Pubblico alcune pagine del mio studio Dominio e katéchon. Appunti
di studio teologico-politici. Il PDF integrale è scaricabile da qui.
Dalla Prima parte.
LA POTENZA DEL DOMINIO SI SOTTRAE AL KATÉCHON
Il Dominio non è mai così contento
come quando si nega la sua esistenza.
Con un certo sprezzo del pericolo pubblico la sintesi di uno studio “teologico-politico” particolarmente focalizzato sul concetto paolino di katéchon e su alcune delle sue moderne “declinazioni”. Ogni pretesa di organicità e di coerenza dottrinaria qui appare vana, e almeno questo è un punto acquisito dal sottoscritto, il quale sa di essersi misurato con un oggetto che probabilmente non è alla sua portata. E d’altra parte non sarebbe la prima volta. Né, spero, sia l’ultima.
Naturalmente mi auguro che nella sintesi, che ha conferito un carattere particolarmente frammentato e frastagliato agli appunti di studio, la chiarezza del ragionamento non sia stata sacrificata oltremisura, e in ogni caso di ciò mi scuso in anticipo. Come sempre, mettere prudentemente le mani avanti può servire a rendere meno dolorosa un’eventuale caduta mentre si percorre un terreno particolarmente accidentato e pieno di trappole. Temo ma non per questo tremo, e dunque procedo, sapendo, marxianamente, di non aver altro da perdere se non le mie catene. «E la reputazione?» Quale? […]
In Timore e tremore, tanto per rimanere in tema, Kierkegaard scrisse che il singolo è incommensurabile con la realtà, perché come attesta sempre di nuovo la fede contro la ragione «il Singolo come Singolo è più alto del generale» [1]. Il filosofo di Copenhagen aveva di mira la Filosofia del diritto di Hegel e quegli epigoni del ragno di Stoccarda fin troppo acriticamente disponibili nei confronti di un Progresso (borghese) che già allora mostrava, almeno all’occhio dell’intellettuale umanamente sensibile, i primi inquietanti “risvolti dialettici”.
Ora, «Perché l’uomo s’innalzi all’uomo» (Schiller), realizzando le più feconde speranze maturate in ogni tempo sul terreno della cattiva condizione umana, occorre portare la realtà del mondo a misura del singolo individuo, oggi annichilito e angosciato da una totalità sociale che ci si presenta come un immane e incontrollabile meccanismo pronto a stritolarci al primo – eppur minimo – errore.
È da questa prospettiva concettuale, che chiamo punto di vista umano, che ho approcciato anche il tema in oggetto. Questa particolare prospettiva concettuale, che ha (vuole avere) un preciso “risvolto” politico, non si propone di rendere più buoni e migliori (“più umani”) gli individui, hic et nunc, ma piuttosto quello di renderli più coscienti, o semplicemente coscienti circa l’attualità del Dominio e la possibilità della liberazione. Questa coscienza critica è forse la sola vera libertà e la sola vera umanità a cui possiamo accedere nel regno dell’illibertà e della disumanità. Naturalmente questo punto di vista non è qualcosa di acquisito, di già dato, ma è piuttosto un obiettivo da conquistare sempre di nuovo, con uno sforzo che è insieme teorico e pratico. […]
Il katéchon è stato in passato, e in parte lo è ancora, un concetto chiave nello sforzo di legittimazione politico-ideologica della struttura di dominio. […]
La provvidenziale dialettica della Salvezza prescrive, per un verso l’avvento dell’Anticristo come momento di apocalittica chiusura dei tempi segnati dalla presenza del Male nel mondo, e per altro verso l’azione di una potenza di segno contrario (antiapocalittica) che frena e differisce il ritorno tra le nazioni del «serpente antico». […]
Come ha cercato di dimostrare Carl Schmitt, ogni epoca esibisce una peculiare fenomenologia dell’Anticristo (l’Islam, l’ateismo, l’Inghilterra, l’America) e un altrettanto peculiare Katéchon che ne deve arrestare, per quanto possibile, il trionfo, peraltro necessario nella misteriosa economia della Salvezza. L’Anticristo può a volte incarnarsi in personaggi che rappresentano la cifra antropologica dei tempi: Proudhon per Donoso Cortés e Max Stirner, sebbene in una guisa assai più complessa e persino ambigua, per Schmitt. Chissà cosa avrebbe detto Marx a proposito di queste preferenze. «Dimmi chi è il tuo Nemico, e ti dirò chi sei», forse è questo che avrebbe pensato l’avvinazzato di Treviri, a suo tempo assai critico – e sarcastico – nei confronti tanto dell’«insulso» Proudhon quanto di «San Max». […]
L’uomo uscito dalle tenebre del Medioevo non è padrone del suo destino, nonostante i lumi della ragione e il progresso tecnico-scientifico. L’uomo propone e il Capitale dispone. È un colossale amen! sulle aspettative di emancipazione suscitate dalla borghesia nella sua fase storicamente rivoluzionaria. […]
«L’ordine del profano deve essere orientato verso l’idea della felicità» (W. Benjamin, Frammento teologico-politico).
