CINA O GIAPPONE? SORA AOI!

Cina o Giappone? Sora Aoi!

Haruki Murakami, scrittore giapponese di fama mondiale: «Le dispute territoriali che incendiano il nazionalismo sono come un liquore scadente, che ti ubriaca dopo pochi bicchieri rendendoti isterico. Ti fa sbraitare ad alta voce e comportare in maniera rozza… Ma dopo una furia ubriaca ciò che resta è solo un mal di testa tremendo il giorno dopo. Dobbiamo stare attenti ai politici e ai polemisti che dispensano liquori scadenti e incitano questo tipo di violenza» (Japan Times).

Lin Shaohua, traduttore dei romanzi di Haruki Murakami in Cina: «Chiunque si riconosca in un’identità nazionale dovrebbe anteporre ai propri interessi quelli della nazione. E lo stesso principio vale anche per i più razionali e amichevoli tra i giapponesi. Si tratta di un principio fondamentale alla base del concetto di nazione, tutto il resto è secondario» (cit. tratta da La Stampa, 6 ottobre 2012).

L’accostamento delle due citazioni intende far sorgere il sospetto nel lettore di una mia simpatia per il Giappone a proposito delle note scaramucce nazionalistiche intorno alle contese isole Senkaku (per i giapponesi) o Diaoyu (per i cinesi). Cosa che mi consente di ribadire con una certa economia di pensiero la mia totale avversione per entrambi i contendenti. «Il Giappone controlla quelle isole dal 1885, fatta eccezione per il periodo 1945-1972 in cui, in base al trattato di San Francisco (1951), furono amministrate dagli Stati Uniti. La Cina sostiene di averle possedute dal XIV secolo e di averne perso il controllo perché vittima dell’imperialismo nipponico. Cina o Giappone? (Niccolò Locatelli, Le isole contese e il declino degli Usa, Limes, 21 settembre 2012). La mia risposta è: né Cina né Giappone. Anzi: contro la Cina e contro il Giappone, a prescindere dalle motivazioni di carattere storico e legale addotte dai due Paesi contendenti a sostegno delle loro rivendicazioni territoriali. Sotto il vasto e grigio cielo del Capitalismo mondiale, tutte le ragioni che fanno capo alle nazioni cospirano contro le classi dominate del pianeta e contro la possibilità dell’emancipazione universale. Per questo il vero antidoto all’ubriacatura nazionalista è, ieri come oggi, la coscienza di classe, estranea tanto al pacifista Murakami (peraltro il mio scrittore contemporaneo preferito) quanto, ovviamente, al suo traduttore cinese.

Se proprio dovessi fare una scelta fra partigiani della pace e nazionalisti isterici, ebbene come male minore sceglierei di stare dalla parte di Sora Aoi, Attrice porno di successo giapponese, «cagna giapponese» per i nazionalisti cinesi, ma soprattutto autrice di uno sfortunato messaggio pacifista ai due popoli cugini del Pacifico Orientale. Ma, come si può intuire, si tratterebbe di una scelta più personale che politica…

«Il valore di queste isole, e con esso la portata politica delle dispute, non si limita allo sfruttamento delle risorse naturali: la questione conserva risvolti strategici molto più ampi che riguardano direttamente gli equilibri politico-militari dell’Asia Orientale nel medio-lungo periodo» (Matteo Dian, Le isole Senkaku o Diaoyu come termometro degli equilibri in Asia orientale, Limes, 15 ottobre 2012). Non ho bisogno di attingere altre informazioni per schierarmi contro l’imperialismo cino-giapponese, il quale fa capo a due Paesi concorrenti sul terreno della competizione capitalistica globale, ma alleati nello smungere plusvalore alla Vacca Sacra salariata e nel collaborare alla disumanizzazione generale del pianeta.

