TALE PADRE TALE FIGLIO. DA LUCIANO A FABRIZIO UNA BARCA AUSTERA

PRESENTAZIONE RAPPORTO SVIMEZ 2012Come il padre Luciano, responsabile del settore economico nel PCI di Berlinguer, nonché stretto collaboratore dell’onesto Enrico, il figlio Fabrizio, attuale Ministro della coesione territoriale nel governo Monti e candidato alla leadership del Partito Democratico, è alla ricerca della mitica terza via. Il padre condivideva l’idea di molti “comunisti” italiani circa la necessità di farla finita con l’alternativa secca fra Capitalismo e Socialismo, per orientarsi senza indugi in direzione di una più “originale” forma sociale, che si avvantaggiasse di ciò che di buono era possibile recuperare di quei due sistemi. Il bambino non va mai gettato insieme all’acqua sporca. Qui sorvolo sul fatto che tanto il Capitalismo quanto il cosiddetto «Socialismo reale» (a cui Barca padre e compagni avevano guardato con amore per decenni) fossero, più che acqua sporca, sostanze escrementizie dall’identica natura sociale. D’altra parte non si può vendere per decenni alla propria base la merce avariata del «Socialismo sovietico» e poi passare impunemente a offrire sul mercato politico-elettorale l’odiato – a parole – sistema socialdemocratico. Di qui quel rimanere «in mezzo al guado» che esponeva il PCI di Berlinguer alle facili ironie dei compagni socialisti.

Il figlio, servendosi di un linguaggio politologico – relativamente – nuovo («un ibrido tra il PCI e il M5S», come giustamente ha scritto Salvatore vassallo su Europa del 12 aprile), sostiene nella Memoria politica che ne ha segnato l’ufficiale discesa/ascesa in campo che se l’Italia vuole evitare la sindrome del «catoblepismo» sistemico (l’avvitamento nel circolo vizioso del controllato che controlla se stesso, dal sistema finanziario a quello politico-istituzionale: Abyssus vocat Abyssum); se il Paese vuole gonfiare le proprie fiacche vele con il vento virtuoso delle riforme strutturali “a 360 gradi”: dalla politica all’economia, dalle istituzioni all’etica pubblica e privata, esso deve senz’altro affrancarsi dalla «visione minimalista» (Stato minimo, liberismo ideologico) che avrebbe portato l’Occidente all’attuale crisi economica, guardandosi tuttavia dal  ripercorrere le vecchie strade care alla «visione socialdemocratica» (Stato forte, invadente e pervasivo), la quale avrebbe favorito, come una sorta di fallo di reazione, l’ascesa del thatcherismo e del reaganismo. È necessario rifiutare gli errori e gli eccessi di entrambe le visioni, ma non per questo bisogna disperdere ciò che di buono di entrambe è ancora possibile mettere a profitto.

Il pragmatico Fabrizio Barca ha chiamato «sperimentalismo democratico» la terza via 2.0. Di che si tratta? Detta in estrema e rozza sintesi si tratta di introdurre in Italia, con qualche decennio di ritardo (come si conviene al Bel Paese in generale e alla sua cosiddetta sinistra politica in particolare), le «riforme di struttura» che hanno segnato l’esperienza politica di Blair in Inghilterra (la cui azione politica, com’è noto, non contraddisse per l’essenziale la ristrutturazione sistemica avviata dalla Thatcher alla fine degli anni Settanta) e da Schröder in Germania. Com’è noto, L’Agenda 2010 messa a punto dal cancelliere socialdemocratico nel 2002, ai tempi della Germania «malata d’Europa», per molti aspetti ricalcò l’Agenda Blair, la quale non era affatto dispiaciuta alla recentemente scomparsa Lady di ferro. Il disprezzato – a chiacchiere, a uso puramente elettorale – thatcherismo fatto uscire dalla porta viene insomma invitato a rientrare dalla finestra, e anche questo ha il suono tipico dell’Italietta, soprattutto di quella in guisa sinistrorsa.

