Mutuando la teologia di Santa Romana Chiesa,
non è poi così blasfemo, sul piano dottrinale,
dire che il Dominio scrive diritto per linee storte.
Ritorno brevemente sul cosiddetto antifascismo militante un po’ perché sollecitato dal gran parlare di un «ritorno del fascismo» in diversi Paesi del Vecchio Continente, sempre più lacerato dai morsi della crisi sistemica. I casi della Grecia e dell’Ungheria sono solo quelli più eclatanti. Il Capocomico di Geneva ha detto che senza il suo movimento «la Casta» del Bel Paese oggi dovrebbe fare i conti non con gli onesti, ancorché “antipolitici”, grillini, ma con i ben più pericolosi e rabbiosi neofascisti. Forse è un’esagerazione, ma vale a segnalare lo spirito dei tempi, per dir così. Intanto è nata la sezione italiana di Alba Dorata: la Lega Nord è avvertita. Ma vi ritorno soprattutto per offrire il mio modesto contributo alla definizione di una corretta linea politica anticapitalistica.
Chi legge i miei post ha certamente capito che non sono tra quelli che, pur impegnati in una lotta anticapitalistica «senza se e senza ma», mettono la lotta al fascismo «di ieri, di oggi e di domani» al primo posto nella loro iniziativa politica, finendo il più delle volte per far prevalere di gran lunga l’antifascismo sull’anticapitalismo. Se la cosa non trova quasi mai una sua puntuale teorizzazione, certamente essa finisce per caratterizzare la prassi di molti militanti che professano un anticapitalismo che alla prova dei fatti paga un prezzo assai salato in termini di codismo democratico e di assenza di autonomia di classe. Di fatto essi concepiscono il fascismo come il Male Assoluto, rispetto al quale ogni altra questione connessa alla natura contraddittoria della società capitalistica diventa secondaria, passa in secondo piano, venendo di fatto collocata in una prospettiva millenaristica. Per questa via la stringente e feconda dialettica tra tattica e strategia, presente e futuro sfuma nell’irrilevanza di un attivismo “anticapitalista” inconcludente, almeno ai fini della rivoluzione sociale. L’«antifascismo militante» diventa una patetica caricatura della lotta di classe e della rivoluzione.
C’è poi l’anticapitalista che finisce per identificare senz’altro il fascismo con il Capitalismo, o, più spesso, con una sua versione particolarmente “selvaggia”: quella cosiddetta neoliberista. L’identificazione di Fascismo del XXI secolo o Fascismo 2.0 con l’ideologia neoliberista, espressione del «nuovo Capitalismo finanziarizzato», è più che un’illazione.
L’antifascismo come «momento tattico di una strategia politica di più lungo respiro» suona ormai alle mie orecchie come un vecchio e pessimo ritornello, come il mantra di chi fissa la Rivoluzione Sociale “dura e pura” al trentadue del mese successivo. Mese dopo mese, anno dopo anno: «intanto facciamo i conti col «fascismo che avanza». Per molti anticapitalisti il fascismo «avanza» praticamente dalla fine del Ventennio in poi, rendendo necessaria una permanente allerta democratica, «perché come insegnano Marx, Engels e Lenin è nella democrazia che la lotta di classe può dispiegarsi con maggiore forza, fino alla vittoria finale». Siamo proprio sicuri di questo? Anche sulla scorta dell’ultimo secolo di prasi sociale mondiale (ma potrei spingermi ancora più indietro, fino ai successi elettorali e sindacali della socialdemocrazia europea negli anni Novanta del XIX secolo) mi permetto di dissentire con il luogo comune “marxista” appena riportato.