Nella giungla asiatica

Come scrive Jon Halliday nella sua Storia del Giappone contemporaneo (Einaudi), «Il Giappone riacquistò formalmente l’indipendenza nell’aprile 1952, in seguito alla firma congiunta (avvenuta a San Francisco l’8 settembre 1951) del trattato di pace predisposto dagli Stati Uniti e del trattato di sicurezza nippo-americano. Questi due trattati inserirono il nuovo Giappone indipendente nell’alleanza occidentale». Con la Cina e la Russia, membri della coalizione imperialistica uscita vincente dalla Seconda guerra mondiale, il Giappone non firmò invece alcun trattato di pace, e non per sua scelta, a dire il vero, ma perché allora così decisero gli americani, i quali non tennero in alcuna considerazione le intenzioni dei partner giapponesi, pronti a stabilire normali relazioni economiche e diplomatiche con la Cina. Per tutta risposta, gli Stati Uniti non solo impedirono al Giappone «di ricercare i contatti che esso desiderava con il suo maggior vicino, la Repubblica popolare cinese», come scrive sempre Halliday, ma arrivarono «al punto di imporre un brutale embargo sul commercio giapponese con la Cina». La guerra in Corea, e il ruolo svolto in essa dal Giappone, spiegano con sufficiente chiarezza l’atteggiamento americano ostile a una rapida normalizzazione dei rapporti interstatali nel Sud-Est Asiatico.

Fino alla prima metà degli anni Settanta, sebbene molto ingiallita, la metaforica fotografia scattata a San Francisco da Foster Dulles conservò un certo rapporto con la realtà dei rapporti interimperialistici nell’area del Pacifico Orientale. Il repubblicano Dulles fu incaricato di seguire la “pratica giapponese” fino alla firma del trattato di pace in qualità di consigliere di politica estera per il Segretario di Stato americano (democratico). Dopo d’allora, per un verso l’attivismo economico e politico del Giappone, sempre più affamato di mercati per il Made in Japan, di risorse energetiche e di riconoscimenti politici soprattutto da parte degli alleati occidentali; e per altro verso il relativo declino della potenza americana hanno di molto invecchiato quella foto, fino a renderla per certi aspetti anacronistica. La fine della cosiddetta guerra fredda e l’irresistibile ascesa del Capitalismo cinese hanno fatto il resto.

Alla fine degli anni Settanta la penetrazione del capitale giapponese negli Stati Uniti (in California, in primis) è ormai un fatto con cui gli americani sono costretti a dover fare i conti, proprio quando il trattato cino-giapponese del 1978 rese evidente un notevole spostamento dell’asse di potenza imperialistica (o capitalistica, fa lo stesso) in direzione dell’Asia Orientale, facendo già allora paventare in Occidente l’avvento di un secolo Asiatico, dominato dal Giappone. Interrogato nel 1983 dal Washington Post sulla strategia politico-militare più confacente agli interessi del Giappone, l’allora Premier giapponese Nakasone rispose che «Su questi temi non intendiamo agire sotto la pressione o l’influenza degli Stati Uniti, ma unicamente in ragione degli interessi del nostro paese … Un obiettivo che ci poniamo è quello di salvaguardare le linee di comunicazione oceaniche. A tale proposito la striscia di mare sulla quale devono estendersi i nostri controlli difensivi deve comprendere anche le rotte tra l’isola di Guam e Tokyo e tra lo stretto di Taiwan e Osaka» (l’intervista fu ripresa da Repubblica del 20 gennaio 1983). È sufficiente gettare l’occhio sulla carta geografica dell’Asia Orientale per capire le implicazioni geopolitiche di questa dichiarazione, che esprimeva una potenza sistemica in dirompente ascesa.

Le contromisure economico-finanziarie prese dagli Stati Uniti alla fine degli anni Ottanta per arginare l’espansione economica del Giappone (volti soprattutto a intaccarne la «produttività totale dei fattori»), e indebolirne la conseguente proiezione geopolitica, sortiranno l’effetto voluto dagli americani. Tuttavia, niente può ristabilire il vecchio equilibrio interimperialistico, soprattutto nell’area sociale più dinamica del pianeta.

