Quanto il punto di vista schiettamente liberista vanti un enorme vantaggio competitivo (è proprio il caso di dirlo) su quello progressista in fatto di lettura dell’attuale crisi economica, e dei fenomeni economici in generale, ho avuto modo di constatarlo, per l’ennesima volta, leggendo una polemica che ha come protagonisti un blogger e un Blog. Il blogger si chiama Lorenzo Tondi, e sostiene la parte del cattivo liberista, più o meno al servizio del diabolico Finanzcapitalismo, secondo gli avversari progressisti; il Blog si chiama Su la testa, e secondo il blogger di cui sopra sembra «non avere idea di come funzioni l’economia». Tendo a concordare con Lorenzo Tondi, sebbene da una posizione teorica e politica schiettamente anticapitalista. Mi par di sentire gli amici (mi si conceda questa inflazionata forma retorica) di Su la testa: «Ma questa è una provocazione!» No, si tratta piuttosto di un punto di vista critico-radicale sulla società basata sullo sfruttamento intensivo e scientifico della natura e del capitale (dis)umano – insomma, del lavoro salariato, manuale e intellettuale.
Questa prospettiva mi pone su un terreno del tutto alieno ad entrambi i contendenti, il cui punto di vista infatti si esaurisce nella dimensione della conservazione sociale: come aiutare il Paese e l’Europa a uscire dalla crisi economica? Una preoccupazione legittima, beninteso, ma che al sottoscritto non procura alcuna ansia. Per questo penso di poter offrire un giudizio non partigiano, abbastanza “equanime”, sui concorrenti in gara per la salvezza della società capitalistica.
Secondo Su la testa «Il bilancio degli ultimi vent’anni di scelte di politica economica neoliberista, cui si ispirano le critiche che ci sono state mosse da Lorenzo, hanno impoverito il Paese, ridotto i diritti e la coesione sociale, fiaccato l’economia. Hanno insomma creato quella lotta di classe dall’alto verso il basso che è il maggior ostacolo nella strada che porta all’uscita dalla crisi». Giulio Tremonti, sulla scorta dei suoi ultimi libri «antimercatisti» e del suo Manifesto elettorale 3L (Lista, Lavoro, Libertà), sottoscriverebbe subito. Un suo concorrente, il “liberista-selvaggio” Oscar Giannino, impegnato a far uscire l’Italia dal declino (che affollamento al capezzale della Patria!), vi spiegherebbe invece che negli ultimi venti anni si è bensì tanto parlato di «riformismo economico liberale», ma per non farne praticamente nulla. Al netto di piccole «riforme strutturali», che non hanno inciso in profondità (salvo che per un segmento del mercato del lavoro: quello del precariato), il capitalismo italiano continua a manifestare le magagne che da sempre ne hanno frenata la competitività sistemica. La magagna più grossa si chiama parassitismo sociale, che si concretizza soprattutto in quella larga base sociale che si nutre, direttamente e indirettamente, di manna pubblica, creata dalla tassazione. Non da oggi questo parassitismo sociale, che non è una categoria etica, la quale implica un giudizio morale, ma un fenomeno economico-sociale molto interessante da studiare anche per le sue forti implicazioni politiche (vedi anche alla voce clientelismo elettorale); il parassitismo di molti strati sociali, dicevo, distrugge capitali, pubblici e privati, altrimenti utili al processo di accumulazione allargata.
L’Istituto Sergio Leoni, noto covo di “liberisti-selvaggi”, ha stimato in 50-60 miliardi di euro l’anno la risorsa finanziaria che si poterebbe liberare attraverso una seria ristrutturazione della Pubblica Amministrazione. Capitali oggi bruciati nella spesa corrente della PA si potrebbero orientare verso sentieri produttivi, come la costruzione di infrastrutture «materiali e immateriali», la ricerca scientifica, il supporto alle imprese più innovative, gli sgravi fiscali e quant’altro parli al cuore del profitto, il solo motore in grado di spingere in avanti l’intero carrozzone sociale. «Se l’Italia allineasse la propria spesa pubblica, in proporzione al Pil, ai livelli della Germania, si troverebbero le risorse per abolire l’Irap e ridurre del 10-15% l’Irpef» (La spesa pubblica in Italia e in Europa, a cura dell’Istituto Sergio Leoni).
