Interessante intervento ieri al Senato della Repubblica del sottosegretario all’Economia Gianfranco Polillo. Nel corso dell’illustrazione della Nota di variazione al DEF per il 2012-2015, Polillo ha dichiarato che «come scrivevano economisti importanti, da Marx a Keynes, se non riparte il meccanismo dell’accumulazione l’economia rimane bloccata». Secondo il Sottosegretario ciò che blocca l’accumulazione è innanzitutto il ristretto margine (di profitto) delle imprese, il cui margine operativo lordo medio si aggira intorno al 33% sul valore aggiunto, un livello troppo basso soprattutto alla luce della fiscalità italiana. Più che la diminuzione dei consumi privati (quasi -3%), deve destare preoccupazione soprattutto il crollo degli investimenti, che ha fatto registrare quest’anno un inquietante -10%. Se il margine (di profitto) non cresce (oggi è al 7-8%), ha osservato il Sottosegretario, gli investimenti ristagnano, impedendo la ripresa dell’accumulazione: come uscire da questo circolo vizioso?
Intanto è da rilevare che come ogni serio difensore del sistema capitalistico (vedi Keynes), più che della disoccupazione dei lavoratori l’esponente del Governo si preoccupa della disoccupazione del capitale, e si pone il problema di come favorire l’occupazione dei «fattori produttivi». Su questo punto è da tempo aperta la disputa tra neokeynesiani e neoliberisti, che qui tralascio di prendere in considerazione.
Polillo individua ovviamente nella scarsa produttività delle imprese italiane il problema centrale da risolvere, se si vuole dare una rapida risposta all’angosciante domanda di cui sopra. E la scarsa produttività chiama in causa direttamente il famigerato cuneo fiscale, ossia la differenza fra costo del lavoro, altissimo in Italia, e salario diretto, che è invece inferiore alla media dei paesi europei. Questa forbice tra quanto il lavoro costa all’impresa e quanto intascano realmente i lavoratori ha nel compromesso tra grande impresa, sindacato parastatale (trimurti sindacale) e Stato forse la sua spiegazione più importante.
La voracità fiscale del Leviatano italiano per un verso ha distrutto molte fonti di profitto (il capitale investito in attività produttive) e ridotto i «margini» delle imprese; e per altro verso ha azzoppato la capacità competitiva di queste ultime, direttamente, ossia drenando risorse private altrimenti disponibili alla ricerca e allo sviluppo, e indirettamente, cioè non allocando nel privato capitali pubblici a sostegno delle iniziative imprenditoriali, a partire proprio dalla fondamentale politica aziendale volta all’innovazione tecnologica, a monte (strumenti produttivi e organizzazione del lavoro) e a valle (nuovi prodotti da collocare sul mercato).
L’obesità del bilancio sovrano ci parla della molta spesa pubblica improduttiva che si è accumulata nel tempo, e che incidere col bisturi, come in effetti si dovrebbe fare, risulta adesso estremamente difficile, perché il parassitismo sociale nel Bel Paese è quanto mai diffuso, radicato e politicamente protetto, avendo avuto esso soprattutto la funzione di ammortizzatore sociale per le sue aree economicamente depresse, nonché di greppia elettorale a disposizione dei partiti – dalla DC al PCI, dal PDL al PD. La tanto strombazzata spending review per adesso rimane un “libro dei sogni”, un vorrei ma non posso, nonostante sia l’Europa a chiedercelo, secondo l’insopportabile mantra ripetuto a destra e a manca. Certo, «è l’Europa che ce lo chiede», perché la Germania non vuole più finanziare il buco nero dell’Europa meridionale; ma soprattutto è il capitalismo italiano, colto nella sua totalità sistemica, che impone una radicale ristrutturazione della società: dalla base tecnologica delle imprese al mercato del lavoro, dalla sfera politico-istituzionale, sempre più inadeguata a rispondere alle sfide della competizione totale e globale tra capitali, Stati e aree sovranazionali, a quella del welfare, fino a incidere nella stessa mentalità della gente, chiamata a diventare meno italica e più tedesca, secondo gli auspici di molti leader politici italiani che si sono avvicendati nel tempo – Mussolini compreso, ovviamente.
A proposito di buco nero meridionale c’è da dire che è del tutto priva di significato la battuta antileghista secondo la quale il Nord italiano rappresenterebbe il Sud se visto dai paesi posti a settentrione rispetto alla fantomatica Padania. Qui non si tratta di geografia ma di sviluppo ineguale del capitalismo, fenomeno che ha una dimensione tanto nazionale quanto sovranazionale. Scriveva nel lontanissimo 1971 Giovanni Magnifico: «Il processo di unione economica e monetaria dell’Europa andrebbe perseguito delimitando vaste aree economiche e raggruppandole in base alla loro capacità di sviluppare pienamente il loro potenziale produttivo. Ogni singolo gruppo potrebbe comprendere interi paesi membri, ma la delimitazione di ciascuno di essi potrebbe anche non coincidere con le frontiere nazionali» (Una moneta per l’Europa). Non a caso il Professor Miglio, cosiddetto teorico della Lega, teorizzò, agli inizi degli anni Novanta, le Macroregioni europee. Vista da Berlino la Padania appartiene al Nord capitalistico, mentre vista dalla Padania Londra ha un piede nel Mezzogiorno. Chiudo la breve digressione geosociale e ritorno al Senato.
