UNA MODESTA SPIGOLATURA SULLA NOTA “BANCA ROSSA”

o_145162_originalFra i tanti fili che si possono tirare dalla scottante, e per molti progressisti davvero imbarazzante, vicenda che vede il Monte dei Paschi di Siena, «la più antica banca del mondo», al centro della fetida melma elettorale che esonda da ogni buco mediatico, c’è senza dubbio quello che ci porta a considerare il rapporto tra sfera pubblica e sfera economica. Un rapporto che, com’è noto, nel Bel Paese è sempre stato particolarmente stretto, e proprio per questo generoso di magagne sociali di vario genere, alcune delle quali sono arrivate al fatidico punto di rottura proprio negli ultimi cinque anni, a contatto con la più grave crisi sistemica del Capitalismo dal Secondo dopoguerra. Beninteso, è un filo che consiglio di tirare solo dopo aver calzato guanti molto resistenti, per via del guano politico di cui sopra.

Dalla sua rattrappita e negletta prospettiva liberale, Marco Pannella ha sempre denunciato la continuità di sostanza tra il regime fascista e la cosiddetta «partitocrazia», la quale trovava, e in parte ancora trova, una puntuale rispondenza nella «sindacatocrazia», ossia nello stretto sodalizio tra la Trimurti Sindacale e il grande capitale organizzato intorno al sindacato padronale, la Confindustria. «La partitocrazia è l’erede del fascismo, e ciò in spregio della Costituzione nata dalla Resistenza». Questo secondo il Marco nazionale. Dal mio punto di vista, che non azzardo a chiamare “marxista” per non millantare crediti che non ho e, soprattutto, per non confondermi con il “marxismo” italiano (quello che, ad esempio, dal 1946 ha avuto sempre a che fare con la nota banca senese), la Sacra Carta, in quanto legge fondamentale dello Stato italiano, è in assoluta continuità formale e sostanziale con il Fascismo.

Agli inizi degli anni Novanta in Italia si pose il problema di superare le leggi bancarie degli anni Trenta, nate come risposta alla Grande crisi, sia per ammodernare l’obsoleta (tanto dal lato della finanza quanto da quello dell’industria) struttura economica del Paese, sia per recidere almeno una parte di quei vischiosi legami fra pubblico e privato che tanto parassitismo sociale e tanta corruzione avevano creato nel tempo. In ritardo di molti decenni rispetto ai capitalismi concorrenti, l’Azienda Italia decise dunque di promuovere il processo di privatizzazione del sistema bancario, ormai incapace di cogliere le nuove sfide poste dalla globalizzazione capitalistica. Praticamente da ogni parte (salvo che da quella degli statalisti di “destra” e di “sinistra”: ma c’è bisogno di ricordarlo?) giunse l’appello a superare le vecchie paure legate alla crisi del ’29: separare nettamente il sistema creditizio centrato sulla banca tradizionale che raccoglie denaro e alloca capitale da quello finanziario sviluppatosi nel moderno capitalismo non aveva più senso ormai da molto tempo, certamente dagli anni Sessanta, gli anni del boom economico e della risalita capitalistica italiana.

Per “sdoganare” l’esigenza di dotarsi di un sistema finanziario più moderno, dinamico ed efficace, Spadolini dichiarò (Congresso del PRI, 13 novembre 1992) che, in fondo, «la vera economia capitalistica nasce con la Repubblica, perché fino al fascismo non c’era economia, non c’era il rischio; c’era solo il sovvenzionamento delle imprese da parte dello Stato». Con ciò il simpatico leader repubblicano per un verso mostrava di non saper cogliere la sostanza sociale delle misure economiche approntate negli anni Trenta in Italia e nel resto del mondo capitalisticamente avanzato, alle prese con una crisi economica devastante e potenzialmente foriera di «folli avventure rivoluzionarie» (di qui, il keynesismo); e per altro verso si rendeva ridicolo nella misura in cui cercava di nascondere dietro una piccola foglia d’edera la sostanziale continuità del capitalismo “democratico”, fortemente assistito dallo Stato e ferocemente sostenuto a livello politico-ideologico da democristiani e “comunisti”, con quello “fascista”. Questa sostanziale (sociale) continuità trova puntuale riscontro negli articoli della Costituzione dedicati al lavoro (salariato!) e alla proprietà pubblica e privata (Art. 1, 41, 42, 43).

