Alla vigilia del vertice europeo che si apre domani a Bruxelles, Tonia Mastrobuoni mostra il dente avvelenato nei confronti della Germania, accusata dalla giornalista “economica” che scrive per La Stampa di giocare una partita commerciale sostanzialmente solitaria con la Russia (soprattutto per ciò che riguarda il suo approvvigionamento di materie prime energetiche) e con la Cina, le cui relazioni commerciali con i teutonici sono diventate davvero «speciali». «La Germania gioca sporco», ha dichiarato la Mastrobuoni nel corso di un’intervista a Radio Radicale, tanto più adesso che la Francia sembra convertirsi a una politica di integrazione europea finalmente alleggerita dai vecchi pesi nazionalistici marcati Grandeur, una “grande firma” del secolo scorso precipitata nell’abisso dell’obsolescenza sistemica.
La politica energetica e commerciale della Germania è per molti aspetti «scandalosa», e rappresenta «un tradimento» nei confronti del progetto di unificazione «a 360 gradi» dei Paesi integrati nella moneta unica. È, questo appena riassunto, il tipico ragionamento dell’analista politico-economico che ancora tarda a comprendere la reale natura e la reale portata delle divergenze che impediscono al «sogno europeo» di fare quel salto di qualità senza il quale esso rischia di trasformarsi in un bruttissimo incubo.
Dopo aver accolto con entusiasmo «la svolta di Hollande» sancita nella conferenza stampa del 16 maggio («Finalmente una proposta francese per l’Europa!»), Le Monde ha osservato che la presunta svolta del Presidente francese «sarà credibile soltanto se Hollande rimetterà in sesto la Francia». Naturalmente rimettere in sesto la Francia non può avere altro significato se non quello di attuare le temute «riforme strutturali» idonee a innalzare la produttività sistemica del Capitalismo d’Oltralpe, ormai da diversi lustri azzoppato da non poche magagne sistemiche: rigidità nel mercato del lavoro, spesa pubblica improduttiva, welfare sempre meno sostenibile, e così via. Naturalmente i problemi appena elencati devono sempre venir considerati in rapporto a quanto accade nella struttura sociale dei Paesi competitori nel corso del tempo, così che, ad esempio, un mercato del lavoro nazionale che preso in sé appare molto flessibile, mostra invece tutta la sua scarsa competitività non appena lo si confronta con il mercato del lavoro degli immediati concorrenti. In ogni caso, a decidere in ultima analisi della bontà di un sistema economico è sempre la redditività dell’investimento, ossia la bronzea legge del profitto. Ora, non appena si mettono a confronto le strutture sociali di Francia e Germania, facilmente viene fuori il gap sistemico tra i due Paesi, il quale ha raggiunto la massa critica sufficiente a produrre conseguenze politiche di vasta portata, in parte già visibili e registrate dagli analisti nella rubrica crisi del progetto europeo.
Die Welt (17 maggio) ha gettato molta acqua sul fuoco degli entusiasmi “europeisti” dei francesi, notando che «la cosiddetta offensiva [di Hollande] contiene essenzialmente misure che il suo predecessore aveva già presentato», compresa la proposta (peraltro di invenzione tremontiana) delle obbligazioni europee (eurobond), a cui lo scialbo Presidente francese ha solo cambiato nome, forse nella speranza, abbastanza infondata, di bypassare l’opposizione dei tedeschi, i quali, com’è noto, non amano essere presi per il naso: la ritorsione tedesca è sempre in agguato… Die Welt ha malignamente fatto osservare che il Presidente socialista attacca «l’austerity tedesca non soltanto per motivi ideologici ma anche come mossa tattica», ossia per far ingoiare ai francesi il rospo dei sacrifici connessi alla necessaria «riforma strutturale», per molti aspetti simile a quella implementata dal socialdemocratico Schröder (Agenda 2010) dieci anni fa.
Ma buttando avanti la palla dell’integrazione politica europea Hollande probabilmente intende anche prepararsi il terreno per scelte sovraniste da addebitare alla «tetragona ed egoista» Germania, la quale, dal canto suo, non concepisce altra integrazione europea che non abbia il volto di un’Europa germanizzata. Gli interessi nazionali di tutti i protagonisti della guerra sistemica europea ancora una volta hanno la meglio su qualsivoglia chimera europeista. Non potrebbe essere diversamente.
