Scrive Riccardo Bellofiore: «Se il problema non è il neoliberismo, ma il capitalismo tout court, allora torna in qualche misura sul tappeto il nodo del “socialismo”. In condizioni però di debolezza estrema: e dopo che la storia ha mostrato che la pura e semplice modifica dei rapporti di proprietà soddisfa più chi la promuove che i soggetti in nome dei quali viene proclamata» (R. Bellofiore, La crisi globale, l’Europa, l’euro e la sinistra, p. 73, Asterios Ed., 2012). Vada per la «debolezza estrema» dei soggetti politici e sociali che oggi avrebbero l’interesse, o semplicemente il desiderio di promuovere il superamento rivoluzionario del Capitalismo, in «vista di una più elevata formazione economica», per dirla con Marx. Su questo punto, come si dice tra noi del volgo, non ci piove: l’impotenza politico-sociale delle classi dominate non è un’ipotesi, è una dolorosa certezza.
È piuttosto l’altro passaggio che non mi convince: a quale storia si riferisce Bellofiore? Ma a quella dell’Unione Sovietica e della Cina maoista, non è ovvio? Ed è appunto questa ovvietà che occorre mettere radicalmente in discussione, tutte le volte che se ne affaccia l’occasione, anche a costo di noiose ripetizioni.
Forse Bellofiore sostiene che alla costruzione economica del Socialismo in Russia e in Cina non è corrisposta un’analoga costruzione sociale-esistenziale, tesa a soddisfare «i bisogni di un’umanità evoluta» (Marx)? La cosa non è chiara, e ciò mi permette di ribadire questa fondamentale tesi: la scomparsa della proprietà privata dei mezzi di produzione non segna in alcun modo il superamento del Capitalismo. Il carattere essenziale (peculiare) della vigente formazione storico-sociale non va individuato nell’esistenza della proprietà privata, come vuole la vulgata social-statalista prima e dopo Lassalle, ma nel potere sul lavoro sociale esercitato in guisa sempre più scientifica e dispotica dal Capitale. La natura sociale anche della proprietà privata è un’elementare nozione che certamente non sfugge alla scienza di Bellofiore.
Per Marx il «detentore di capitali» non è che un funzionario al servizio di una potenza sociale, e per questa ragione la natura giuridica di esso (personale, impersonale, privata, pubblica) non muta in alcun modo la sostanza del rapporto sociale capitalistico. Il fatto che lo Stato si accolli, per dir così, le incombenze della produzione e della distribuzione della ricchezza sociale è qualcosa che può far pensare al socialismo solo chi non ha compreso la natura sociale del capitalismo. «E se lo Stato fosse socialista?»
Il Socialismo non è implicato in alcun modo con la storia della Russia Sovietica, né con quella della Cina maoista: in entrambi i casi si è trattato di una feroce «accumulazione capitalistica originaria» centrata su uno Stato che si proclamava, contro ogni evidenza, “socialista”. Feroce, peraltro, come lo sono state tutte le «accumulazioni originarie» di questo mondo, a partire da quella “classica” (inglese), la quale notoriamente non è stata un pranzo di gala. In Russia l’accumulazione capitalistica decolla con lo stalinismo, dopo i timidi e largamente fallimentari tentativi della NEP; e soprattutto dopo la chiusura su scala internazionale del ciclo rivoluzionario apertosi con l’irruzione della prima guerra mondiale.
Insomma, lo stalinismo come strumento: 1. della controrivoluzione capitalistica, 2. dell’accumulazione capitalistica a ritmi accelerati e 3. della continuità imperialistica (con lo zarismo) – di qui anche la scelta di promuovere innanzitutto l’industria pesante, a detrimento dell’industria dei beni di consumo e dell’agricoltura. In Cina il maoismo rappresentò l’ala più radicale, e alla fine vincente, della rivoluzione nazionale-borghese basata sui contadini. Che il Partito di Mao si proclamasse “comunista”, come il cugino russo, può forse fare qualche differenza in sede di analisi storica? Certamente. Ma in questo senso: grazie allo stalinismo e alla sua variante cinese nel mondo è circolato un mito (o una balla speculativa) che con il socialismo non aveva nulla a che fare. E ne piangiamo ancora le conseguenze, perché la «debolezza estrema» di cui parla Bellofiore è tutt’altro che estranea a questo maligno retaggio storico.
Giustamente il Nostro osserva che «il problema non è il neoliberismo, ma il capitalismo tout court», ed è per questo che il Socialismo (magari chiamato “Pippo”, per evitare odiosi equivoci!) non è mai uscito dal tappeto del processo sociale come eccezionale, e sempre più a portata di mano, possibilità. Ma per averne coscienza bisogna allontanarsi dai punti di vista mainstream, quelli che, ad esempio, perorano la causa di un nuovo internazionalismo, «non proclamato a parole, ma nelle lotte e nell’azione politica», per conseguire l’obiettivo di un «inedito New Deal di classe»: «Non è (ancora) Marx. È piuttosto Hyman P. Minsky*» (p. 74). Già, non è ancora Marx. E si vede.