Freud ebbe ragione, dal punto di vista dello status quo sociale caratterizzato dalla presenza del Dominio, a consigliare agli uomini un certo grado di autodisciplina, perché la Civiltà esige un prezzo da pagare in termini di repressione degli istinti. Per dirla con Marx, la Civiltà (borghese) «ha emancipato il corpo dalle catene, perché ha posto il cuore in catene» [2].
Uomini come Dostoevskij e Nietzsche non vollero invece firmare cambiali in bianco al cosiddetto Progresso della Civiltà, forse anche perché intuirono che gli istinti, più che depotenziati o repressi, vanno semplicemente umanizzati, come d’altra parte l’intera esistenza degli individui. Solo i teorici di una mitica «natura umana», per l’essenziale refrattaria alle trasformazioni sociali, possono far spallucce di fronte alla tragica scelta tra castrazione (o incivilimento) e umanizzazione (o liberazione) degli istinti. […]
A quanto ne so, è a Tertulliano che si deve la prima chiara teorizzazione dell’Impero Romano come potenza katéchontica: «Voi, che ritenete a noi nulla importi della salvezza dei cesari, […] a noi è fatto obbligo, al di là di ogni limite di generosità, di pregare Dio anche per i nostri nemici ed invocare il bene per i nostri persecutori […] Ma vi è un’altra ragione che ci spinge a pregare per gli imperatori, anzi per la prosperità di tutto l’impero e per la potenza romana, perché noi sappiamo che la terribile catastrofe sospesa sul mondo e la stessa fine della nostra era sarà ritardata fino al transito dell’Impero Romano. Perciò non vogliamo affatto compiere tale esperienza e, mentre preghiamo sia differita, contribuiamo alla continuità dell’Impero Romano» [3].
Qui il momento apocalittico-escatologico è puramente residuale, appare non più che uno strumento ideologico chiamato a supportare la vigenza e la continuità dell’Impero Romano, in un momento in cui l’ascesa del cristianesimo, sebbene ancora contrastata, non sembra aver più alcun nemico mortale che le sbarri la strada. Più che un discorso rivolto ai cristiani, l’Apologeticum è fin dall’incipit una sorta di richiesta di resa incondizionata presentata ai magistrati dell’Impero, sebbene sapientemente confezionata in guisa di « muta difesa». […]
La tentazione di leggere in chiave immediatamente politica, o politico-teologica, il concetto paolino di katéchon è stata sempre in agguato nei migliori salotti dell’intellighenzia borghese, e il più delle volte, per non dire sempre, questo concetto, peraltro di ardua interpretazione “autentica”, è stato declinato in termini schiettamente ultrareazionari. Lo stesso Carl Schmitt, che pure quel concetto pose al centro della sua riflessione teologico-politica (anche in una dimensione geopolitica), sentì il bisogno di ammonire i suoi colleghi intellettuali come segue: «Ci si deve guardare dal fare di questa parola [Katéchon] una designazione generica per tendenze puramente conservative o reazionarie» [4]. Bisogna prendere molto sul serio l’indicazione schmittiana, tanto più in considerazione dell’autorevole pulpito in questione. […]
Appena ho finito di leggere Il potere che frena di Massimo Cacciari mi è tornato alla mente un aforisma del giovane Marx: «I reazionari d’ogni tempo sono buoni barometri degli stati d’animo dell’epoca loro, così come lo sono i cani per le tempeste» [5]. Più che Il potere che frena, l’interessante saggio del filosofo veneziano “prestato alla politica”, come recita la nota formula, avrebbe meritato quest’altro titolo: Il potere – politico – che frana. […]
Il conservatore sa che senza Legge non vi possono essere né Civiltà né Progresso. Solo nella dimensione dell’ordine vi può essere cambiamento costruttivo, mentre nell’anomia la bruta materia sociale non riesce ad aggregarsi in forme stabili idonee a schiudere agli individui la porta del progresso. Freud ha scritto pagine assai illuminanti sul prezzo, molto salato, che gli individui hanno dovuto pagare per accedere nella dimensione storica dopo millenni di vita semianimale. Ora, non appena riempiamo di reali contenuti storici e sociali la Civiltà, il progresso e il cambiamento cui abbiamo fatto cenno, scopriamo che la conservazione della vita – anche nel suo continuo cambiamento –, quella del singolo individuo come della sua comunità, coincide, per il conservatore, con la conservazione del Dominio sociale, ossia dei rapporti sociali che informano la prassi sociale nelle comunità segnate dalla divisione classista. Rapporti sociali di dominio e di sfruttamento. […]
La brusca accelerazione nel processo di globalizzazione capitalistica verificatasi alla fine degli anni Ottanta ha messo definitivamente in crisi i teorici del primato del Politico sull’Economico. Per Cacciari «La stessa crisi del progetto europeo segna la fine dell’età prometeica […] Prometeo si è ritirato – o è stato di nuovo crocefisso alla sua roccia. E Epimeteo scorrazza per il nostro globo scoperchiando sempre nuovi vasi di pandora» [6]. Dopo essere sopravvissuto a ben due guerre mondiali e a un paio di catastrofi sociali di inaudita magnitudo, Prometeo non sarebbe riuscito a tenere testa alla globalizzazione: una lettura che non mi convince affatto, soprattutto perché evoca cesure epocali là dove insiste piuttosto il continuum del Dominio, il radicalizzarsi della natura del rapporto sociale capitalistico, l’attualizzarsi di tendenze su cui già Marx si era intrattenuto, non con potenza profetica, ma con grande acutezza critico-analitica.