Scrive Antonio Funiciello su Europa del 13 aprile: «Non occorre precisare che Fabrizio Barca, diversamente da Berlinguer, non propone di superare il capitalismo in favore della concezione totalitaria di economia pianificata». In primo luogo la «concezione totalitaria di economia pianificata» di cui parla Funiciello non presuppone affatto il superamento del Capitalismo ma, semmai, evoca il passaggio al Capitalismo di Stato, magari sul modello stalinista; in secondo luogo Enrico Berlinguer già negli anni Settanta aveva abbandonato quella concezione, e se parlava di «Socialismo», intendendo sempre il Capitalismo di Stato, com’era d’uso tra gli stalinisti, lo faceva sempre per accarezzare la base filosovietica, ancora legata al devastante e miserabile mito del «Socialismo reale».

tAgli inizi degli anni Settanta, inaugurando una «opposizione di tipo nuovo» che avrebbe dovuto tirarlo fuori dal famigerato guado che lo teneva lontano dal governo nazionale, il PCI decise di seguire senza indugi la DC, il PSI e il PRI  sulla strada della ristrutturazione capitalistica e del risanamento della finanza pubblica. La Cgil naturalmente seguì a ruota, abbandonando la vecchia forma di collaborazionismo sindacale adeguata al precedente status politico del PCI. Molti militanti dell’estrema sinistra allora accusarono il PCI e la Cgil di aver voluto abbandonare definitivamente il terreno della lotta di classe anticapitalistica; questa infondata posizione sorvolava sulla natura ultraborghese acquisita tanto da quel partito quanto da quel sindacato nel momento in cui il gruppo dirigente “comunista” s’inchinò allo stalinismo alla fine degli anni Venti.

Racconta Toni Negri: «Ad agosto [del 1960] an­dai in Unione Sovietica per la prima ed unica volta, una sorta di viaggio premio. E lì mi ammalai, lette­ralmente: lo scontro con la realtà sovietica fu tre­mendo, mi prese un disturbo psico-somatico. Mi scontrai con una dittatura reale e una società buro­cratica. Erano le cose che detestavo qui, ritrovarle in Urss fu uno choc. Quel viaggio mi ha cambiato la vita: al ritorno sono uscito dal movimento operaio ufficiale e sono entrato nei Quaderni Rossi» (Corriere del Veneto.it, 6 aprile 2009). Se avesse letto i comunisti “maledetti”, quelli dichiarati «oggettivamente fascisti» dai togliattiani, l’intellettuale padovano si sarebbe risparmiato quello choc, con relative magagne psico-somatiche, e, soprattutto, avrebbe fondato meglio la sua critica del togliattismo e dello stalinismo, che infatti fa acqua da tutte le parti. Chiudo la breve parentesi “settaria”.

Scriveva Luciano Barca su Rinascita del marzo ’73: «Con il loro crescere le rendite stanno mettendo in pericolo la quanti­tà e la qualità dell’accumulazione in Italia … [Vi è una] quota crescente di plus-valore che viene assorbita dalle rendite, da tutte le rendite (urbana, fondiaria, monopolistiche di produ­zione e di distribuzione, burocratica, da speculazione, ecc.), che impediscono a quanto viene accumulato di diventare inve­stimento produttivo. Vi è la necessità assoluta di combattere la rendita e di ridurre il settore improduttivo, [perché] su questo terreno siamo distaccati di interi secoli dai paesi con i quali siamo via via costretti a competere in modo più ravvicinato». Ecco come si esprime il grande capitale industriale, pubblico e privato, cosciente di se stesso! Ma siccome la politica, soprattutto quella di marca ita­liota, ha l’obbligo della mediazione, giacché deve tener conto della «compatibilità del quadro generale», Barca concludeva il suo franco attacco alla rendita con parole più moderate, più rispettose appunto del «quadro sociale complessivo»: «La struttura so­ciale del nostro Paese … è tale da cointeressare forzatamente alle rendite stesse milioni di persone, [per cui] la necessità assoluta e prioritaria di combattere le rendite e di ridurre il settore improduttivo [non deve dar luogo] a soluzione punitive, [le quali creerebbero] un clima favorevole per le provocazioni fasciste». Con lo spauracchio del fascismo sempre incombente il PCI giustificava, davanti alla propria base, una politica di «destra socialdemocratica» per molti versi assai più moderata di quel­la proposta dalla «sinistra democristiana».

In uno dei suoi ultimi scritti, Togliatti si chiedeva: «In quale misura i gruppi dirigenti della grande borghesia italiana, industriale e agraria, sono disposti ad accogliere anche solo un complesso di moderate misure di riformismo borghese? In quale misura, cioè, è possibile in Italia un riformismo borghe­se?». In questa domanda si coglie tanto la relativa arretratezza sociale dell’I­talia, quanto il moderatismo riformista del partito borghese di «sinistra», del PCI. Sarà infatti la Democrazia Cristiana di Fanfani a risollevare – sempre con moderazione, senza eccessive «fughe in avanti» – le sorti del riformismo ita­liano.

Catoblepas.

Catoblepas.

