PAPA FRANCESCO TRA KATÉCHON E REALISMUS

mathematicians-pythagoras-001Delle risposte Che Papa Francesco ha voluto dare alle domande postegli dell’illuminista che non cerca Dio (secondo la sua stessa definizione) Eugenio Scalfari, mi ha colpito soprattutto quella concernente il carattere più o meno assoluto della verità. Vediamo intanto come il Santo Padre del giornalismo italiano ha impostato la domanda: «Il credente crede nella verità rivelata, il non credente pensa che non esista alcun assoluto e quindi neppure una verità assoluta, ma una serie di verità relative e soggettive. Questo modo di pensare per la Chiesa è un errore o un peccato?» (La Repubblica, 7 agosto 2013).

Per sondare lo spessore intellettuale dell’illuminismo scalfariano, e così avere un’idea un po’ più precisa circa il suo fondamento concettuale (“filosofico”), è sufficiente leggere quanto segue: «Penso che Dio sia un’invenzione consolatoria e affascinate della mente degli uomini». La religione come Grande Illusione e come oppio dei popoli: una tesi che non può non suonare triviale, oltre che banale, al metaforico orecchio di chi cerca di studiare criticamente e con sguardo penetrante la storia della millenaria prassi sociale umana.

Ma qui non è il caso di riprendere la distinzione che corre tra il punto di vista dell’ateismo borghese di matrice illuminista, che riduce appunto la religione a un difetto di Ragione, e quello critico-radicale, maturato – almeno per quanto mi riguarda – alla luce del potente pensiero marxiano: l’azione rischiarante dell’ateismo illuminista alla fine non fa che «strappare dalla catena i fiori immaginari», ottenendo con ciò che «l’uomo porti la catena spoglia e sconfortante», mentre si tratta di gettare via la catena e «di cogliere i fiori vivi» (Marx). Su questo punto rimando a diversi scritti pubblicati su questo blog (vedi anche L’Angelo nero sfida il Dominio).

Ma veniamo alla “spiazzante” (vedremo per chi) risposta di Francesco: «Per cominciare, io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità “assoluta”, nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione!» La «verità è una relazione», con tanto di punto esclamativo che ne rafforza il concetto. L’assoluto privo di relazione è un assoluto vuoto, privo di concrete determinazioni, e perciò inidoneo a fondare verità di qualche genere. La verità esiste solo nella correlazione tra Dio e uomini mediata da Gesù.   «Tant’è vero», continua il “correlazionista” Francesco, «che anche ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita».

Qui, a mio modesto avviso, insiste – magari solo “oggettivamente” – la Fenomenologia dello Spirito di Hegel, ossia la scoperta dell’Assoluto che si dà solo percorrendo «una via lunga e difficile» fatta di eventi storici e sociali.

«Dell’assoluto, infatti, bisogna dire che è essenzialmente un risultato, che solo alla fine è ciò che è in verità» (Fenomenologia). Hegel era del tutto cosciente che l’Assoluto concepito essenzialmente come risultato «possa sembrare contraddittorio», e per sciogliere l’apparente contraddizione introdusse il fondamentale, quanto scabroso e a suo modo luciferino, concetto di mediazione, nei confronti del quale «c’è però una specie di timor panico, come se accettare l’affermazione per cui la mediazione sarebbe qualcosa di assoluto e avrebbe luogo nell’Assoluto, significasse dover rinunciare alla conoscenza assoluta».

A differenza di Hegel, e sulle orme del gigante di Treviri, io “declino” la mediazione in termini squisitamente storico-sociali: «L’uomo è (storicamente, socialmente e antropologicamente) tale nella misura in cui oppone resistenza, materiale e spirituale, alle cose, e non le subisce semplicemente e passivamente. L’uomo pone il mondo come una mediazione tra sé e l’ambiente circostante, e lo fa naturalmente, per così dire, prima che la cosa diventi oggetto della sua riflessione. Mediare significa comprendere, trasformare, padroneggiare, senza soluzione di continuità reale e concettuale. Medio, dunque esisto! L’uomo è la specie che pone la mediazione. Probabilmente è in questo porre la distanza tra sé e la natura, che ha reso possibile l’anomalia chiamata uomo, che va cercata la genesi del Male e la possibilità del suo definitivo annientamento» (da Bisogno ontologico e punto di vista umano).

Molto interessante appare anche la risposta francescana alla terza e ultima domanda di Scalfari, quella che mobilita il pezzo forte del correlazionismo soggettivista: la realtà del mondo dopo la scomparsa dell’uomo.