Di qui l’esigenza, per la classe dominante del Bel Paese, di una seria spending review, la quale non è «un abbaglio liberista che va contrastato e sovvertito», come sostengono gli amici di Su la testa, ma una politica obbligata (ancorché tardiva: è dagli anni Settanta del secolo scorso che se ne parla!), e non solo perché «ce lo chiede l’Europa». Per come la vedo io, la lotta contro i sacrifici imposti a chi vive di salario e di magre pensioni dalle classi dominanti per «salvare il Paese» (preoccupazione che, ribadisco, non mi tange in alcun modo) va condotta su un ben diverso terreno, affinché l’attuale «lotta di classe dall’alto verso il basso» di cui parla Luciano Gallino possa rovesciarsi in una lotta di classe dal basso verso l’alto. «Di certo non si esce dalla crisi in una condizione di lotta di classe», sostengono quelli del Blog progressista. Io, più modestamente, vorrei uscire dal capitalismo…
«Non può essere così», obietta il simpatico Giulio (Tremonti), «perché la vita non è fatta solo dell’economia. Perché l’uomo non è né un automa economico, né una merce. Si sbaglia, se si pensa di poter risolvere con il denaro problemi che il denaro da solo non può risolvere!» (dal Manifesto tremontiano). Qualcuno avvisi lo Scienziato Sociale di Sondrio che nel Capitalismo l’intera esistenza degli individui è sussunta sotto l’imperio delle necessità economiche, e che per edificare la Comunità netta di diktat economici, la Comunità dominata dal pensiero umano, secondo la feconda intuizione degli idealisti d’un tempo, occorre superare l’attuale società materialistica, dominata dal Capitale in ogni sua demoniaca manifestazione: merce, mercato, denaro, tecnologia, scienza, lavoro… Come diceva l’uomo con la barba basato a Londra, il denaro non è una cosa magica, non è lo sterco del Demonio, ma l’espressione di un rapporto sociale che rende possibile la creazione di quel plusvalore che alimenta tutte le forme in cui si dà il profitto. Ecco perché quando qualcuno proferisce banalità di questo calibro: «I valori che contano non sono solo quelli espressi dalle borse di Francoforte, di Londra, di New York o dell’Asia. Non tutti i valori sono indicati dallo “spread” o dal Mibtel o dal Nikkei», mi vedo costretto a gonfiare il mio Ego.
Naturalmente parlo dell’ex Ministro Tremonti per alludere ai progressisti presi di mira dal blogger “liberista-selvaggio”.
Quando Lorenzo Tondi lamenta che lo «sperpero non include solo Fiorito, ma anche i sussidi a pioggia alle imprese, i finanziamenti statali alle grandi aziende e molto altro» non fa che denunciare il connubio, benedetto dai sindacati parastatali (CGIL in testa, ovviamente) tra capitalismo di Stato e grande impresa privata, che da sempre è uno dei maggiori fattori di inefficienza, di clientelismo, di parassitismo e di scarsa competitività. Giavazzi e Alesina calcolano in 60 miliardi l’aiuto diretto e indiretto che lo Stato offre ogni anno alle imprese, perlopiù per prolungarne la inefficiente sopravvivenza. «Se vogliamo gli Stati Uniti d’Europa (io li voglio)», osserva Tondi, «dobbiamo prima risanare il Paese». Lascio al blogger e al Blog il «sogno europeista» e le preoccupazioni circa il risanamento del Paese: io continuo a remare contro, rispettosamente e pacatamente, come piace a Re Giorgio.
A proposito del nuovo capro espiatorio nazionale evocato appena sopra (mi riferisco al noto cinghialone laziale), dato in pasto all’opinione pubblica dal circuito politico-mediatico per saziarne almeno la «sete di giustizia», mi si consenta di scrivere quanto segue, a sfregio dell’indignazione priva di coscienza e come promemoria per il prossimo confronto elettorale: ai miei occhi non vi è alcun merito nell’essere strumenti onesti e incorruttibili delle classi dominanti. Chiudo la doverosa parentesi “etica” e ritorno nella grigia sfera dell’economia.
