo sociale è estranea al mio pensiero. Si tratta invece di non coltivare l’illusione che le lotte possano in qualche modo cambiare la natura del Capitalismo, deviarlo dal suo micidiale e disumano alveo, bensì di concepire la lotta di classe, a qualsiasi livello e intensità, alla stregua della marxiana «palestra di comunismo». Di qui il fondamentale concetto di «autonomia di classe», molto difficile da teorizzare e praticare nei tempi in cui viviamo, per una serie di motivi (controrivoluzione stalinista, retaggio stalinista, strapotenza del Capitalismo globale, ecc.) che cerco di sviscerare in questo blog.
      La politica anticapitalistica è praticabile, a mio avviso, a ogni livello sociale (dalle piccole alle grandi lotte, da quelle “economiche” a quelle più politiche ed “esistenziali”) e geopolitico (quartiere, città, regione, nazione, continente, mondo). Si tratta piuttosto di attrezzarsi teoricamente e politicamente, in modo da imparare a “coniugare” tattica e strategia, mezzi e fini, livello “economico” e livello politico, presente e futuro, a partire da alcune tesi centrali. Ad esempio: lo Stato capitalistico non può essere usato in alcun modo nella lotta di emancipazione. Oppure: la dimensione del Paese è la dimensione del dominio sociale capitalistico, gli interessi generali che fanno capo alla Nazione sono gli interessi delle classi dominanti. Altre tesi analoghe si possono rintracciare nei miei scritti.
      Chiedere lumi al passato del movimento operaio è cosa giusta solo se si hanno ben chiari i limiti di questa opzione; infatti, abbiamo a che fare con una potenza sociale straordinariamente forte a paragone di quella del passato. Ci muoviamo in una “terra incognita” e l’originalità non è una scelta ma una condizione oggettiva. Siamo costretti a essere originali, obtorto collo, nostro malgrado. Almeno io attribuisco questo significato al mio impegno. Va da sé che per il sottoscritto originalità non equivale ad eclettismo, né in fatto di teoria né per ciò che concerne la prassi. So di essere stato general-generico come al solito, e me ne dispiaccio. Ti ringrazio per l’attenzione e ti saluto.

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