Inutile dire che sulla concezione ideologica “anticapitalista” mainstream in Italia pesa ancora il retaggio dell’antifascismo interclassista di matrice resistenziale, che ebbe nel PCI stalinizzato di Togliatti la sua punta di diamante. Si capisce, al netto degli appelli ai fratelli in camicia nera: correva l’anno 1936 quando Mario Montagna sostenne – «suscitando riserve ma non scandalo», come scrive Paolo Spriano nella sua Storia del PCI – che «il partito deve avere il coraggio di dire che non ci proponiamo di abbattere il fascismo» ma di democratizzarlo e migliorarlo, almeno “tatticamente”; Di Vittorio disse che «democrazia non è un termine ben accetto alle masse», e il compagno Ciufoli si batté affinché il PCI facesse «suo il programma fascista del 1919 per colmare il vuoto che esiste ancora tra noi e le masse» (P. Spriano, Storia del PCI, p. 96, L’Unità-Einaudi, 1990). Essere sempre in sintonia con «le larghe masse» è uno dei cardini della politica interclassista. Poi vi fu l’adesione al Patto nazi-stalinista alla vigilia del secondo macello imperialistico, ma questa è tutta roba stravecchia. Ricordarla di tanto in tanto però non può certo far male, considerato il discreto seguito di cui gode ancora ai nostri giorni la tradizione del “comunismo” italiano.
Per come la vedo io, il Male Assoluto è il Capitalismo tout court, concepito essenzialmente come la struttura di dominio basata sui rapporti sociali di questa epoca storica – borghese. Rapporti sociali di dominio e di sfruttamento, che hanno nella forma merce e nella forma denaro la loro più generica e al contempo radicale estrinsecazione. Sintetizzando al massimo, democrazia e fascismo, e tutte le forme politico-istituzionali intermedie, non sono che l’espressione “sovrastrutturale” del dominio sociale fondato sullo sfruttamento scientifico e sempre più intensivo, capillare e mondiale di uomini e cose. Nella sintesi qualche momento dialettico ci scapita, è chiaro, ma credo che il nucleo di verità che essa contiene faccia premio, come si dice, sui suoi acclarati limiti.
Decisivo è, dal mio punto di vista, il concetto di dominio totalitario delle esigenze economiche, il quale postula la fenomenologia politica, istituzionale, ideologica e psicologica più adeguata alle condizioni sociali che si danno in peculiari momenti storici, naturalmente sulla base del concreto retaggio storico e sociale di ogni Paese. Il totalitarismo sociale radicato nella prassi che crea e distribuisce la ricchezza sociale nella sua vigente forma capitalistica è a fondamento tanto della forma democratica quanto della forma politica dittatoriale del potere sociale borghese.
La prassi sociale vista dalla prospettiva storica mostra, almeno in riferimento al cosiddetto Occidente, come il regime democratico sia la forma politica, istituzionale e ideologica di gran lunga più efficace (più “economica”, più “razionale”, più “pulita”) dal punto di vista degli interessi capitalistici, anche perché esso presuppone una situazione sociale gestibile con gli ordinari strumenti di consenso e di coazione. Il mix di “politica del consenso” e di repressione violenta dei movimenti sociali più minacciosi nei confronti degli interessi generali della società segna la normalità nella gestione della prassi sociale, sempre caratterizzata da un notevole tasso di conflittualità sociale dovuta alla natura estremamente violenta e contraddittoria del Capitalismo. Sotto questo aspetto, la vicenda italiana degli anni Settanta del secolo scorso parla chiaro.
La violenza dispiegata che sospende momentaneamente la “pacifica” ricerca del consenso nella tradizionale forma democratica si dà solo nei momenti di più acuta crisi sociale, mentre in epoca di “pace sociale” si assiste a un’intelligente alternanza di carota e bastone, il quale ovviamente non è tolto nemmeno per un istante dalla vista dei dominati, come monito di ultima istanza, come estrema ma sempre incombente minaccia.
La dialettica del processo sociale associa la violenza dispiegata delle classi dominanti, attraverso lo Stato che ne rappresenta e tutela gli interessi generali (non di rado anche contro fazioni borghesi particolari), con una loro attuale o potenziale condizione di debolezza politica, dovuta a crisi sociali particolarmente acute. Ma lo stato d’eccezione, per dirla con Carl Schmitt, lungi dal sospendere lo Stato di diritto, come credono gli apologeti del Patto sociale ratificato da una Costituzione, piuttosto riafferma, espande e radicalizza il Diritto, producendo le nuove forme e le nuove modalità attraverso le quali esso può estrinsecarsi adeguatamente, in sintonia con i nuovi tempi. L’eccezione non solo non nega la regola ma ne illumina anzi la profonda e maligna radice.