Il concetto chiave chiamato a legittimare la politica di conservazione sociale dispiegata dal PCI, e poi dai suoi più o meno abortiti eredi politici, è appunto il katéchon. Anche il concetto legato alla figura di Epimeteo, «colui che impara solo dopo», contrapposto al più noto Prometeo, gioca un ruolo strategico nella concezione politico-teologica di molti intellettuali ex e post “comunisti”.
Adesso è arrivato il momento di chiamare in causa un pezzo grosso del katéchon.
Scrive Mario Tronti: «Toni Negri mantiene il paradigma escatologico, io invece assumo il paradigma katecontico. Penso che non possiamo più dire o credere che ci sia un’idea lineare della storia, quindi che comunque sia dobbiamo andare avanti nello sviluppo poiché comporterà contraddizioni nuove. Credo che bisogna trattenere, non lasciar scorrere il fiume della storia. Bisogna rallentare l’accelerazione della modernità. Perché questo tempo più lento permette di ricomporre le nostre forze» [7]. Sorvolo sul «paradigma escatologico» di Toni Negri, la cui “teologia politica” può apparire apocalittica giusto agli occhi di un ultraconservatore organico alla storia del PCI.
Qui appare evidente il carattere reazionario del pensiero trontiano, il quale non mette radicalmente in discussione il Capitalismo, ma si preoccupa piuttosto di contenerlo, di trattenerlo, di imbrigliarlo in qualche modo, per rallentarne le peraltro necessarie accelerazioni. Il paradigma proposto da Tronti più che «katecontico» appare decisamente chimerico, perché fondato sull’idea che la politica possa sussumere sotto di sé il concetto e la prassi del Capitale. Un’ideologia, questa, smentita ovunque e sempre di nuovo, anche da quelle esperienze (fascismo, nazismo, stalinismo, keynesismo) che solo il pensiero superficiale – e statalista – può portare come esempi che attestano il trionfo del Politico sull’Economico, mentre esse realizzarono piuttosto l’esatto contrario all’interno di contesti storico-sociali eccezionali.
D’altra parte, se riflettiamo sulla natura politico-sociale delle forze che Tronti intende «ricomporre» ci rendiamo conto a quale sostanza escrementizia alluda l’ex teorico del cosiddetto operaismo italiano.
«Eschaton e catechon infatti vanno assieme. Nel linguaggio cristiano: devi trattenere il male e proporre il bene. Nel linguaggio politico: devi governare questa società e superarne la forma attuale. Le due prospettive non sono affatto in alternativa come nella vulgata di oggi, per cui o sei contro il capitalismo e non devi governarlo o lo governi e non vuoi più superarlo» [8]. Pieno di speranza il mondo ancora attende dagli intellettuali un tempo organici al PCI un esempio concreto di governo basato su questa feconda dialettica tra eschaton e katéchon. Aspetta e spera! In realtà, e al di là delle battute ironiche, ci troviamo dinanzi a una pietosa giustificazione elaborata da un intellettuale che ha ancora in testa un vecchio dibattito ideologico intorno alla «prassi rivoluzionaria» che già allora non riusciva a coprire la prassi di una soggettività politica interamente assorbita nella gestione dello status quo borghese.
Fino a quale punto sia reazionario il pensiero «katechontico» del nostro amico, lo dimostra al di là d’ogni ragionevole dubbio il discorso [9] che egli ha tenuto al Senato della Repubblica lo scorso 9 maggio per ricordare Antonio Maccanico, scomparso due giorni prima. Vale la pena riprendere i passaggi salienti del lungo discorso commemorativo non per soddisfare un insaziabile spirito polemico, ma per sviscerare concetti che mi sembrano importanti.
