PRESI TRA DUE FUOCHI

Soccorsi a un uomo rimasto intrappolato sotto la sua auto dopo un raid israeliano nella Striscia di Gaza.

Presi tra due fuochi. Palestinesi e israeliani. Da sempre. A ben guardare, per le classi subalterne dei due fronti non c’è mai stata altra realistica soluzione alla nota e scottante Questione se non la più difficile e improbabile, e certamente estranea alle pseudo soluzioni escogitate negli ultimi 64 anni dai capi di governo e dai leader nazionali, regionali e mondiali: una loro fraterna solidarietà. «Campa cavallo!», nevvero? Ecco, in questa istintiva, quanto fondata, reazione alla piccola riflessione appena proposta risiede tutta la tragicità della cosiddetta Questione Palestinese.

Come ho scritto in diversi post dedicati a questo intramontabile evergreen della politica internazionale, non si comprende la rancida Questione di cui trattiamo se non si abbandona lo schema ideologico cosiddetto antimperialista, che presenta come unico male assoluto lo Stato Sionista Israeliano, dalla cui distruzione dovrebbe derivare l’emancipazione nazionale del popolo palestinese. Naturalmente parlare di Israele significa parlare soprattutto degli Stati Uniti, collocati da quello schema al centro del poligono di forze imperialistico. La Russia e la Cina sembrano avere nel quadro imperialistico disegnato dagli “antimperialisti” mainstream un ruolo del tutto marginale, e a volte le due potenze vi compiano in funzione antimperialista. Addirittura!

Come dimostra la storia pre e post 1948, «si intrecciano, in questo groviglio mediorientale, sino a perdervi il filo, responsabilità che, in misura maggiore o minore, possono essere attribuiti a tutti: agli inglesi come ai francesi, agli americani come ai russi, agli ebrei come agli arabi … Solo sulla base di una adeguata conoscenza dei precedenti è possibile districare, almeno sul piano dell’informazione e della comprensione, il groviglio mediorientale. Altrimenti si rischia di cadere nella genericità e negli schematismi manichei» (P. Maltese, Nazionalismo arabo e nazionalismo ebraico, 1798-1992, Mursia, 1992). E per non cadere nello schematismo manicheo antisionista, che come sempre facilmente presta il fianco a un più o meno celato antisemitismo  “di ritorno” (tipico è il caso di chi accusa gli israeliani di «fare come i nazisti», mentre lo Stato Israeliano è ultrareazionario esattamente come gli altri Stati del Pianeta), occorre aprire gli occhi innanzitutto sulla politica delle potenze regionali mediorientali, le quali hanno usato, e continuano a usare, la Questione Palestinese per il loro tornaconto, anche in chiave di politica interna: reprimere e massacrare i palestinesi ospitati all’interno dei propri confini nazionali per ammonire le classi subalterne arabe, ovvero affettare una solidarietà nei confronti «dell’eroico popolo palestinese» per lisciarne il pelo, sempre ai fini di un più facile controllo sociale.

La Questione Palestinese è stata dunque sempre alimentata e tenuta costantemente alla giusta temperatura critica da Paesi come Egitto, Siria, Libano, Iraq e Iran in chiave di politica interna e internazionale.

La presenza di Israele in Medio Oriente ha costituito una spina nel fianco delle nazioni di quell’area, è vero; ma si tratta, appunto, di beghe tra Stati nazionali, giocate sulla pelle delle classi subalterne, quale ne sia la nazionalità e la religione. Tirare ancora in ballo l’estraneità “ontologica” di Israele rispetto a quel quadrante geopolitico e geosociale, e tifare per chi ne minaccia la cancellazione dalla carta geografica (vedi Ahmadinejad), significa mettersi sul terreno degli interessi nazionali che fanno capo ai Paesi nemici dello «Stato Sionista», un terreno melmoso all’ennesima potenza nell’epoca in cui la questione nazionale ha un carattere reazionario persino là dove essa alligna in modo residuale. È appunto il caso della Palestina, da sempre presa tra due fuochi: il fuoco dello Stato Israeliano e quello degli Stati cosiddetti fratelli. Fratelli-coltelli, verrebbe da dire: i palestinesi uccisi dai “fratelli” arabi si contano a migliaia.

A Kiryat Malachi, in Israele, durante il lancio di un razzo da Gaza.

Questo significa sminuire il sangue palestinese versato dallo Stato Israeliano? Ma non scherziamo! Capire i processi sociali e la geopolitica serve ad agire in modo adeguato, non a giustificare Tizio o Caio, che vanno semmai colpiti contemporaneamente.

Solidarizzare con i palestinesi non deve in alcun modo significare un appoggio ad Hamas, organizzazione politico-militare che sempre più si configura come la lunga mano degli interessi siriani e iraniani, anche con la mediazione di Hezbollah. Sparare razzi in maniera indiscriminata su un’area che ospita oltre due milioni di abitanti, come fa Hamas da mesi, significa fare il gioco della classe dominante israeliana, che può facilmente servirsi della paura degli inermi cittadini per ulteriori giri di vite contro i palestinesi tenuti in ostaggio a Gaza. Tenuti in ostaggio sicuramente dal governo israeliano, che cerca di allargare l’«area di sicurezza nazionale» attraverso nuovi insediamenti “illegali”, ma anche dai militanti di Hamas, i quali probabilmente stanno cercando la rappresaglia di Tel Aviv per inserirsi nel nuovo scenario creato dalla cosiddetta Primavera Araba, con un occhio ai nuovi equilibri interimperialistici generati dalla crisi economica internazionale. Con quale risultato lo vedremo. Il sangue di palestinesi e israeliani intanto lo vediamo già scorrere. In diretta televisiva.

6 pensieri su “PRESI TRA DUE FUOCHI

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