Chi dice Diritto dice forza, potenza, violenza, divisione classista della società. Per questo non c’è Stato che non sia di Diritto, nell’accezione più radicale del concetto elaborata attraverso la critica del punto di vista pattizio (contrattualistico) hobbesiano e post-hobbesiano.
Mutuando la teologia di Santa Romana Chiesa, non è poi così blasfemo, sul piano dottrinale, dire che il Dominio scrive diritto per linee storte.
Ecco perché pongo la lotta contro il cosiddetto fascismo2.0 sullo stesso piano della lotta contro la democrazia, e combatto tutte le posizioni antifasciste che in un modo o nell’altro tendono a puntellare la democrazia e lo Stato, che è sempre e necessariamente di Diritto – almeno nell’accezione critico-radicale sopra accennata, la sola che non rimane impigliata nell’ideologia borghese del Patto sociale.
So di sostenere tesi che ai più appaiono assurde, necessariamente, anche perché l’ideologia dominante è entrata così in profondità nel corpo sociale, da non lasciare all’immaginazione altra possibilità se non quella di cavalcare ben dentro i confini tracciati dagli attuali rapporti sociali. D’altra parte, come diceva l’avvinazzato di Germania, «Ogni [co]scienza sarebbe superflua se l’essenza delle cose e la loro forma fenomenica direttamente coincidessero» (Il Capitale). Maledetta dialettica delle cose!
L’esistenza di un Parlamento liberamente eletto prova la forza delle classi dominanti, le quali mostrano di non aver bisogno della coazione politica diretta sugli individui per imporre loro il proprio punto di vista, la propria visione del mondo, i propri valori. In tempi ordinari l’ideologia dominante è l’ideologia delle classi dominanti, come aveva capito sempre il comunista di Treviri.
Cosa significa, oggi, essere in sintonia con i bisogni e le idee della gente? Credete davvero che se la gente, colta nella sua odierna consistenza empirica, se così posso esprimermi, avesse davvero la possibilità di decidere sulle sorti del mondo, quest’ultimo muterebbe radicalmente il suo disumano volto? Infatti, qual è, oggi, la massima aspirazione politico-ideale coltivata dalla stragrande maggioranza delle persone, soprattutto da quelle socialmente più disagiate? Un onesto lavoro, magari garantito a vita – dalla culla alla bara – dal Leviatano, una casa, le ferie comandate, una vita complessivamente «più dignitosa», politici onesti e capaci, la pace nel mondo. (E chi vorrebbe la guerra nel mondo?)
D’altra parte, l’abolizione dei rapporti sociali capitalistici non è questione che si possa affidare a una tornata elettorale, né a un referendum popolare: credetemi sulla parola. Oppure andate sul Blog di Grillo…
Già mi pare di sentire il rimprovero del realista, di quello che è sempre in sintonia con i bisogni e le idee delle larghe masse (come non lo invidio!): «E ti sembra poco, soprattutto in tempi di crisi economica, l’elenco che con tanto sprezzante sarcasmo ci hai voluto fare?» Non è che mi sembra poco o molto: mi sembra piuttosto la conferma della schiavitù capitalistica. Tutto qui.
Nelle più acute crisi sociali, che sempre hanno un fondamento economico, si dà la possibilità concreta che anche l’ideologia dominante entri in crisi almeno nella testa di chi si accorge all’improvviso e con orrore di non avere più nulla da perdere (e forse nemmeno una condizione migliore da conquistare nell’immediato), ma anche nelle teste dei più umanamente sensibili, qualunque sia la loro provenienza sociale. È a questo punto che lo spettro della Rivoluzione sociale inizia a prendere sostanziosa consistenza, se mi è concesso scriverlo, sotto gli occhi delle classi dominanti, le quali getteranno senz’altro via la carota democratico-parlamentare per afferrare meglio il bastone, e poi le manette, e poi…, e poi tutto quello che serve alla bisogna. Tutto. Per le “autocritiche” e il piagnisteo organizzato sugli “eccessi di difesa” dello Stato c’è sempre tempo. D’altra parte la Controrivoluzione non è un pranzo di gala!
