FRANCIA E GERMANIA AI FERRI CORTI. Il punto sulla guerra in Europa

hollande-versione-napoleone-213129Giusto un anno fa Hubert Védrine invitava caldamente i suoi compatrioti a farla finita con la «chimera», sempre meno sostenibile, della grandeur e immergersi con coraggio nel bagno del realismo. «Non esiste una missione della Francia. L’idea di una nostra missione speciale è retorica, serve per alimentare un credo di cui la gente ha bisogno. Noi coltiviamo sempre questa tendenza alla chimera, ma oggi la Francia non è più un paese determinante. So bene che questo punto di vista non è molto rappresentativo dell’opinione prevalente tra i miei compatrioti, ma non possiamo negare la verità. Se non guardiamo alle cose come sono, non riusciremo a orientarci in questo mondo» (H. Védrine, Finiamola con la missione universale, Limes, 5 giugno 2012).

Per molti versi le parole dell’intellettuale e politico francese ricordano il dibattito che negli anni Trenta attraversò l’intellighenzia e la politica d’Oltralpe circa «la missione universale della Francia» nel nuovo mondo creato dalla devastante crisi economico-sociale di quegli anni e dal consolidamento delle nuove potenze mondiali: Stati Uniti, Russia, Giappone. Anche allora la Germania, pur sconfitta nel primo macello mondiale e pur sconvolta dal terremoto sociale postbellico, funzionò per la Francia come imbarazzante termine di confronto per illuminare le proprie contraddizioni e i propri limiti strutturali e sistemici. Come ha dimostrato Robert Paxton nel suo studio sul regime di Vichy, l’impresa tedesca degli anni Quaranta «ebbe l’appoggio delle masse e la partecipazione delle élite francesi», perché esse videro nella Germania dell’epoca, «per quanto fosse malvagio il suo spirito», una via d’uscita da quella «Francia chiacchierona» che nascondeva la sua profonda crisi di sistema dietro una grandeur che ormai mostrava tutta la sua inconsistenza strutturale. Ai sogni di gloria, molti francesi preferirono il semplice ma concreto programma di Pétain: «Travail, Famille, Patrie» (R. Paxton, Vichy, 1940-1944. Il regime del disonore, Il Saggiatore). Alla fine degli anni Ottanta Willy Brandt ricordava (soprattutto per giustificare la tiepida «epurazione antinazista» del dopoguerra messa in opera dal suo Paese), come al suo ritorno in patria il generale De Gaulle si stupisse della gran massa di antinazisti che vi incontrò: «se avesse contato i francesi che erano stati contro Pétain, sarebbero stati più di quanti cittadini avesse il paese» (W. Brandt, Non siamo nati eroi, Editori Riuniti). Evidentemente al generale i conti non tornavano.

prLa Francia ha perso il confronto sistemico con la Germania che va avanti, sotto la miseranda copertura del «progetto europeista», dalla fine della Seconda guerra mondiale, e la sua perdita di peso sul mercato mondiale, la sua crisi economico-sociale che rischia di farla scivolare verso Sud, verso la periferia dell’Euro, sono fatti che non possono più essere nascosti dietro il sempre più fantomatico asse franco-tedesco. Alla fine la potenza capitalistica tedesca ha avuto la meglio su tutte le illusioni europeiste e su tutti i calcoli politici fatti a tavolino a Parigi, a Berlino e a Bruxelles. Per dirla con il filosofo, la volontà di potenza del Capitale (non importa in quale guisa nazionale) trova sempre il modo di affermarsi.

I sondaggi di opinione pubblicati in Francia in questi giorni attestano il disastro politico di Hollande e del suo partito. Solo il raid aereo in Mali di inizio anno riuscì a dare un po’ di ossigeno alla sempre più asfittica popolarità del Presidente progressista. «La grandeur è una merce che si vende ancora bene a Parigi», scrivevo il 15 gennaio 2013: «Nel suo editoriale di ieri Libération faceva notare come nella Quinta Repubblica la guerra sia sempre stata una buona notizia per l’Eliseo, ed è un fatto che dopo l’intervento armato in Mali la destra di Marine Le Pen, in guerra contro il governo Hollande sui «temi eticamente sensibili», ha smorzato di molto i toni della sua polemica “passatista”. L’effetto di ricompattamento nazionalistico sotto il tricolore francese è stato immediato, e almeno per adesso sembra poter resistere alle prime cattive notizie che arrivano dal teatro di guerra. Dopo lo scorso venerdì lo scialbo Hollande sembra meno insulso, a dimostrazione che anche nel XXI secolo l’uso della forza ha un certo appeal» (Grandeur francese e mutismo pacifista). Ma per rimanere a galla il Presidente socialista non può certo bombardare mezzo mondo!

15569Tuttavia, come scriveva Riccardo Pennisi su Limes (26 febbraio 2013), «La gravità della situazione attuale sembra portare il presidente, più che sulla scia dell’unico e mitico predecessore socialista, François Mitterrand, su quella del generale Charles de Gaulle». Questo anche perché Hollande sta cercando di sfruttare al massimo tutte «le prerogative che rendono il capo dello Stato francese arbitro supremo della vita politica del paese», per preparare il terreno alla necessaria politica dei sacrifici. Il decisionismo, evidentemente, non è mai abbastanza.

Il tentativo di attribuire all’«intransigenza egoista» di Angela Merkel, come recita il famigerato documento del partito socialista francese reso pubblico il 26 aprile, i fallimenti economici e politici della Francia è a sua volta miseramente fallito.  «Non c’è niente di più irresponsabile che trasformare Angela Merkel e la politica estera della Germania in un capro espiatorio per le difficoltà del nostro paese», ha scritto Le Figaro del 29 aprile, e secondo Le Monde «questo giochino non è soltanto infantile, ma anche molto pericoloso». Il tedesco Der Spiegel ha scritto, sempre il 29 aprile, che «A un anno dall’inizio della sua presidenza i rapporti tra Francia e Germania si sono deteriorati più di quanto pensassero i pessimisti nei due paesi. Berlino e Parigi sono in disaccordo su tutte le decisioni politiche per superare la crisi». È illusorio, oltre che ridicolo, credere che la Germania possa azzoppare la propria capacità capitalistica, come di fatto chiedono a Berlino Hollande e gli atri leader del Mezzogiorno europeo, solo per consentire alla Francia e agli altri paesi in crisi di non porre mano alle dolorose «riforme strutturali» che rischiano di colpire lucrose rendite di posizione e di scatenare vasti movimenti di opposizione sociale.

La guerra sistemica europea non è un pranzo di gala, e il rancido dibattito tra cosiddetti «rigoristi» e cosiddetti «sviluppisti» non riesce più a celare la vera posta in palio (l’egemonia economico-politica in Europa), né la natura sociale (capitalistica) degli interessi che oppongono i diversi paesi dell’Unione europea. Rispetto a questi interessi le classi dominate del Vecchio Continente hanno tutto da perdere e niente da guadagnare.

2 pensieri su “FRANCIA E GERMANIA AI FERRI CORTI. Il punto sulla guerra in Europa

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