«Maccanico era certo un membro della élite. Ma, ecco, le élite sono necessarie, come sono necessarie le masse. E il rapporto tra élite e masse va ricostruito per i tempi nuovi, non va azzerato. Questo è il senso e, nello stesso tempo, il compito della riforma che bisogna attuare. Come si seleziona il ceto politico? Non la sua soppressione, ma la sua selezione è il problema. Come si formano i gruppi dirigenti, le classi dirigenti? C’è bisogno di direzione dei processi altrettanto di come c’è bisogno di partecipazione ai processi di decisione. L’alto e il basso devono ricongiungersi, non devono contrapporsi. C’è da praticare un percorso di ricostruzione difficile, faticoso, ma necessario, una trama mediatrice tra noi che siamo qui e tutto quanto confusamente preme e spinge fuori da qui». Tronti avverte la crisi della politica (borghese) in generale e della sua forma democratico-parlamentare in particolare, e da buon conservatore ne ha paura, perché sa che quando la classe dirigente perde il controllo politico-ideologico delle «masse» la società si apre ad esiti imprevedibili. Il rivoluzionario all’opposto, pur sapendo benissimo che l’incremento della sofferenza e del caos non spalanca automaticamente la porta alla lotta di classe rivoluzionaria, come la storia del XX secolo insegna anche ai teorici della «spontaneità di classe», sa altrettanto bene che solo la catastrofe materiale e spirituale di una società può realizzare le condizioni oggettive della Rivoluzione sociale.
Pur ridicolizzando i teorici del «tanto peggio, tanto meglio», il rivoluzionario non frena il processo sociale, non lo trattiene, non pratica insomma il katéchon, qualsiasi significato si voglia attribuire a questa magica parola, ma piuttosto prepara le condizioni soggettive affinché la catastrofe sociale possa trasformarsi in un fecondo processo rivoluzionario teso a innescare il conto alla rovescia nell’esistenza del Dominio, qualsiasi forma esso assuma – compreso quello che, di fatto, realizzerà la stessa Rivoluzione nella sua azione anticapitalistica. […]
L’apocalittico non fa che ripetere: «Il mondo crolla sotto il peso dell’Iniquità, ma il Regno di Dio è vicino», e invita i fedeli a prepararsi spiritualmente all’inevitabile quanto prossima fine dei tempi; il rivoluzionario sostiene invece che il Regno dell’Uomo è, a un tempo, vicinissimo e lontanissimo, sempre più possibile e tuttavia sempre meno probabile. Il suo pensiero scommette sulla possibilità contro la probabilità, la quale oggi depone a favore della continuità del Dominio, come deve riconoscere chiunque non ragioni «a testa in giù». Già la stessa semplice esistenza del rivoluzionario è a suo modo una forzatura, un’anomalia, uno scandalo, un’impossibile scommessa.
L’apocalittico dice: «Il crollo del Capitalismo è inevitabile e prossimo»; il rivoluzionario sostiene invece che se il crollo economico-sociale non si trasforma in rivoluzione sociale la stessa catastrofe diventa per il Capitalismo una grande opportunità per una sua ulteriore espansione. La quasi morte si capovolge in una nuova fanciullezza. Il rantolo si trasforma in un grido di Potenza. Qui parla non solo la teoria (del valore), ma soprattutto la prassi storica: vedi le due guerre mondiali del XX secolo.
Dalla Seconda parte
IL KATÉCHON SECONDO ISAIA
«Ora, fratelli, circa la venuta del Signore nostro Gesù Cristo e il nostro incontro con lui, vi preghiamo di non lasciarvi così presto sconvolgere la mente, né turbare sia da pretese ispirazioni, sia da discorsi, sia da qualche lettera data come nostra, come se il giorno del Signore fosse già presente. Nessuno vi inganni in alcun modo; poiché quel giorno non verrà se prima non sia venuta l’apostasia e non stato manifestato l’uomo del peccato, il figlio della perdizione, l’avversario, colui che s’innalza sopra tutto ciò che è chiamato Dio od oggetto di culto; fino al punto da porsi a sedere nel tempio di Dio, mostrando se stesso e proclamandosi Dio. Non vi ricordate che quand’ero ancora con voi vi dicevo queste cose? Ora voi sapete che ciò che lo trattiene [to katéchōn] affinché sia manifestato a suo tempo. Infatti il mistero dell’empietà è già in atto, soltanto c’è chi lo trattiene [ho katéchōn], affinché sia tolto di mezzo» Così Paolo di Tarso nella Seconda lettera ai tessalonicesi (2, 1-7).
Il testo paolino «com’è noto non solo è considerato di dubbia veridicità ma risulta alquanto enigmatico» [10]. Sul carattere enigmatico di quel testo concorda anche Giorgio Agamben [11].