Il Governatore della Banca d’Italia Fazio, nella sua Relazione del 31 maggio 1993, per un verso sottolineò la necessità di creare una più moderna «sinergia» tra finanza e impresa industriale, affinché queste ultime fossero messe in grado di investire «nei paesi e nelle aree dove il costo della manodopera è una frazione di quella delle economie sviluppate» (egli alludeva soprattutto all’area balcanica, tradizionale cortile di casa dell’imperialismo, pardon: del capitale italiano); e per altro verso denunciò le «forme di corruzione diffusa nei rapporti tra imprese e sfera pubblica che hanno gonfiato la spesa pubblica e leso il buon funzionamento del mercato». Il mantra allora fu: privatizzare, privatizzare, privatizzare!

300px-Palio_-_ManifestoMa a dimostrazione di quanto estesi e forti fossero – e ancora sono, anche se in maniera sempre più residuale – gli interessi che si sono consolidati sulla base del vecchio capitalismo assistito («partecipato») dallo Stato, anche la riforma bancaria dei primi anni Novanta (Ciampi-Amato) fu azzoppata dalla «partitocrazia» e dalla «sindacatocrazia», riproponendo l’analisi di Franco Momigliano intorno alla crisi del sistema italiano (correva l’anno 1976): «Il problema della politica di breve periodo è quello di “come gestire capitalisticamente questa crisi”, ma il problema della politica di transizione, che è invece il problema immediato, è quello di come fare scelte capaci di penalizzare quelle parti del nostro sistema sociale che, in questi nuovi schemi dualistici, sono riusciti finora a sopraffare le altre parti e ad autoproteggersi» (F. Momigliano, in Progetto Socialista, Laterza, 1976). All’interno degli «schemi dualistici» di cui parlava Momigliano stavano da una parte la grande impresa che esprimeva la politica confindustriale, e dall’altra i lavoratori organizzati dai grandi sindacati collaborazionisti, pardon: responsabili. Entrambe le parti appoggiavano il «compromesso storico» caldeggiato dal PCI dell’onesto (sic!) Berlinguer e dalla DC del corrotto (secondo precedenti giudizi “comunisti”) Moro. Il PSI di Craxi, la cui statura morale giganteggia al cospetto delle recenti vicende senesi, cercò di aprirsi un varco tra i due Moloch della «partitocrazia» italiana, e in parte ci riuscì ponendosi come referente politico delle istanze di ammodernamento dell’Azienda Italia.

Oggi gli statalisti ideologi, assai numerosi a “destra” come a “sinistra” (si fanno chiamare “comunisti”) di Miserabilandia, gongolano rispetto alla prospettiva di una nazionalizzazione della «Banca Rossa». Inutile dire che Super Grillo è della partita: «ve la do io la Fondazione!», ha gridato ieri in faccia ai sinistrorsi di Siena. Gli stessi liberisti non sono affatto contrari a trasformare una situazione di fatto in una situazione di diritto, ratificando sul piano della legge la nazionalizzazione di quella banca che oggi appare sotto la guisa del prestito statale oneroso: nazionalizzarla, ristrutturarla e rivenderla, secondo l’esempio dei capitalismi più moderni e dinamici d’Europa. Ciò che disturba il liberista “serio”, non ideologico, è il soggetto che dovrebbe promuovere e gestire questo processo di risanamento, ossia lo Stato “sequestrato” dall’odiata «partitocrazia». «Non vorrei», ha detto un liberista d’OC, «che attraverso la nazionalizzazione togliessimo il Monte dei Pachi di Siena dalle mani del PCI-PDS-PD senese per metterla direttamente nelle mani di Bersani, Vendola e Camusso». Legittime preoccupazioni liberiste, mi sembra.

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