Negli Stati Uniti la notizia del Nobel per la pace assegnato all’Europa non ha riempito il cuore di nessuno, salvo che dei pochissimi europeisti tipo Jeremy Rifkin, peraltro oggi caduti in comprensibile disgrazia. Colà non l’hanno presa bene, e i media mainstream del Paese stellato-strisciato non hanno fatto niente per nascondere il malumore della cosiddetta opinione pubblica informata. Il mugugno americano si spiega non tanto con il Nobel in sé, anche alla luce dell’analogo premio consegnato dai politicamente corretti di Stoccolma nel 2009 a Barack Obama, il Presidente della prima potenza imperialistica del pianeta. È un po’ come assegnare il premio Donatore del sangue dell’anno a Dracula.
Più che il premio, il cui infimo valore politico-etico non commuove che una piccolissima nicchia di persone acculturate e politicizzate del pianeta, ciò che irrita fortemente gli americani è la sua confezione politico-ideologica, la quale lascia fuori un fatto storico macroscopico: chi ha portato la “pace” nel Vecchio Continente è stata, in primo luogo, la Superpotenza americana. Le città tedesche rase al suolo dalle fortezze volanti ne sanno qualcosa. Ieri il Financial Times ricordava ai smemorati partner europei che senza l’Esercito Americano, senza la Nato e senza l’economia promossa dal Capitalismo USA, l’Europa non avrebbe potuto nemmeno concepire il «sogno europeo». Sembra una risposta a Romano Prodi, il quale sempre ieri ha dichiarato, mentendo sapendo di mentire (il tipo è abbastanza intelligente, nonostante le apparenze), che «la pace in Europa è una nostra esclusiva creatura, un nostro straordinario successo». La “narrazione” europea della storia continentale degli ultimi 67 anni non può convincere i “pragmatici” americani.
Il Wall Street Journal ha invece ironizzato sulla tempistica del premio, che giunge proprio nel momento in cui in Europa impazza una guerra sistemica dagli esiti non ancora chiari né prevedibili. Le società del Vecchio Continente sono messe a ferro e fuoco da una devastante crisi economica e da una micidiale crisi del debito sovrano, e i bizzarri facitori di premi basati a Stoccolma se ne escono con questa geniale trovata! Per non parlare, scrive sempre il quotidiano americano, della grave crisi politico-istituzionale che ha colpito l’area dell’euro, nel cui seno i diktat dei mercati e dei Paesi forti (leggi Germania) hanno di fatto esautorato la democrazia nei Paesi deboli (leggi Grecia, Spagna, Portogallo, Italia, ecc.). Altro che continente pacificato!
Imbarazzato, Jürgen Habermas, che con una punta di velenosa ironia Žižek ha definito «il filosofo quasi ufficiale dell’Unione Europea», ha scritto che questo riconoscimento assegnato all’UE proprio nel momento più critico e incerto della sua storia è «un appello a salvare l’Europa», la quale si salva solo se sarà «in grado di domare un capitalismo divenuto forza selvaggia» (La Repubblica, 13 ottobre 2012). Ma il Capitalismo è una forza selvaggia per definizione! Se i movimenti che prendono corpo nella sfera politica non vengono “dialetticamente” ricondotti a livello della dimensione economica, non è possibile comprenderli nella loro essenzialità sociale, e si rimane sgomenti e impotenti, anche sul piano della semplice teoria, dinanzi a processi che non riusciamo a controllare, ma che viceversa ci controllano e ci strattonano a destra e a sinistra, in alto e in basso, come fuscelli in balìa del vento.
Nello scrittore tedesco Hans Magnus Enzensberger il senso di sgomento e di impotenza è oltremodo evidente: «L’indifferenza con cui gli abitanti del nostro piccolo continente accettano di essere privati del loro potere politico fa rabbrividire. Forse questo è dovuto al fatto che si tratta di una novità storica. Al contrario delle rivoluzioni, dei colpi di stato e dei golpe militari di cui la storia europea di certo non manca, questa spoliazione si compie nella massima discrezione. Tutto si svolge pacificamente dietro porte chiuse» (L’Esproprio della democrazia, Presseurop, 12 ottobre 2012). L’ingenuità degli intellettuali è davvero disarmante, almeno quanto l’inconsapevole (?) ironia del comitato di Stoccolma che sovraintende ai Nobel. Di quale «potere politico» parla Enzensberger? Di quello reale, che esprime la potenza sociale delle classi dominanti, o di quello fittizio, ma non per questo meno “ontologicamente” connesso alla realtà, che fa capo alle forme democratiche che si dà il dominio capitalistico? Il concetto di totalitarismo economico-sociale è il solo che permette al pensiero che vuole essere critico di forare la compatta superficie della realtà com’è rappresentata dall’ideologia pattizia, e di scoprire il mondo violento dei rapporti sociali capitalistici dietro il velo feticistico della democrazia rappresentativa.
Detto di passata, nemmeno Žižek esibisce una lettura fondata del processo sociale europeo, e difatti come Rifkin – e Barbara Spinelli – anche l’intellettuale sloveno pensa che «Dopo il sogno americano abbiamo bisogno di un sogno europeo»: «Ciò di cui l’Europa ha veramente bisogno è una breve costituzione programmatica che definisca chiaramente i principi di ciò che l’”Europa” rappresenta in contrapposizione ad altri modelli sociali dominanti (il neoliberismo americano, il capitalismo dei “valori asiatici”, e così via) … Ma L’Europa è in grado di fornire qualcosa di simile? Ci sono momenti in cui siamo così imbarazzati dalle dichiarazioni pubbliche dei leader politici dei nostri paesi che ci vergogniamo di esserne cittadini» (S. Žižek, Vivere alla fine dei tempi, Ponte alle grazie, 2011). L’economia sociale di mercato che fa capo al modello tedesco può essere considerato un buon modello sociale, alternativo a quelli oggi dominanti? Naturalmente scherzo. Scherzo sulle tante false contrapposizioni (neoliberismo-neokeynesismo, libero mercato-protezionismo, capitalismo “privato”-capitalismo di Stato, e via di seguito) architettate dagli intellettuali, e lascio a Žižek l’imbarazzo e la vergogna dell’europeista frustrato.