BERLINO CONDUCE LE DANZE E SCRIVE LA MUSICA

Per Wolfgang Münchau la riunificazione tedesca è stata il «peccato originale» alla base dell’attuale crisi del progetto di unificazione europea.  «Grande appassionato di metafore, Kohl non mancava mai di parlarci delle due facce della stessa medaglia: l’unità della Germania e quella dell’Europa. La formula era intrigante ed è probabile che anche lui abbia voluto crederci. Ma purtroppo si è rivelata falsa. L’unità tedesca non è il rovescio dell’unità europea, ma piuttosto la sua antitesi» (Der Spiegel, 3 ottobre 2012). Se l’unità europea è vista dalla prospettiva del pensiero dominante in Europa, che è poi quello cha fa capo alle classi dominanti e ai gruppi dirigenti dei diversi Paesi del Vecchio Continente, non c’è dubbio che la lamentela di Münchau ha un qualche fondamento; ma non ne ha nessuno se facciamo riferimento al processo sociale reale che ha rigato nell’ultimo secolo il tessuto della storia europea. Mi riferisco innanzitutto alla Germania come potente centro gravitazionale dell’unificazione europea.

La Frankfurter Allgemeine del 27 luglio 1978 annunciava che il marco era diventato «il secondo attivo internazionale di riserva», e che «non è escluso che l’estero detenga già oggi più riserve in marchi che in lire sterline. Il marco sarebbe così diventato – involontariamente – la seconda moneta di riserva dopo il dollaro». I tedeschi quasi si scusavano («involontariamente») per il sorpasso fatto dal capitale finanziario tedesco ai danni della più blasonata potenza finanziaria inglese. Interessante è anche la mappa geo-finanziaria fornita dal quotidiano di Francoforte per descrivere l’area del marco: Olanda, Belgio, Lussemburgo, Danimarca, Norvegia e Austria, tutti Paesi che un tempo facevano capo allo spazio finanziario dominato dalla sterlina. Il successo finanziario della Germania naturalmente registrava un fatto «strutturale» di più ampia portata, dalle forti conseguenze politiche, ossia l’ascesa del capitalismo tedesco.

In effetti, alla fine degli anni Sessanta, cioè a conclusione del lungo ciclo espansivo post-bellico, la distanza sistemica fra Stati Uniti ed Europa si era di molto ridotta, ma attraverso una dinamica interna europea fortemente diseguale e disomogenea. Inghilterra e Germania Occidentale rappresentavano “plasticamente” i poli opposti di questa dinamica: la prima sempre più declinante, la seconda in continua, e sempre più rapida, ascesa. La Francia e l’Italia cercavano di ritagliarsi spazi di manovra oscillando, a volte assai contraddittoriamente, fra questi due poli, e sempre tenendo nella dovuta considerazione i rapporti di forza tra le due sponde dell’Atlantico. Gli Stati Uniti giocavano naturalmente sulle divisioni intereuropee, secondo la tradizionale strategia delle potenze dominanti (divide et impera), senza d’altra parte indebolire, per quanto possibile, la «relazione speciale» con l’Inghilterra, sempre in funzione antitedesca.

Già nella prima metà degli anni Settanta il «modello tedesco» si afferma come il solo motore in grado di trainare la locomotiva europea, e la leadership politica del Vecchio Continente è costretta a prenderne atto, facendo buon viso europeistico a cattiva sorte. Quando Romano Prodi scrisse, nel 1991 (Il capitalismo ben temperato), che «Dal punto di vista politico cresce sempre di più la paura (e il rischio) che la Germania utilizzi la propria forza e la propria diversità per mutare a suo favore gli squilibri ancora esistenti all’interno della comunità economica europea», egli per un verso espresse la più che fondata preoccupazione delle nazioni europee strutturalmente più deboli nei confronti del colosso tedesco, e per altro verso presentò una fotografia già vecchia e ingiallita.
Lungi dal contraddirsi e contrapporsi reciprocamente, espansionismo economico tedesco ed europeismo tedesco hanno rappresentato, dalla fine della seconda guerra mondiale in poi, le due facce di una stessa medaglia, la cui complessa natura si compendia nel tradizionale concetto di questione tedesca. L’unificazione dell’Europa sotto la spinta del possente apparato industriale, commerciale, finanziario,  tecnologico e scientifico tedesco è una tendenza oggettiva che può bensì essere ostacolata, rallentata e persino battuta militarmente, ma che non può venir sradicata definitivamente, come il «secolo breve» che ci sta alle spalle ha dimostrato ampiamente, e come stiamo sperimentando un’ennesima volta, non per colpa di qualcuno, bensì a cagione di processi sociali che hanno nella potenza dell’economia il loro più forte impulso.