Secondo F. Lamendola «non tutti i filologi neotestamentari sono concordi nell’attribuzione paolina di quel testo» [12]. Per quanto mi riguarda, la sua autenticità per così dire fattuale non costituisce un dato essenziale, dirimente, perché ciò su cui intendo riflettere è piuttosto sull’indubbia potenza teologico-politica dei passi in questione, una potenza concettuale che non a caso è stata a più riprese usata per fondare sistemi politico-teologici di cui ancora si discute.
Giustamente Agamben sostiene che «il passo paolino, malgrado la sua oscurità, non contiene alcuna valutazione positiva del katéchōn. Esso è, anzi, ciò che deve essere tolto di mezzo perché il “mistero dell’anomía” sia pienamente rivelato» [13]. Anch’io penso che la Seconda Lettera ai Tessalonicesi «non può servire a fondare una “dottrina cristiana” del potere», e chi lo ha fatto ha certamente contraddetto le intenzioni e lo spirito che animano quella Lettera, usandola strumentalmente, non importa se in buona o cattiva fede, per conseguire obiettivi estranei alla teoria e alla prassi, se così posso esprimermi, di Paolo.
La mia tesi – provvisoria – è che il katéchon paolino cerca, a un tempo, di legittimare sul piano teologico l’accettazione dell’epoca profana, che si sostanzia nella presa d’atto dell’esistenza dell’Impero romano e/o di altre autorità costituite; e di dare un senso all’attesa dell’immancabile salvezza, nutrendo la speranza con il cibo della fede, non con quello, velenoso già nei tempi brevi, della disperazione o della vana esaltazione. La fine dei tempi va attesa e preparata spiritualmente, non va fatta precipitare con meri atti di volontà: niente (e nessuno) può forzare la maturazione dei tempi, la quale non è nella nostra disponibilità, almeno per l’essenziale. Chi è tanto folle da forzare i tempi della parousía va incontro alla propria morte reale o spirituale.
Si tratta di due registri diversi, l’uno razionale l’altro mistico, mobilitati sul fronte di una sola causa: l’inevitabile ricomparsa di Gesù. Si tratta di una Scienza dell’Attesa. […]
Il tempo dell’attesa escatologica non è un tempo cronologico, quantitativo; esso ha piuttosto una dimensione eminentemente esistenziale, qualitativa, e per questo il dato psicologico vi gioca una funzione centrale. Faccio riferimento a una psicologia interamente radicata sul terreno della prassi storico-sociale, ossia profondamente e intimamente connessa con la vita comunitaria colta nella sua concreta storicità (incluso il momento geopolitico), e quindi a una psicologia carica delle aspettative e delle tensioni sociali ed emotive dell’epoca di riferimento. Ogni astratto e superficiale psicologismo qui è bandito. […]
L’evento morte-resurrezione, che sancisce l’inizio della fine (il countdown messianico) attraverso la fine di una vita reale (quella di Gesù), ripristina in qualche modo la fede nei suoi seguaci, ma il bisogno di credere nell’imminenza della Salvezza, della Salvezza hic et nunc, rimane in loro invincibile, e Paolo deve farvi i conti.
O il Messia deve ancora venire, e allora hanno ragione coloro che hanno visto in Gesù nient’altro che un impostore, uno dei tanti falsi messia che da tempo immemore calcano le scene dell’ebraismo; oppure Gesù è davvero il Messia, e allora la sua perdurante assenza dalla scena della Salvezza, la sua “vacanza” messianica, appare difficile da comprendere e, soprattutto, da accettare sul piano emotivo. «Se Egli è risorto dal mondo dei morti per salvarci, perché tarda ad apparirci per condurci finalmente fuori dalla dolorosa dimensione del Male? Che senso ha procrastinare all’infinito la fine dei tempi, così che la seconda venuta del Messia morto sulla croce sembra coincidere con i tempi prospettati dal messianismo ebraico? Non avrebbe più senso, allora, ritornare alla vecchia concezione, la quale mostra almeno una maggiore coerenza teologica?»