Un cortese lettore del mio articolo sul sistema protezionistico dell’8 settembre ha scritto: «Sulle tesi di Brancaccio invito a leggere il capitolo Contro il liberoscambismo di sinistra, contenuto nel suo ultimo libro: L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa». Suggerimento che ho raccolto con piacere.
«L’ossimoro tentatore che intendiamo qui criticare è un altro: si tratta del “libero-scambismo di sinistra”, un concetto storicamente molto più radicato e insidioso, che opera all’interno di faglie logiche profonde, rinvenibili persino nel pensiero del Marx del 1848» (E. Brancaccio- M. Passarella, L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa, p. 104, Il Saggiatore, 2012). Che il Tizio di Treviri, anche nella versione datata qui proposta, nulla a che fare ha con le «faglie logiche profonde» di cui parlano gli autori si capisce a p. 108 dello stesso libro, dove giustamente si scrive che per «Marx, che protezionista non era, il libero scambio andava sostenuto per la sua forza devastatrice, per la sua capacità di agire da vettore della crisi, dello scontro sociale e della rivoluzione, che nel 1848 egli erroneamente considerava prossima».
In sostanza è quello che ho sostenuto anch’io. E molto opportunamente nel libro si ricorda la strumentalità della posizione liberoscambista di Marx, come mostra questo passo: «Per riassumere: nello stato attuale della società, che cosa è il libero scambio? È la libertà del capitale … Davvero è difficile comprendere la pretesa dei libero-scambisti, i quali immaginano che l’impiego più vantaggioso del capitale farà scomparire l’antagonismo fra i capitalisti industriali ed i lavoratori salariati. Al contrario, il risultato sarà che l’opposizione fra le due classi si delineerà più nettamente ancora» (K. Marx, Discorso sulla questione del libero scambio, Opere Marx-Engels, VI, p 480, Editori Riuniti, 1973). Per questo ho scritto che sarebbe ridicolo basare la sacrosanta lotta contro gli italici protezionisti sulla posizione “liberoscambista” sostenuta da Marx alla vigilia della rivoluzione industriale in Germania e nei paesi ancora capitalisticamente arretrati del Continente. Non senza aver notato la pregnanza teorica e politica della polemica antiprotezionista dell’uomo con la barba, le cui frecce critiche non smettono di colpire bersagli basati nel XXI secolo.
Ne ricavo l’idea generale che accostare il comunista Tedesco ai D’Alema o ai Veltroni, oppure, sebbene su un altro versante politico-ideologico (di “sinistra radicale”), ai Bertinotti, ai Ferrero, ai Vendola ecc. sia sommamente comico.
Nelle pagine del libro in questione facilmente si coglie lo sfondo teorico-politico dell’attacco al «liberoscambismo di sinistra». Pur con i suoi limiti, si legge, il movimento di Seattle seppe affermare una feconda presa di posizione contro la globalizzazione capitalistica: «Al contrario, tra gli eredi del movimento operaio sembra prevalere da tempo una sorta di liberoscambismo acritico, talvolta addirittura apologetico» (pp. 106-107). A quale «movimento operaio» si fa riferimento? A quello egemonizzato a suo tempo dal PCI e dalla variopinta galassia “comunista” che in qualche modo alla storia di quel partito faceva riferimento, anche con forti accenti critici – come i figli che criticano un padre diventato troppo sedentario e incline ai compromessi. È proprio la natura comunista di questa storia che nego alla radice, sulla base di quanto detto sommariamente sopra a proposito dello stalinismo e del maoismo, i quali hanno grandemente segnato la vicenda del cosiddetto movimento operaio internazionale negli ultimi ottant’anni, un movimento tutto interno alle dinamiche sociali e politiche delle classi dominanti dei singoli Paesi come allo scontro interimperialistico: vedi guerra fredda. Per questo non posso che ridere quando leggo a p. 123 che «è giunto il tempo di elaborare il “lutto sovietico”». Che tempismo!
* Economista americano (1919-1996) post keynesiano che, come il maestro, intendeva salvare il capitalismo dalle sue stesse magagne, soprattutto da quelle finanziarie, connesse con la speculazione e il credito facile rivolto al consumo privato. Interventismo statale e riforma della struttura finanziaria per renderla più semplice, più responsabile e meno speculativa: questa, in estrema sintesi, la ricetta di Minsky elaborata attraverso una lettura del pensiero keynesiano in chiave finanziaria. Roba per palati assai sofisticati. La mia modesta mensa si chiama fuori.