Per Bruxelles la Cina è fin troppo vicina, e sarebbe ora che la Germania ne prendesse atto, privilegiando per una volta gli interessi che fanno capo all’Unione europea, soprattutto adesso che la disoccupazione giovanile dilaga (ma non ancora in Germania: anzi) e la crisi economica indebolisce ogni giorno di più le capacità di resistenza del Capitalismo europeo nei confronti del Celeste Capitale. Secondo il commissario europeo per il commercio, il belga Karel De Gucht, il «dumping di massa» e «le pratiche sleali» delle industrie cinesi rischiano di cancellare a breve circa 25mila posti di lavoro nell’area europea. Verrebbe da dire: È il Capitalismo, bellezza! Di qui, la necessità per i lavoratori europei di non concedere nulla alle sirene del protezionismo e del Sovranismo economico e politico, e di lottare insieme contro gli interessi del Capitale internazionale, a partire dai suoi snodi nazionali.
L’ultimo casus belli che getta benzina sul fuoco nelle relazioni franco-tedesche ruota intorno alla forte tassazione sui pannelli solari e sugli apparecchi per la telecomunicazione Made in China che la Commissione europea si appresta a deliberare. «È arrivato il momento che l’Europa smetta di lasciarsi ingolosire dall’immensità del mercato cinese e pretenda, come fanno gli Stati Uniti, un minimo di reciprocità. […] L’interdipendenza delle economie mondiali spinge per la soluzione amichevole voluta da Berlino. Ma per ottenerla è necessario alzare i toni e rinunciare all’ingenuità. Considerando la crescita rapida della potenza cinese, presto potrebbe essere troppo tardi» (Le figaro, 21 maggio 2013). Ciò che il quotidiano francese definisce «ingenuità» altro non è che l’antagonismo sistemico tra i Paesi dell’Unione europea, e soprattutto tra quelli forti del Nord e quelli più deboli del Sud, con la Francia che cerca di mantenere un sempre più precario equilibrio ponendosi come “cerniera” tra le due macro-aree economico-sociali. In realtà la Francia ha più di un piede nel Mezzogiorno europeo, e solo il peso politico (struttura militare compresa, naturalmente) e il retaggio storico le consentono di non scivolare nell’irrilevanza della «periferia» europea.
La Germania naturalmente teme di perdere il ricco mercato cinese, e così cerca di “convincere” i partner europei che il libero scambio con la Cina serve a tutti, mentre le sanzioni rischiano di frenare «la svolta energetica» già in atto, tanto più dopo la levata di scudi dell’Ue contro l’estrazione del petrolio dagli scisti bituminosi (shale oil), una pratica molto pesante in termini di «impatto ambientale» che sta contribuendo a rafforzare la ripresa economica negli Stati Uniti. Scrive il tedesco Tageszeitung a proposito della politica anticinese dell’Ue: «Si tratta di una scelta che potrebbe ritorcersi contro l’Europa, perché sono i produttori cinesi che hanno reso possibile il boom della produzione di energia solare […]. Non bisogna dimenticare che oggi il prezzo dell’energia solare è più basso che mai. Fino a qualche anno fa il costo di un chilowattora ammontava a 40 centesimi di euro, mentre oggi è inferiore ai 20 centesimi». Se si considera che la Germania realizza circa i due terzi delle sue eccedenze commerciali fuori d’Europa, in Asia e in particolare in Cina, e che, sempre secondo il Tageszeitung, cancellando le tasse doganali le esportazioni tedesche in Cina aumenterebbero di almeno 4 miliardi di euro, si comprende bene come in ballo ci sia ben più che il risparmio energetico e la “rivoluzione nel paradigma energetico”.
Come ho scritto diverse volte, in generale la politica liberista è tipica dei Paesi capitalisticamente forti, i quali hanno tutto l’interesse a sostenere la linea della «porta aperta», e magari spalancata, nella competizione economica mondiale, mentre la politica protezionista è tradizionalmente di pertinenza dei Paesi capitalisticamente più deboli, o meno forti, i quali avvertono la necessità di offrire una qualche protezione alle proprie industrie, incapaci di reggere un libero confronto sul mercato con le industrie più competitive e aggressive. Naturalmente la cosa va sempre considerata in termini relativi, perché le parti tra “liberisti” e “protezionisti” possono sempre invertirsi, e d’altra parte non insiste alcuna linea divisoria invalicabile tra le due politiche appena chiamate in causa, di modo che l’una può lasciare il posto all’altra senza tanti traumi sulla scorta degli interessi contingenti di un dato Paese. Questo checché ne dicano gli ideologi delle due scuole economiche, sempre pronti a edificare altissime muraglie concettuali che esistono solo nelle loro scientifiche teste.
Tuttavia, non c’è dubbio che da decenni – si può dire dal secondo dopoguerra – la Germania adotta in “linea di principio” una politica liberista, e fino ai primi anni Novanta le tenne compagnia, per così dire, il Giappone, contro il cui aggressivo liberismo soprattutto gli Stati Uniti d’America reagirono duramente tanto sul piano commerciale (dazi doganali) quanto su quello monetario (rivalutazione dello yen: vedi gli accordi sottoscritti nel 1985 dai rappresentanti di USA, Germania, Giappone, Inghilterra e Francia all’Hotel Plaza di New York). In parte la flessione nella capacità competitiva nipponica che si registrò nella seconda metà degli anni Novanta si spiega con quella aspra reazione protezionista, oltre che con l’incapacità delle classi dirigenti giapponesi di mettere in campo le adeguate contromisure, le quali chiamavano in causa «riforme strutturali» dolorose sul piano sociale e politico – leggi alla voci rendita di posizione e consenso elettorale: il Bel Paese e la Francia ne sanno qualcosa.
L’«accordo di libero scambio» che Svizzera e Cina si sono impegnati a sottoscrivere a breve non è certo una buona notizia per i protezionisti di Bruxelles. «In un articolo per il giornale svizzero di lingua tedesca New Zuricher Zeitung, il primo ministro cinese Li Keqiang ha affermato che “un accordo di alta qualità tra Cina e Svizzera è un buon esempio […] manda un forte messaggio al resto del mondo: noi rifiutiamo il protezionismo per il commercio e gli investimenti. Al contrario abbracciamo la liberalizzazione del commercio”» (G. Cuscito, La precisione svizzera di Pechino, Limes, 29 maggio 2013). Lo scialbo Hollande è avvisato.