Inutile dire che non intendo attribuire ai primi cristiani questa riflessione teologica, la quale è piuttosto strumentale al mio argomentare. […]
Il dubbio si diffonde, come si evince anche dalla Seconda lettera di Pietro, scritta dall’apostolo a destinatari non meglio precisati poco prima di morire: «Sappiate questo, prima di tutto: che negli ultimi giorni verranno schernitori beffardi, i quali si comporteranno secondo i propri desideri peccaminosi e diranno: “Dov’è la promessa della sua venuta? Perché dal giorno in cui i padri si sono addormentati, tutte le cose continuano come dal principio della creazione ” […] Ma voi, carissimi, non dimenticate quest’unica cosa: per il Signore un giorno è come mille anni, e mille anni sono come un giorno. Il Signore non tarda l’adempimento della sua promessa, come pretendono alcuni; ma è paziente verso di voi, non volendo che qualcuno perisca, ma che tutti giungano al ravvedimento» (3, 3-8-9). L’allusione ai «mille anni» rinvia ai Salmi: «Perché mille anni sono ai tuoi occhi come il giorno di ieri che è passato, come un turno di guardia di notte». Il tempo della vita umana è, a paragone del Tempo infinito del Signore, simile all’erba che la mattina «fiorisce e verdeggia» e che già alla sera «è falciata e inaridisce» (90-6). È il massimo che Pietro riesce a dire, rinviando peraltro gli interlocutori al «caro fratello Paolo» per spiegazioni più convincenti e profonde. Non senza ammonire chi ne travisa il pensiero. Infatti, «in tutte le sue [di Paolo] lettere ci sono alcune cose difficili a capirsi, che gli uomini ignoranti e instabili travisano a loro perdizione».
Pietro è costretto all’ambiguità: per un verso conferma l’imminenza della fine dei tempi, e difatti parla di «ultimi giorni», i quali si annunciano proprio con la venuta degli «schernitori beffardi» che irridono l’Attesa; anche l’allusione alla pazienza del Signore non contraddice questa prospettiva apocalittica: si può ben comprendere che Egli si ponga l’obiettivo (stavo per aggiungere: umanissimo…) di salvare quanti più uomini sarà possibile sottrarre all’influenza del Demonio. Per altro verso l’apostolo ricorda ai fedeli che il Signore ha al polso, per così dire, un orologio affatto diverso dal loro: questo orologio non conta secondi, minuti e ore, ma secoli, millenni, intere ere geologiche. È il punto debole del discorso pietrino, perché chi crede nella parousía di Gesù pensa di avere sincronizzato il proprio orologio con quello del Messia già venuto. Pietro ha un piede nella vecchia tradizione apocalittica e l’altro nella nuova: è una posizione difficile, assai precaria, la sua. […]
Paolo cerca dunque di dare una risposta alle scottanti domande dei fedeli, le quali lo costringono a trovare un senso al tempo dell’attesa, innanzitutto per rafforzare la sua stessa fede, e quindi il suo atteggiamento non è strumentale, ossia orientato solo a captare e conservare il consenso. L’apostolo cerca di convincere gli astanti, ne ricerca l’approvazione, certo, ma nelle sue lettere apostoliche è possibile osservare una teologia in formazione, originale in punti cruciali rispetto alla tradizione ebraica. Si tratta a tutti gli effetti di un’autochiarificazione, di una teologia di fatto e in progresso. Rispondendo ai problemi inediti posti dalla comunità dei fedeli egli sonda e saggia in primo luogo la profondità del proprio pensiero, la sua consistenza. Egli capisce i limiti di una fede fondata esclusivamente sull’intuizione e sul sentimento.
Intanto, giacché la parousía si dà in un tempo non prevedibile (giorni, mesi, anni), nelle more della Salvezza occorre pur vivere, magari solo obtorto collo; bisogna cioè lavorare, pagare le tasse, rispettare l’autorità costituita, sposarsi, avere dei figli e curarli, andare alla ricerca di qualche umana e fugace felicità e via di seguito. L’esistenza in vita degli individui ha delle leggi che gli si impongono con assoluta necessità e, come diceva Schopenhauer, solo la morte li mette al riparo dalla volontà di potenza della vita, la quale vuole con tutte le forze e sopra ogni cosa… vivere, perpetuarsi il più a lungo possibile, mettere solide radici in questo mondo.
Si tratta insomma di firmare un compromesso con la realtà, in attesa della maturazione dei tempi. Ma, si badi bene, difficilmente in questo caso si può parlare di una Realpolitik politico-teologica, perché il punto escatologico non viene negato, e anzi lo stesso compromesso è chiamato a conservare la possibilità (vissuta come certezza) dell’Evento salvifico. Chi vede nell’apostolo di Tarso il filosofo della rassegnazione allo status quo probabilmente proietta sulla sua opera apostolica la millenaria prassi della Chiesa Romana, come se tra le due cose vi fosse un’omogeneità essenziale. […]
Paolo cerca di dare una dignità teologica alla propria malferma posizione, e lo fa introducendo un concetto che costituirà uno dei pilastri fondamentali della tarda riflessione teologica cristiana.
Nella misura in cui nulla può essere estraneo a Dio, è evidente che anche l’Impero Romano e ogni altra autorità costituita devono con assoluta necessità avere una funzione nel Piano provvidenziale del Signore. Per dirla con Einstein, Dio non ama giocare a dadi: ciò che ci appare come fatalità e mero accidente, non è che un tassello del puzzle da sempre presente nell’Intelligenza divina. Quale sia esattamente quella funzione nessuno può dirlo con certezza, e d’altra parte negarne la realtà significa ammettere la possibilità della casualità e persino dell’errore in colui che per definizione non può ammettere alcuna casualità né errori.