Questo accade puntualmente quando la riserva di stabilità garantita dalla gestione democratica dei conflitti sociali si esaurisce in grazia di un moto sociale particolarmente tempestoso, tale da mettere in questione l’intero assetto della metaforica nave. Inutile dire che è in questo mare periglioso ma pregno di futuro che ama nuotare il soggetto della rivoluzione sociale, la cui comparsa è forse il segno più tangibile del carattere eccezionale di una situazione storica.
Mi trovo ancora a farti i complimenti per la lucidità dell’analisi e i tanti spunti di riflessione offerti. Qualche piccola considerazione, molto grezza visto lo spazio, chiedo di essere interpretato di conseguenza…
Innanzitutto Grillo e i grillini sono il primo fronte fascista in Italia, quindi porli anche solo ipoteticamente come barriera al “fascismo di ritorno” (cioè che loro pensano di loro stessi) è quantomeno azzardato XD
Interessante ed in modo scandalosamente reale il riferimento ai miti della classe dominante, di come questi riescano a perdurare nella mente delle persone anche di fronte ad ogni evidenza. A tal proposito ti propongo il seguente link: http://www.facebook.com/photo.php?fbid=10151948239553912&set=a.101777153911.91013.101748583911&type=1&theater
Se in preda ad un attacco maschistico avessi voglia di spulciarlo, troveresti in molti commenti il concetto “c’è capitalismo e capitalismo, non è cattivo per forza” ecc… e questo secondo me la dice davvero lunga su come siamo schiavizzati mentalmente prima che economicamente (e fisicamente, anche se in modo più subdolo). Al di là del faccione con sigaro tanto abusato e mitizzato che, mio parere tutto a-prioristico, mi sta sui marroni fin da quando ho 14 anni e gli “alternativi” a scuola se ne andavano in giro con le magliette con ‘sta faccia convinti che fosse la risposta a tutti i problemi – che loro, da buoni figli di papà, peraltro non avevano; sono di Genova, forse potrai capire 😛
Fra tutti i torti che potrebbe aver avuto il Che, di certo c’è quello di aver parlato troppo schietto e sincero, essere stato troppo realista. Ad esempio, la sua frase “fuciliamo e continueremo a fucilare finché sarà necessario” o quella “Per la realizzazione di regimi socialisti dovranno scorrere fiumi di sangue”; vengono impugnate sempre dai suoi detrattori, senza nemmeno rendersi conto del fatto che i regimi che attualmente ci dominano – ma tu mi diresti: non “i”, ma IL regime, quello del capitale – fanno esattamente questo, direttamente o indirettamente. L’hanno fatto nel passato nelle nostre aree geografiche, lo fanno nel presente nei territori del Terzo Mondo. Ma questi moralisti dell’ultima ora, proprio coerenti col loro (non)pensiero sul “capitalismo buono”, ovviamente non lo sanno – o non lo vogliono vedere.
Infine, permettimi di sottolineare questa frase geniale: “L’eccezione non solo non nega la regola ma ne illumina anzi la profonda e maligna radice” assolutamente realistica e profonda; alla quale poco umilmente mi permetto di affiancarne una che partorii dalla mia mente malata tempo fa, durante una discussione: “Nel complesso meccanismo di un orologio tutto concorre al funzionamento del sistema. Se ti soffermi su un singolo ingranaggio alla volta sei tratto in inganno, perchè non tutti girano nello stesso senso; eppure le lancette si muovono sempre in un’unica direzione”.
Ok, ho finito… meno male che dovevo essere breve 😀
Grazie per tutto. Soprattutto per l’ottima considerazione. La metafora dell’orologio la metto al polso, per non perderla mai di vista. Complimenti! Ciao!!
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