Nel mondo venuto fuori dalla seconda carneficina mondiale il vecchio nazionalismo teutonico non aveva più alcun senso, nessuna presa materiale e psicologica, né un effettivo radicamento negli interessi nazionali della Germania sconfitta e squartata. L’orizzonte europeista si dà per la Germania, al contempo, come sanzione di una sconfitta e come prospettiva di una pronta riscossa. L’europeismo tedesco diventa col tempo, e necessariamente, l’involucro politico-ideologico dell’interesse nazionale tedesco, e questo ben prima dell’unificazione del Paese manu economica. L’unificazione tedesca giunge a coronamento di un processo materiale che persino alcune fazioni della stessa classe dominante tedesca hanno cercato di sabotare, e non certo per ragioni di idealismo.

Europeismo e libero scambismo sono stati negli ultimi cinquant’anni gli assi della politica internazionale della Germania, la cui economia è fortemente proiettata all’esterno, in direzione di tutti i mercati mondiali, anche se è stato nel mercato europeo che il capitale tedesco ha vinto le sue battaglie più importanti, a conferma del suo alto livello di centralizzazione e di concentrazione, due peculiari e fondamentali caratteristiche del moderno Imperialismo. (Non a caso nel già citato breve saggio di Prodi, si lamenta che «Il processo di concentrazione che si va attuando in Europa è profondamente asimmetrico», anche a causa della struttura proprietaria germanica, la quale «rende quasi impossibile l’acquisto di imprese di grandi dimensioni senza l’esplicito assenso dei proprietari e, si può dire, dei maggiori protagonisti del sistema economico germanico»).

La politica internazionale incentrata sul liberoscambismo è, com’è noto, quella che meglio si adatta agli interessi dei capitalismi forti e in rapida espansione: è stato il caso “classico” dell’Inghilterra, almeno dagli anni quaranta del XIX secolo in poi, del Giappone fino agli inizi degli anni Novanta del Secolo scorso, e della Cina dagli inizi degli anni Ottanta in poi. Non a caso, Inghilterra, Francia e Italia hanno cercato di colpire l’europeismo liberoscambista della Germania, teso a omogenizzare il diritto economico (commerciale, industriale, finanziario) dei Paesi europei, con politiche sovraniste e protezioniste: invano.

Insomma, non ha alcun senso contrapporre, come fa Münchau, unità europea e unità nazionale tedesca, lamentando un’unificazione fin troppo «precipitosa», ed è francamente ridicolo trovare nel “sognatore” Khol o nell’”irresponsabile” Merkel i capri espiatori di una crisi radicata in processi sociali di portata continentale e mondiale facilmente individuabili, a patto che si guardi la realtà per quella che è, ossia dominata dagli interessi economici, i quali hanno un “ricasco” politico molto più cogente di quanto sospettino i teorici del primato della politica. Sotto questo punto di vista, la campagna Ich will Europa (Io voglio l’Europa) sostenuta dal Cancelliere Angela Merkel e dal Presidente Joachim Gauck esprime bene la dialettica sociale che ho cercato di lumeggiare.

«Quando Parigi non c’è, Berlino conduce le danze», ha scritto ieri Libération polemizzando con lo scialbo Hollande. Il fatto è che, con o senza Parigi, il Capitale tedesco conduce sempre le danze, di più: scrive la musica che le altre capitali europee devono suonare. L’ultima sinfonia ha come titolo Fiscal Compact.

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