Nella Lettera ai romani Paolo scrive: «Ogni persona stia sottomessa alle autorità superiori; perché non vi è autorità se non da Dio, e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Perciò chi resiste all’autorità si oppone all’ordine di Dio» (13, 1-2). Come sempre nei testi paolini l’interpretazione non può essere univoca, e la loro ambiguità corrisponde a un preciso dato di realtà, proprio perché Paolo deve fronteggiare diverse sfide, deve suonare allo stesso tempo più corde, per rendere la sua musica gradevole alle più diverse sensibilità.
Il tempo sta arrivando: che importanza ha quindi chi oggi detiene il potere secolare? Non cambiate nulla della vostra vita: rimanete dove siete, a ciò che siete e a ciò che fate per sopravvivere in questa valle di lacrime. Non vale la pena sprecare tempo ed energie adesso (un’allusione temporale sempre vaga) che il Tempo viene, bruciando il tempo effimero della contingenza. Il tempo dell’attesa messianica relativizza tutto. Anche questa lettura ha una sua pregnanza teologica, mi pare. […]
Certo, Paolo avrebbe potuto dire ai confratelli che le autorità costituite, lungi dall’essere funzionali al misterioso Piano divino (ciò che è reale è divino, per mutuare Hegel), rappresentano piuttosto la fenomenologia del Demonio. A quel punto però il rapporto con la realtà non avrebbe ammesso alcun compromesso, e la comunità cristiana avrebbe dovuto dichiarare una guerra permanente a ogni forma di autorità e di routine. Come sostenuto sopra, è proprio questo esito immaturamente apocalittico che l’apostolo cerca di scongiurare. Egli, infatti, sa benissimo che questo atteggiamento negativo alla lunga sarebbe stato esiziale per la giovane Chiesa. La spada secolare avrebbe annientato rapidamente lo stesso ricordo del sacrificio di Gesù. Paolo è costretto a trattenere, a frenare il partito del tutto e subito. Qui è lo stesso apostolo che si fa carico di una prassi katechontica, frenando l’apocalittica con una gnosi che non contraddice il messianesimo di nuovo conio. […]
«La predicazione di Gesù è sovversiva, perché richiede da parte del popolo, e non solo dei singoli individui, un atto decisivo per il Regno» [14]. Gesù non prospetta riforme sociali idonee a migliorare la vita in questa valle di lacrime, ma rivela un segreto che all’istante rivoluziona l’intera esistenza di chi lo crede vero. Il segreto è l’imminente fine dei giorni in questo mondo segnato dal peccato originario, è la salvezza per chi dice sì al Regno. Si tratta naturalmente del Regno millenario di cui parla l’Apocalisse di Giovanni.
Come ricorda sempre Taubes, «Il concilio di Efesto del 431 definisce il millenarismo una “deviazione falsificante”. In quell’occasione venne modificata anche la preghiera per il regno di Dio nel Padre nostro: “Venga il tuo regno” fu sostituito con “Venga il tuo spirito” […] In tal modo anche la visione che si muove all’interno del nesso tra la predicazione di Gesù, la teologia di Paolo e l’apocalittica va perduta, e insieme ad essa la chiave per comprendere il cristianesimo delle origini» [15]. Questo a ulteriore dimostrazione di quale abisso separi la Chiesa di Roma da Gesù e dalle stesse prime comunità che si raccolsero intorno al suo nome denso di significati assai dirompenti. Fuori della prospettiva messianica e chiliastica la parola di Gesù e dei suoi primi seguaci risulta muta. Peggio: falsa.
L’atto decisivo che Gesù chiede alle moltitudini che seguono la sua predicazione nutrendo aspettative via via più grandi è «la secessio plebis, l’esodo del popolo nel deserto […] Il deserto è la via per sottrarsi al dominio di questo mondo». Il deserto reale e ideale rappresenta per il popolo ebraico un appuntamento fisso, un nodo ineludibile nella sua vicenda storica. Ma ciò che Gesù chiede al suo popolo implica una decisione che esso non si sente di prendere: «L’invito di Gesù alla conversione fallisce […] I ricchi e i benestanti non vogliono rinunciare a tutto, né i poveri e i miserabili vogliono lasciare il poco che hanno, “perché è meglio per noi servire l’Egitto che morire nel deserto”» [16]. Come disse Aaronne a Mosè, disceso in fretta con le tavole della Legge dal monte Sinai, «questo popolo è incline al male». È il popolo che alla prima occasione volge le spalle all’unico Dio e corre ad adorare vitelli d’oro. Forse è anche questo retaggio appreso fin da bambino che spinse Gesù ad affrettare i tempi della secessio plebis, cortocircuitando il tempo presente con il tempo messianico attraverso il proprio sacrificio sul Golgota.