Il solo parametro positivo che il Sottosegretario ha potuto vantare, nel corso di un’analisi dell’economia mondiale, continentale e nazionale che non ha lasciato alcun margine di speranza nel breve termine, riguarda la spesa pubblica primaria, ossia il deficit, che già oggi «è uno dei più virtuosi» in ambito europeo. Per questo, ha detto Polillo – ma con scarsa convinzione –, «Monti ha dichiarato di vedere la luce in fondo al tunnel». Tuttavia, nonostante questo «prestigioso risultato», il cui salatissimo costo è di dominio pubblico, lo stock del debito pubblico non sembra volere invertire il trend di marcia, e il suo 123% sul PIL non consente un’aggressiva riduzione della pressione fiscale, talmente alta da generare una caduta del gettito, confermando il “teorema Berlusconi”: oltre una certa soglia di pressione fiscale ci si sente moralmente autorizzati a evadere/eludere il fisco. Una banalità conosciuta in tutto il pianeta e a suo tempo spacciata come una mostruosità etica dai soliti eroi dell’antiberlusconismo.
Se non riparte l’accumulazione non c’è bacchetta magica che possa risollevare le sorti dell’italica economia: questo, in estrema e brutale sintesi, il concetto centrale difeso ieri al Senato dal Sottosegretario all’Economia, che naturalmente condivido, sebbene a partire da una ben diversa prospettiva “politico-dottrinaria”– compatibile, credo, con il pensiero di Marx, e completamente estranea al punto di vista di Keynes, che lascio volentieri ai progressisti e ai dirigisti di tutte le tendenze politiche.
L’università italiana procede senza coniugarsi al territorio ed alla produttività economica.
E allora, a cosa serve una università?
Ma allora, cosa merita questa università improduttiva?
No produttività?
No Party.
E no stipendi.
http://www.ilcittadinox.com/blog/universita-produttivita-una-difficile-conciliazione.html
Gustavo Gesualdo
alias
Il Cittadino X
Il Capitale sa la ricetta, è vecchia. Marx è lì pronto a giurare che la distruzione della infinità dei molti, piccoli e medi capitali, deve continuare in misura molto maggiore della sovrapproduzione di merci e di capitali intervenuta, trasformatasi poi in crisi; nello stesso tempo il Capitale deve concentrarsi in una misura ancora maggiore. Non ci sono vie di scampo. Non si tratta solo di ripresa, di avvio delle forze del lavoro. E’ l’entità del capitale che deve essere investito quel che conta. Ad ogni passaggio epocale, l’incremento dell’accumulazione deve accelerarsi ( con questo non perpetua la sua vita in eterno, si condanna ulteriormente, ma intanto ha allungato la sua vita per accanimento terapeutico). La dimensione che il capitale deve acquisire oggi è quella, come minimo, europea sotto un’unica e sola direzione statale. Distruggere per costruire dopo: questa è la ricetta. Intanto: o la guerra o la distruzione di capitali e di forze lavoro (che si equivalgono). Le due guerre hanno visto per determinazioni oggettive al centro la Germania e questo deve avvenire ancora una volta, lo vogliano o no le altre borghesie nazionali, vittime di un credito reazionario alla loro miserabile forma nazionale. La chiamino pure sovranità limitata. Non è questa condizione imposta al mondo che ha reso gli Usa la potenza imperiale per eccellenza? L’Urss non poteva fare altrettanto, con le forze produttive, mai all’altezza della sfida dell’economia internazionale. Dentro questo programma ci sta la disoccupazione di massa e la precarietà senza fine e la riduzione dei salari alla dimensione di quelli cinesi. Cosa pretende la borghesia? Le devono pure servire la ripresa e la guerra in un piatto d’argento? Vuole che i proletari si arruolino prima che scoppi la guerra? Non le basta l’assenza di un forte partito di classe a misura della sfida rivoluzionaria mondiale, non le basta che i proletari invece di dichiarare la loro guerra di classe, invece di imporre la loro dittatura continentale, pretendono di impietosire la classe dominante tagliandosi le vene, minacciando di farsi esplodere? La storia si ripete: la borghesia è una classe parassita e incapace di azione storica. Al suo posto una sottoclasse di piccola borghesia intellettuale, di aristocrazia operaia, di tecnocrati ha assunto le funzioni direttive di cui il Capitale ha bisogno. D’atronde l’aristocrazia operaia non rappresenta un qualcosa di estemporaneo (No, dai tempi di Marx si è sviluppata a dismisura ed è determinante nei processi storici). Toni Negri, e non solo, ha fatto di quella miscellanea ( la chiama moltitudine) pronta all’estrema funzione di scannare la classe operaia, la vera classe dominante. Nel mezzo della crisi del primo dopoguerra la socialdemocrazia internazionale e le organizzazioni sindacali dopo aver mobilitato i lavoratori per la guerra hanno servito alla borghesia un fascismo uscito in parte dalle sue file e un sindacalismo rivoluzionario divenuto per lo più fascista, uno stalinismo che per oppressione della classe e per esaltazione del nazionalismo non è stato secondo nememno al nazismo, anch’esso di matrice nazional “socialista” e centralista. Alleanze con il nazismo, alleanze con l’imperialismo americano, alleanze per la ricostruzione del dopoguerra le lezioni della controrivoluzione ci sono tutte.
Gitano
Purtroppo c’è gente che si fida ancora della curva di Laffer…
Pingback: ELOGIO DELL’ACCUMULAZIONE : DA CHI DEBBO SENTIRE LA VERITA’! | controappuntoblog.org
Ringrazio! Buon lavoro.
Pingback: L’IMPIEGATO “LAVATIVO” OSSESSIONATO DAI GRILLINI | Sebastiano Isaia