Il pensiero che soffre, ma che non comprende, ha bisogno dell’individuo potente per farsi un’immagine del Potere sociale. Chi vede il capitalista, o il funzionario del Capitale, personificato nelle vigenti condizioni sociali, mentre gli sfugge la realtà capitalistica personificata nell’agente dei vigenti rapporti sociali, cammina, marxianamente, a testa in giù. E facilmente egli presta il fianco ai demagoghi di turno, abili creatori di volti repellenti su cui indirizzare la rabbia delle masse, e per questo strumenti implacabili nella lotta tra le cosche capitalistiche.
Il cinismo dei “potenti” che amano il duro linguaggio dei rapporti di forza sociali si spiega tanto con il cinismo delle cose, poiché cinica è innanzitutto la società fondata sul profitto, quanto con l’impotenza delle classi dominate, impigliate nella prassi di una delega sociale priva di speranza. La “filosofia” del male minore, filosofia da servi, ha sepolto il “principio speranza” sotto una montagna di rassegnazione, contrabbandata, in primo luogo a se stessi, come “realismo responsabile e adulto”. Il servo che disprezza chi lo chiama alla realtà testimonia che qualcosa nascostamente lo inquieta.
Le “utopie negative” del XIX e del XX secolo, che immaginavano gli individui stretti nella morsa di un dominio astratto, impersonale e sfuggente (“kafkiano”), intuivano qualcosa di molto profondo circa la natura della vigente società, un Moloch affamato di vite umane. Una metafora, questa, che dice più cose intorno alla verità del mondo che non una fotografia scattata con la più potente delle macchine fotografiche.
Non sempre attribuire un volto al Nemico aiuta a comprendere la natura della nostra condizione sociale – o esistenziale – altamente disumana, semplicemente perché il Nemico con cui abbiamo a che fare non ha un volto, pur avendo una prassi: la feroce prassi del Dominio. È pur vero che l’essenza deve apparire, che la sostanza deve darsi una forma adeguata, come dice il ragno di Stoccarda, ma è altrettanto vero che la fenomenologia delle cose non esaurisce la loro intera realtà, che è davvero concreta solo se rimanda continuamente oltre.
È questa la dialettica delle cose che sfida il pensiero che non vuole chinare la testa dinanzi al dato di fatto, magari personificato in un volto o, peggio ancora, in una caricatura.
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