[1] S. Kierkegaard, Timore e tremore, p. 45, La biblioteca Ideale T., 1995.
[2] K. Marx, La filosofia del diritto di Hegel, in La questione ebraica, p. 103, Newton, 1975.
[3] Tertulliano, Apologia del cristianesimo, p.165, Rizzoli CDS, 2009.
[4] C. Schmitt, Tre possibilità di una immagine cristiana della storia, in R. Cavallo, Apocalisse e rivoluzione. Jacob Taubes interprete di Carl Schmitt, AA.VV., Apocalisse e post-umano, il crepuscolo della modernità, p. 163, Dedalo, 2007.
[5] K. Marx, Il problema dell’accentramento, in Scritti giovanili, p. 131, Editori Riuniti, 1975.[6] M. Cacciari, Il potere che frena, p. 120-126, Adelphi, 2013.
[7] M. Tronti, Noi operaisti, p. 111, DeriveApprodi, 2009.
[8] M. Tronti, Quel circolo di sacro e secolare, Centro per la riforma dello Stato, 11 maggio 2006.
[9] Accessibile dal sito del Senato.
[10] R. Cavallo, Apocalisse e rivoluzione. Jacob Taubes interprete di Carl Schmitt, in AA.VV., Apocalisse e post-umano, il crepuscolo della modernità, Dedalo, 2007.
[11] G. Agamben, Il tempo che resta, p. 102, Bollati Boringhieri, 2000.
[12] F. Lamendola, L’anticristo ebreo e il misterioso “katéchon”, elementi chiave dell’apocalittica cristiana, Arianna, 3 febbraio 2009.
[13] Ivi, p. 104.
[14] J. Taubes, Messianismo e cultura, p 82, garzanti 2011.
[15] J. Taubes, Escatologia occidentale, pp. 106-107, Garzanti, 1997.
[16] Ivi.
Ottimo! Ora mi spolpo il pdf. Spero di poter contribuire con le mie ultime “pippe mentali” (secondo una recente definizione).
Grazie!! Parli con un pippista di prim’ordine, per cui… A proposito: se il PDF risulta al disotto delle tue aspettative, non sentirti obbligato a farmelo sapere: l’ottimo di oggi mi basta! Di nuovo grazie. Ciao!
Diciamo che fa il suo lavoro.
S. Paolo letto dialetticamente mi è piaciuto molto, la consapevolezza dello stretto sentiero che obbligatoriamente doveva indicare tra “il mio regno non è di questo mondo” (nel senso della discontinuità con questo mondo) e “il regno dei cieli è dentro di voi” (nel senso che è già qui, latente).
obbietterei invece che il concetto di natura umana non è trattato dialettamente: esso non è necessariamente astorico (anche se è stato volgarizzato in purezza e fissità ontologica: l’umanità): mi pare invece debba costituire la premessa logica (e auspichiamo anche storica, prima o poi) di ogni nostro discorso sull’ umanizzazione
mi sa che sto diventando un isaista
Grazie, anche per la critica. In effetti la punta critica è rivolta proprio conto la volgarizzazione di cui parli. D’altra parte natura e storia sono intimamente intrecciate. Di qui l’esigenza, da te individuata, di cogliere la dialettica interna a questa compenetrazione “ontologica”. Adesso scappo! Ciao!!
da pag 31 in poi gli aforismi sono concentrati sulla spiegazione dell’ antropologia isaista e dici cose che condivido e che avevo elaborato in maniera simile.
dobbiamo combattere sia lo storicismo (la storia che si fonda esclusivamente nella storia, reiterando la sua estraneità al punto di vista umano) e sia il millenarismo (la storia a cui è sottratta la storia, reiterando la sua estraneità al punto di vista umano)
se la storia è la storia del dominio, l’ emancipazione e la coscienza di classe (attualmente in assenza della stessa) oggi hanno più possibilità rispetto al passato di essere recepite al di fuori della logica progressista
o forse la superbia della gnosi ci porta qui: “giudicasti l’uomo in modo troppo alto: creato ribelle, si sa, non è che uno schiavo” ?
Per adesso dico solo che non riesco a essere ottimista circa la fuoriuscita dal Tempo del Dominio. Su questo punto non ce la faccio a mentire a me stesso e agli altri esibendo e vendendo certezze che non ho. A rischio di passare per il solito «piccolo-borghese che non ha fiducia nel proletariato». L’”ottimismo della rivoluzione” non ha mai prodotto niente di buono, a quanto ne so. La verità, oltre che rivoluzionaria, sa essere dolorosa, e va presa molto sul serio. Come ho – forse – detto un’altra volta: bisogna bere fino all’ultima goccia dall’amaro calice della verità. Amen? No: ciao!
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