«Nell’ultima domanda mi chiede se, con la scomparsa dell’uomo sulla terra, scomparirà anche il pensiero capace di pensare Dio. Certo, la grandezza dell’uomo sta nel poter pensare Dio. Ma il rapporto è tra due realtà. Dio non è un’idea, sia pure altissima, frutto del pensiero dell’uomo. Dio è realtà con la “R” maiuscola. Dio non dipende, dunque, dal nostro pensiero». Fin qui siamo a un minimo sindacale di oggettivismo teologico, se così posso esprimermi. La realtà di Dio si colloca fuori del soggetto. Ma non ne prescinde, perché «il rapporto è tra due realtà». «Del resto, anche quando venisse a finire la vita dell’uomo sulla terra – e per la fede cristiana, in ogni caso, questo mondo così come lo conosciamo è destinato a venir meno –, l’uomo non terminerà di esistere e, in un modo che non sappiamo, anche l’universo creato con lui. La Scrittura parla di “cieli nuovi e terra nuova” e afferma che, alla fine, nel dove e nel quando che è al di là di noi, ma verso il quale, nella fede, tendiamo con desiderio e attesa, Dio sarà “tutto in tutti”».

Non è il caso adesso di cogliere le eventuali contraddizioni teologiche e filosofiche (a mio avviso una distinzione puramente formale) rintracciabili nella riflessione di Francesco (o dell’«agostiniano Ratzinger»?); ciò che qui conta rilevare è che egli non riesce, fino all’ultimo, a separare il destino di Dio da quello dell’uomo. Ed è precisamente in questo sforzo di suprema Riconciliazione che il pensiero religioso mostra sempre un volto assai più umano di quello esibito dal pensiero scientifico.

Quando prima definivo “spiazzante” la risposta francescana alludevo soprattutto a Giuliano Ferrara, l’ateo più devoto (forse dopo Scalfari) esistente in natura. Nel suo editoriale dell’11 settembre intitolato, assai significativamente, Relativismus il direttore del Foglio ha voluto piegare strumentalmente la riflessione di Bergoglio in modo da ricondurla alla misura della secolare, e non sempre eticamente e teologicamente specchiata, prassi missionaria dei gesuiti. «I gesuiti sanno come fare missione. Hanno elaborato la missionologia portandola a vette iperteologiche. La loro pretesa relativistica è stata oggetto di calunnie, di sberleffi pascaliani, di inquisizioni d’ogni genere, sono stati combattuti e banditi dai governi e dalla stessa chiesa per questa loro capacità politica di inculturare la fede cristiana in forme le più sottili, le più arrischiate». Le più arrischiate, appunto.

Mentre il Relativismus gesuitico di Francesco tormenta Ferrara (e lo tormenterebbe di più se leggesse la mia interpretazione “hegeliana” della lettera papale), il quale confida nella capacità di obbedienza degli «eroici reverendi padri», ciò che inquieta «il pregiatissimo Dottor Scalfari» è piuttosto l’illusione francescana di Francesco, sebbene egli dica di apprezzarla alquanto. Almeno è questa una delle possibili letture che, a mio giudizio, si possono fare dai passi che seguono:

Giotto__Predella_3«Credo che il Papa, che predica la Chiesa povera, sia un miracolo che fa bene al mondo. Ma credo anche che non ci sarà un Francesco II. Una Chiesa povera, che bandisca il potere e smantelli gli strumenti di potere, diventerebbe irrilevante. È accaduto con Lutero ed oggi le sette luterane sono migliaia e continuano a moltiplicarsi. Non hanno impedito la laicizzazione anzi ne hanno favorito l’espansione. La Chiesa cattolica, piena di difetti e di peccati, ha resistito ed è anzi forte perché non ha rinunciato al potere. Ai non credenti come me Francesco piace molto, anzi moltissimo, come pure Francesco d’Assisi e Gesù di Nazareth. Ma non credo che Gesù sarebbe diventato Cristo senza un San Paolo. Lunga vita a Papa Francesco». E, mi pare di poter leggere in controluce tra le righe, soprattutto lunga vita alla potente “funzione katechontica” al servizio del Dominio praticata dalla Chiesa Romana.

A questo punto non posso che invitare il lettore alla lettura del mio Dominio e katéchon.

4 pensieri su “PAPA FRANCESCO TRA KATÉCHON E REALISMUS

  1. Ed è precisamente in questo sforzo di suprema Riconciliazione che il pensiero religioso mostra sempre un volto assai più umano di quello esibito dal pensiero scientifico.

    ci hai proprio preso

  2. non male quello che dice Fusaro a proposito della trinità, hegel e vico

    in effetti la processione ternaria hegeliana è improntata sull’ esempio dell’ uno e trino, i cattolici più accorti obbiettano che lo scandaloso ragno di stoccarda la usa per l’ analisi dell’ immanente, del differente, e non per esprimere la sintesi nel trascendente

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