Come ho scritto altrove, la Germania sarebbe anche disposta a travasare una parte della propria ricchezza verso Sud, a favore del Mezzogiorno europeo, non fosse altro che per non deprimere un mercato che sorride al Made in Germany; ma mostra di volerlo fare a precise condizioni, ossia che il processo di germanizzazione dell’Europa subisca un’accelerazione. La struttura dell’euro avvantaggia la Germania perché senza questa premessa la classe dominante tedesca non avrebbe mai accettato di entrare nell’eurozona, e molto probabilmente non ci sarebbe stata alcuna moneta unica europea. I nodi di una divisa non radicata in una precisa sovranità nazionale necessariamente dovevano venire al pettine, investendo brutalmente la dimensione del politico. Il “proditorio” attacco monetario giapponese al capitalismo mondiale deciso dal primo ministro Shinzo Abe ha reso ancora più evidente la contraddizione “strutturale” che rende fragile l’area dell’euro.
«Non c’è nessun motore franco-tedesco», ha sentenziato qualche giorno fa Lucio Caracciolo; a ben considerare il «motore franco-tedesco» non è mai esistito, è stato un mito teso a celare la dimensione antagonista degli interessi nazionali che fanno capo a Francia e Germania.
Dalla mia prospettiva l’Unione Europea appare non più che un coacervo di interessi, economici e politici, che fanno capo ai vari Paesi che ne fanno parte, soprattutto a quelli più forti, ossia a Germania, Francia e Inghilterra. L’«europeismo» di questi Paesi regge nella misura in cui l’Unione apporta loro dei benefici, anche alla luce della sempre più difficile competizione capitalistica mondiale (fare “massa critica” nei confronti degli Stati Uniti, del Giappone, della Cina, ecc.). L’Europa delle nazioni, contrapposta alla «Patria Europea», non è solo il sogno dei neogollisti, ma è soprattutto la descrizione della realtà. La storica tensione franco-tedesca non ha mai abbandonato la scena, e non ha smesso di agire nel corso degli ultimi decenni appena celata da un sottilissimo strato di ideologia “europeista”, che si è lacerato al contatto con la prima seria crisi economico-sociale.
È quello che non ha capito – non può capirlo, non a causa di un deficit di intelligenza, bensì in grazia di un deficit di “materialismo storico” – Barbara Spinelli, la quale legge l’attuale guerra sistemica che scuote l’Unione europea alla stregua di una «convulsa scempiaggine della sua politica», e che per questo invoca un ritorno agli ideali di Adenauer e di Kohl, ovvero uno «Scisma», affinché ritorni il primato della politica sull’economia nelle scelte che decideranno il destino del Vecchio Continente. «Non resta quindi che lo Scisma: la costruzione di un’altra Europa, che parta dal basso più che dai governi … Il Papato economico va sovvertito opponendogli una fede politica. Solo così la religione dominante s’infrangerà, e Berlino dovrà scegliere: o l’Europa tedesca o la Germania europea, o l’egemonia o la parità fra Stati membri … Occorre l’auto-sovversione di Lutero, quando scrisse le sue 95 tesi e disse, secondo alcuni: “Qui sto diritto. Non posso fare altrimenti. Che Dio mi aiuti, amen”» (Qua ci vuole Martin Lutero, La Repubblica, 17 maggio 2013). Non nego che l’articolo della Spinelli ha fatto nascere in me l’esigenza di qualche gesto scaramantico. Probamente anch’io difetto di “materialismo storico”!
«In realtà l’economia stessa è diventata una specie di religione», sostiene il giovane e brillante economista Tomáš Sedláček nel suo saggio di successo Economia del bene e del male: «Ci dice cosa fare, cosa pensare, chi siamo, come trovare un senso alla nostra vita, come relazionarci agli altri e su quali principi la società si regge». Naturalmente a Sedláček questo non va bene: secondo lui l’economia dovrebbe essere più umana, e per raggiungere questo ambizioso obiettivo «c’è bisogno di una rivoluzione etica». Ma il significato di questa «rivoluzione» è svelato da questo passo: «Dobbiamo essere competitivi per reggere il passo della Cina e di altri mercati emergenti. Abbiamo scelto l’austerity nel momento meno opportuno» (Basta con il feticismo economico, Intervista di Tomáš Sedláček a Presseurop, 15 maggio 2013). Qualcuno mi può spiegare come si “coniuga” l’umano con la competitività capitalistica? Misteri del feticismo economico!