Come il padre, Fabrizio Barca vuole attaccare il parassitismo sociale, pubblico e privato, e tutte le magagne politiche e strutturali che ingessano il Paese e ne depotenziano le capacità competitive. Un esempio: «Quando cambiamenti radicali nelle tecnologie o nel design mettono fuori gioco intere produzioni o professionalità operaie … l’assicurazione dalla disoccupazione non costituisce il ponte verso un altro lavoro. La risposta vera a questa situazione consiste nel consentire a individui e famiglie di auto-assicurarsi contro questi rischi acquisendo la capacità di trovare soluzioni» (C. Sabel citato da Barca). Dal Welfare al Workfare, per citare sempre Blair. Invece di difendere un posto di lavoro che il processo capitalistico ha reso obsoleto, come facevano i minatori inglesi negli anni Ottanta (questo in ricordo di Margaret), il sindacato, la politica e lo Stato devono piuttosto assecondare quel processo, creando non la solita rete di protezione assistenzialistica, ma una rete «cognitiva» di informazioni e conoscenze che possa riqualificare il «capitale umano» e così metterlo nelle condizioni di trovare un nuovo impiego. Solo nell’anchilosato e avvizzito Paese che ci ospita queste cose possono suonare come originali, e per la verità anche da noi il dibattito sulla flexsecurity e sul Workfare è  vecchio almeno di due decenni. Il fatto è che i partiti italiani non hanno mai voluto schiacciare con decisione il pedale delle «riforme strutturali», per non perdere consensi elettorali ed evitare forti conflitti sociali. I poco brillanti risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Scrive F. Barca: «La macchina delle politiche pubbliche del nostro paese è anacronistica in tutte le fasi del processo di costruzione dell’azione … In particolare mai abbiamo saputo realizzare una radicale ed efficace revisione della macchina pubblica uscita dal fascismo». Condivido. La continuità sostanziale fra regime fascista e regime post fascista è indiscutibile, soprattutto per ciò che riguarda il rapporto tra lo Stato e la sfera economica, con tutto quello che ne segue sul terreno politico-istituzionale. Nel suo saggio del 2011 (L’Italia: una società senza Stato?, Il Mulino) Sabino Cassese metteva in luce, sebbene da una prospettiva abissalmente distante dalla mia (come si intuisce anche dal titolo del saggio), la robusta continuità politico-istituzionale e sociale tra le diverse vicende storiche del Paese: tra la situazione postunitaria e quella preunitaria, tra il fascismo e lo Stato liberale, tra la Repubblica Democratica e il fascismo, tra la cosiddetta «Seconda Repubblica» e la «Prima». Sradicare problemi molto radicati nella struttura sociale di questo Paese (è sufficiente porre mente al gap sistemico, sempre più accentuato e dirompente, Nord-Sud per capire di cosa sto parlando) è difficile, e il prezzo da pagare è sempre più salato: tante lacrime e tanto sangue, da versare sull’altare del «Bene Comune». Il Ministro Barca questo lo sa benissimo.

La bellezza austera dell'onesto Enrico

La bellezza austera dell’onesto Enrico

Come il padre Luciano, anche Fabrizio è affezionato all’austerità, ma beninteso declinata “a sinistra”: «L’austerità che questa situazione domanda può essere declinata in due modi radicalmente diversi. Come scriveva Enrico Berlinguer in un passaggio poi mancato della nostra storia repubblicana, l’austerità “può essere adoperata o come strumento di depressione economica, di repressione politica, di perpetuazione delle ingiustizie sociali, oppure come occasione per uno sviluppo economico e sociale nuovo, per un rigoroso risanamento dello Stato, per una profonda trasformazione dell’assetto della società, per la difesa ed espansione della democrazia”. Il minimalismo promuove la prima strada. Lo sperimentalismo la seconda». Sull’austero Berlinguer rimando a un post di qualche tempo fa. Su Fabrizio Barca e sulla sua politica dei sacrifici “sperimentalisti” rimando alla rubrica delle bestemmie nient’affatto minimaliste.

2 pensieri su “TALE PADRE TALE FIGLIO. DA LUCIANO A FABRIZIO UNA BARCA AUSTERA

  1. C’è sempre una puntuale esegesi dei fatti e delle ideologie in ciò che scrive Sebastiano Isaia: quella intelligenza ed onestà intellettuale che fa cadere tanti pregiudizi. A proposito di rendita: quella legata alla terra ed al regime dei suoli credo che sia stata radicalmente confiscata, generando anche una diffusa corruzione, che è in fondo un aspetto della rendita politica. Come potranno i signori di questa rendita le nomenclature illuministico-feudali auto-emendarsi?

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