Al netto delle italiche magagne, la crisi economica è innanzitutto un fenomeno tipico del Capitalismo: insieme all’espansione del ciclo essa realizza il respiro della mostruosa creatura. È quindi completamente sbagliato cecare nella crisi gli errori della politica, da sempre ancella, pardon: serva degli interessi che fanno capo alla creazione e alla distribuzione della ricchezza sociale nella sua attuale – e mondiale – forma capitalistica. L’alternanza di politiche liberiste e protezioniste, privatistiche e stataliste si spiega, “in ultima analisi”, con le mutevoli necessità che fanno capo all’accumulazione capitalistica e, in generale, alla conservazione dell’ordine sociale: vedi alla voce keynesismo, ad esempio. Solo chi non capisce una virgola del processo sociale capitalistico può attribuire l’attuale crisi al cosiddetto «neoliberismo», e metterlo in antitesi rispetto alle politiche neokeynesiane. Le classi dominanti se ne fregano, fascisticamente e democraticamente, delle false contrapposizioni ideologiche architettate dagli Scienziati sociali, che peraltro usano in chiave di lotta politica, all’interno dei confini nazionali come sul terreno della competizione sistemica internazionale.
«Le politiche economiche europee devono essere sotto il controllo dei cittadini europei. Si chiama democrazia» (Su la testa). Non c’è dubbio. Si dà il caso, tuttavia, che la democrazia sia la migliore (la più efficiente, la più pulita, la più “economica”) forma politico-ideologica del dominio sociale capitalistico. Di qui la frustrazione degli europeisti «senza se e senza ma» dinanzi alla guerra sistemica europea, che oggi vede vincente la Germania in virtù della sua maggiore potenza economica. Per questo gli «ulteriori trasferimenti di poteri decisionali e di quote di sovranità alle istituzioni europee, sia nel campo della finanza e delle banche, sia in quello delle politiche economiche e di bilancio», perorati da Re Giorgio il napoletano nel videomessaggio ai Cavalieri del Lavoro del 13 ottobre, significano di fatto un allineamento della zona euro allo standard tedesco. Checché ne pensino i sovranisti del continente!
Ma è tempo di concludere. In risposta a Lorenzo Tondi, secondo il quale «La patrimoniale non serve a nulla ed è destinata ad avere un gettito poco significativo. Basta guardare gli effetti della tassa sugli yacht approvata dal Governo Monti: l’Esecutivo si attendeva 115 milioni, ne ha incassati 23,5», Su la testa scrive queste autentiche perle progressiste (detto senza un atomo di retorica): «L’alibi del gettito ‘poco significativo’ (in buona parte da dimostrare, peraltro, e comunque si tratta gettito prezioso, con questi chiari di luna) è lo stesso alibi della Casta dei politici: ‘non è tagliando i nostri privilegi che si sistema il debito pubblico!: e così si tengono i privilegi. Ma tassare i più ricchi (aldilà del pur benvenutissimo gettito) è l’unico modo civile e onesto per poter poi chiedere i famosi sacrifici anche agli altri». E poi dice che uno odia la civiltà e l’onestà! Con un simile materiale umano progressista per i populisti e i demagoghi d’ogni risma è una pacchia fare politica: come li invidio!
Concordo con il tuo pensiero, mi piace. Due domande: ci sarà mai un tempo dove il pensiero umano sarà generato/supportato da una adeguata visione della realtà circostante?
Che cosa invidi? I progressisti demagoghi o chi si dedica alla politica? o tutti e due?
P.Giustini
Intanto ti ringrazio. In attesa di riflessioni più argomentate (che peraltro puoi trovare frugando nei post del Blog), rispondo sì alla tua domanda. Sì nel senso che se ne dà la POSSIBILITÀ. Naturalmente l’invidia di cui parlo è una pura forma retorica tesa a colpire l’indigenza concettuale dei progressisti. Di nuovo grazie per l’attenzione. Ciao!
Pingback: L’IMPIEGATO “LAVATIVO” OSSESSIONATO DAI GRILLINI | Sebastiano Isaia