Per Charles A. Kupchan, docente di relazioni internazionali presso prestigiose Università americane, «Il XXI secolo non apparterrà all’Europa, agli Stati Uniti, alla Cina o ad altre potenze: sarà un mondo di nessuno» (Guardando a ovest in un mondo di nessuno, Aspenia, n. 61 – giugno 2013). Ora, se al dominio sociale capitalistico diamo, omericamente, il nome di Nessuno, ecco che conferiamo alle parole del nostro professore un’indubbia pregnanza scientifica, non so quanto a lui stesso gradita se declinata in questi termini.
In effetti, il mondo del XXI secolo è di Nessuno: da Nord a Sud, da Est a Ovest domina ovunque incontrastato il rapporto sociale capitalistico, il quale promuove sempre di nuovo l’espansione qualitativa e quantitativa dell’economia fondata sul profitto. Più volte ho sostenuto che il concetto geopolitico di spazio fisico è muto, è privo di concrete determinazioni se non viene fecondato dal concetto di spazio sociale, che peraltro lo ricomprende. Questo soprattutto perché il dominio capitalistico, prim’ancora che geograficamente, si espande innanzitutto socialmente, assoggettando l’intera prassi sociale delle singole nazioni, e, per così dire, esistenzialmente, facendo degli individui una risorsa economica perfetta, «capitale umano» che produce, consuma, agisce e sogna in termini strettamente capitalistici. Il Capitalismo diventa globale in questo peculiare significato.
Naturalmente lo sguardo di Kupchan si fissa sulla dimensione più propriamente geopolitica del processo sociale appena abbozzato, cosa che lo porta a descrivere una realtà mondiale nella quale la gestione del potere sistemico si fa policentrica, dopo la fine della guerra fredda, il perdurante declino – relativo, non assoluto – degli Stati Uniti, l’impasse sempre più evidente e pericolosa nella costruzione di uno spazio europeo unitario e, dulcis in fundo, l’ascesa delle nuove potenze mondiali, Cina, India e Brasile su tutte, nell’agone della contesa interimperialistica.
Scrive Kupchan: «Non è certo la prima volta che le principali potenze mondiali adottano sistemi di governo e di commercio completamente diversi: nel XVII secolo il sacro romano impero, l’impero ottomano, quello dei Moghul, la dinastia Qing e lo shogunato di Tokugawa amministravano ciascuno i propri affari secondo le proprie regole e la propria cultura. Ma si trattava di potenze in larga misura chiuse in se stesse, che interagivano poco con l’esterno e non avevano perciò bisogno di concordare una serie di regole comuni per gestire i loro rapporti. In questo secolo, al contrario, per la prima volta nella storia, molteplici versioni di modernità coesistono in un mondo interconnesso». Qui lo scienziato americano sostiene, con altre parole e partendo da un punto di vista affatto diverso dal mio, quanto ho appena sostenuto: la Società-Mondo del XXI secolo è saldamente e necessariamente nelle mani del Capitale, un Moloch storico-sociale che finalmente ha raggiunto la sua più adeguata dimensione, che è appunto quella mondiale, come aveva capito il “profeta” di Treviri già al tempo in cui solo pochissimi paesi potevano vantare carte in regola in termini di sviluppo capitalistico.
Com’è noto, per Marx lo sviluppo capitalistico culmina nella creazione di un mercato mondiale. La fenomenologia politico-sociale di questa tendenza storica ha avuto nel colonialismo e nell’imperialismo i suoi momenti più significativi. Oggi assistiamo all’acuirsi della tensione dialettica tra la dimensione mondiale del Capitale, e la dimensione nazionale della società borghese: il naturale «cosmopolitismo» del Capitale deve fare i conti con questa contraddittoria realtà, ed è soprattutto nei momenti di più acuta crisi economico-sociale che il “retaggio” sovranista rivendica uno spazio che sembrava appartenere al passato. La storia non è finita, come profetizzava qualcuno.
Quando Kupchan fa riferimento alla coesistenza di «molteplici versioni di modernità» intende riferirsi soprattutto al «capitalismo liberista» di matrice occidentale e al «capitalismo di Stato» con caratteristiche cinesi: «La sua [della Cina] economia è oggi più produttiva di quella dei paesi occidentali […] Inoltre, in un’economia globale fluida e veloce, il controllo esercitato dal capitalismo di Stato ha i suoi palesi vantaggi. La Cina – in buona parte proprio perché detiene il controllo di quegli strumenti politici che sono stati abbandonati dagli Stati liberali – ha dimostrato una grande capacità di sfruttare i benefici della globalizzazione, limitandone al tempo stesso i costi. Non sorprende perciò che la Russia, il Vietnam e altri paesi seguano il suo modello». A sua volta, alla fine degli anni Settanta, la Cina studiò molto bene il modello di sviluppo capitalistico sperimentato con successo a Singapore, a Taiwan, nella Corea del Sud, per poi applicarlo con uno zelo davvero invidiabile – e qui mi pongo inopinatamente sul terreno della concorrenza occidentale.