Le tensioni che si sono accumulate nel tempo nell’area del Mar Cinese Orientale e Meridionale oggi possono finalmente innescare movimenti tellurici prima contenuti nella camicia di forza post Seconda guerra mondiale, lasciando interdetti gli Stati Uniti. Gli americani si trovano a dover sostenere un alleato strategicamente fondamentale (il Giappone) senza poterne tuttavia controllare i movimenti come ai bei tempi della guerra fredda, la quale peraltro mise il Capitalismo giapponese – e tedesco – nelle condizioni di svilupparsi molto rapidamente, fino a diventare il vero concorrente del Capitalismo americano. L’ombrello atomico come serra capitalistica. E d’altra parte essi non hanno alcun interesse, oggi, a inasprire il confronto con la Cina, diventata nel frattempo la seconda potenza capitalistica del mondo, nonché tra i principali detentori esteri del debito pubblico Usa, ma soprattutto desiderosa di affermarsi come esclusiva potenza egemone in Asia Orientale, subentrando in linea storica proprio al Giappone.
Per quanto Potenza strategicamente nemica di primo livello, come recitano i dossier “segreti” elaborati dall’alta scienza sociale americana per conto della Casa Bianco (l’inimicizia va dall’economia alla politica, dalla situazione militare alla cultura, dalla geopolitica alla demografia, ecc.), la Cina va “confrontata” dagli Stati Uniti in modo relativamente fair. Almeno in questa fase.

Scriveva Maurizio Guandalini nel 1994: «La caduta del Muro di Berlino, la prosecuzione dell’impetuoso sviluppo economico della Cina nel segno del “socialismo di mercato” e la crisi economica che ha colpito, a differenza dei paesi asiatici, i paesi europei e gli Stati Uniti (confermando la validità dell’area Asia-Pacifico) hanno consentito alle Tigri asiatiche di emergere al di fuori di qualsiasi schema o proposito di alleanza politico-militare. Esse sono decise a incrementare i loro rapporti commerciali al di sopra di qualsiasi altra considerazione» (Dalla Cina verso Ovest, Etaslibri). In questo processo di sviluppo e di integrazione economica il Giappone ha naturalmente giocato un ruolo di assoluto rilievo, fornendo peraltro alle giovani Tigri, Cina compresa, un collaudato modello capitalistico di successo: «La strada verso lo sviluppo economico seguita dal Giappone negli ultimi 45 anni ha ricalcato quella del ciclo dei prodotti: dai tessili e dalle calzature con manodopera a basso costo il Giappone è passato agli strumenti ottici e alle apparecchiature elettroniche, successivamente all’industria pesante in settori quali l’acciaio, la cantieristica e l’auto per approdare, dopo lo shock petrolifero del 1973, alle industrie ad elevato contenuto tecnologico come i computer e le telecomunicazioni».

La Cina, il cui «”socialismo di mercato”» è una panzana politico-ideologica volta a camuffare, non so decidermi se in modo più maldestro o più ridicolo, la realtà di un Capitalismo a forte presenza, diretta e indiretta, statale; la Cina, dicevo, è oggi impegnata in una transizione della sua economia analoga a quella del Giappone di parecchi decenni fa, senza che ne debba necessariamente ricalcare pedissequamente le tappe. Questo delicato, complesso e lungo processo di maturazione del Capitale cinese crea nel gigante asiatico tendenze di segno opposto: in direzione di una maggiore collaborazione-integrazione con le altre Tigri asiatiche, Giappone compreso, e in direzione di una maggiore e sempre più aggressiva competizione globale (economica, politica, ideologica) con le stesse. Non solo, ma questo stesso processo probabilmente genererà forti tensioni sociali nel Paese, con l’acuirsi tanto dei conflitti sociali (ma anche nazionali ed etnici) quanto dello sciovinismo (anche a sfondo razziale), che è sempre un eccellente strumento di controllo, di repressione e di reclutamento delle masse. Anche le ambigue vicende interne al Partito-Stato cinese alla vigilia di scelte politiche importanti non sono estranee allo scenario appena abbozzato.

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