Se riflettiamo sul peso crescente che il capitale privato ha nell’economia cinese appare quantomeno riduttivo continuare a parlare di «capitalismo di Stato»; in ogni caso è sempre meglio che straparlare di «socialismo con caratteristiche cinesi», come fanno certi propagandisti filocinesi basati anche dalle nostre parti.
Particolarmente interessante appare la lettura che Kupchan fa dei devastanti contraccolpi sociali causati dalla globalizzazione capitalistica degli ultimi vent’anni. Declino delle classi medie («persino in Germania la classe media si è ridotta del 13% fra il 2000 e il 2008»), stagnazione dei salari, abnorme crescita delle disuguaglianze sociali, crisi del «generoso welfare» occidentale: «Queste tendenze non sono sottoprodotti temporanei del ciclo economico, né mere conseguenze dell’insufficiente regolamentazione del settore finanziario, o di tagli alle tasse e guerre costose o altri errori politici […] La stagnazione dei salari e la crescita delle disuguaglianze sono innanzitutto la conseguenza dell’integrazione di miliardi di lavoratori a basso salario nell’economia globale e della crescita di produttività derivante dall’applicazione delle tecnologie informatiche al settore manifatturiero». È il Capitalismo, bellezza! «La globalizzazione premia ampiamente i vincitori ma si lascia dietro molti perdenti». Ma questa è da sempre la bronzea legge del Capitalismo: non c’è successo che non si compia a spese di un perdente. È soprattutto in tempo di crisi che la darwiniana selezione – capitalistica – della specie trova la sua più spietata conferma, in primo luogo sotto forma di centralizzazione della ricchezza sociale.
Come sempre non aggiungo al termine Capitalismo nessun aggettivo che possa in qualche modo alludere, anche solo indirettamente, alla possibilità di una sua forma meno disumana, contraddittoria, conflittuale e distruttiva (vedi alle voci “impatto umano” e “impatto ambientale”) dell’attuale. Non gli utopisti, che continuano a non avere alcuna voce in capitolo nella vita degli individui, ma la prassi si è incaricata di smentire le chimere riformiste confezionate dagli uomini di buona volontà negli ultimi due secoli. La condizione umana è talmente messa male, che a Papa Francesco è bastato pochissimo (un «buona sera», una pacca sulle spalle, qualche battuta sulla «globalizzazione dell’indifferenza», una valigia da viaggio: quale inusitato gesto!) per entrare nei cuori di milioni di persone in tutto il mondo. Ah, millenaria saggezza della Chiesa!
Il professore americano denuncia la perduta capacità egemonica dell’Occidente, ma vuole contrastare questa tendenza, anche perché, da buon liberale, teme il perdurante totalitarismo della Cina. Ma come reagire senza scatenare una nuova guerra mondiale? «Se vogliono competere con il capitalismo di Stato cinese e far fronte alle potenti spinte della globalizzazione, Europa e Stati Uniti devono impegnarsi in una pianificazione economica strategica su una scala senza precedenti. La storia insegna che questi cambiamenti della distribuzione del potere globale sono pericolosi e creano di solito instabilità provocando, non di rado, guerre fra grandi potenze. Una delle principali sfide strategiche di questo secolo sarà quella di riuscire a governare questa fase di transizione garantendo che si svolga pacificamente». C’è forse qualcuno oggi che si augura un esito bellico della «transizione»? Il fatto è che la guerra sistemica fra potenze e fra alleanze imperialistiche, di diritto o di fatto, è in corso, come stiamo vedendo soprattutto in Europa, dove sempre più la questione tedesca mostra di essere una questione quantomeno europea. Si tratta piuttosto di vedere se la guerra sistemica (economica, scientifica, ideologica, politica) può tracimare nella dimensione militare dispiegata – ossia non puramente potenziale, come mera minaccia.
Quando poi Kupchan consiglia ai leader occidentali di «elaborare una sorta di “populismo progressista” [stile Obama], che incanali il malcontento dell’elettorato verso traguardi costruttivi», egli indubbiamente esprime la crescente preoccupazione delle classi dirigenti, alle prese con una crisi economica ancora attiva e con una potenza del Capitale sempre più sfacciatamente totalitaria, tale da ridicolizzare tutte le illusioni intorno alla democrazia, al “potere popolare”, allo Stato di diritto, ai diritti cosiddetti umani e via di seguito con le tante e luccicanti chimere politico-ideologiche vendute dall’Occidente in tutto il mondo negli ultimi due secoli.
Signor Isaia, non per guastarle il fine settimana (benché in fondo una sana risata allievi i cattivi pensieri), ma le voglio suggerire la lettura di quest’articolo di Chris Mathlako (sintesi d’un intervento a un seminario sulla Cina), apparso nel sito della nota associazione Marx XXI.
Leggerò, più che altro per rinforzare la mia sempre indigente autostima. Il titolo è già tutto un programma – Imperialista. Grazie per la spassosa segnalazione. Ciao!