Andrea Segrè è Professore Ordinario di Politica Agraria Internazionale e Comparata all’Università di Bologna. Ma è soprattutto un teorico e un militante (anche nell’accezione imprenditoriale del concetto) dell’«etica della responsabilità» e dell’«economia sostenibile» – «equa e solidale», a «filiera corta», a «Km zero», a «spreco zero», a «impatto ambientale zero» e, dulcis in fundo, a… pensiero (critico) zero.
Nella doppia veste di Professore e di esponente di primissimo piano della green economy italiana ed europea, Segrè ha scritto nel settembre di due anni fa una Lettera a uno studente sulla società della sufficienza, il cui titolo è tutto un programma: Basta il giusto (Altreconomia, 2011), e che il sottoscritto ha letto con colpevole ritardo solo ieri. Basta il giusto: una constatazione così ricca di buon senso da risultare quasi commovente. Quasi. Mio padre me lo diceva sempre, soprattutto durante i pasti comandati: «Basta il giusto!» Mia madre, ogni tanto, accompagnava la severa prescrizione “economica” con qualche bel ceffone, per rendere di più facile comprensione il concetto a un figlio già intrappolato nella rete consumista.
Si tratta di un modesto squarcio di vita domestica che sicuramente non dispiace al nostro Professore, il quale si dice favorevole a un ritorno al concetto aristotelico di economia come regole della casa. Tuttavia, la sua Lettera-Manifesto non è che un’apologia del Capitalismo dal volto (più) umano, una delle tante apologie capitalistiche camuffate da “umanitarismo economico” sfornate negli ambienti del progressismo, italico e internazionale, che sventola la bandiera dell’atro mondo possibile – salvo poi scoprire che, al netto delle fumisterie ideologiche ecologiste e benecomuniste, l’altro mondo somiglia maledettamente a questo mondo.
Intanto, come si “declina” «il giusto» secondo Segrè? «Giusto è colui che agisce secondo giustizia, con equità, con senso della misura, ma giusto è anche chi non eccede né in più né in meno». Ancora una volta ci troviamo dinanzi a un buon senso che quasi disarma. Quasi. Ma come si “declina” questo senso della giustizia e della misura nella dimensione sociale? È presto detto: «Occorre uscire dalla logica della crescita, affrancarci da quella linearità progressiva che ci pervade e che si scontra con la natura umana perché dettata dalle leggi artificiali della produzione», la quale è governata da uno sviluppo tecnologico che molto spesso non conosce, appunto, il «giusto limite» né l’etica della responsabilità. La risposta non mi soddisfa nemmeno un poco, probabilmente perché il mio modesto pensiero non è in grado contenerla.
Ora, apprezzo molto la critica del Professore alla «naturalizzazione dei mercati», i cui fenomeni vengono sempre più spesso associati ai fenomeni meteorologici imprevedibili e devastanti dai mass-media, dai politici che ci governano e dagli economisti mainstream che li ispirano. Il suo sforzo teso a convincere il suo immaginario studente che quelli che sconvolgono i mercati «non sono fenomeni naturali, bensì economici, sociali, politici, culturali» non può che incontrare la mia approvazione, per quel pochissimo che vale. Tuttavia, ancora una volta non mi è chiaro come, sotto quale costellazione concettuale Segrè “declina” la natura sociale dei fenomeni economici: non può certo cavarsela introducendo il banale concetto di «fenomeni artificiali», appunto per distinguere gli eventi economici da quelli naturali.
Ad esempio, ha senso parlare di «logica della crescita», di «linearità progressiva», di «cieco sviluppo tecnologico» e quant’altro senza chiamare in causa il concetto di Capitalismo? A mio modesto e non professorale parere non ne ha alcuno, di senso, se non quello di pestare aria fritta, magari ecologicamente sostenibile, ma sempre aria fritta. È vero, nella Lettera compare il termine capitalismo, una sola volta, mi pare, là dove si osserva con ottimistica leggerezza (o superficialità) che «il “capitalismo” [notare le virgolette] è ormai vittima di se stesso». Detto che se c’è una vittima questa è sicuramente da individuarsi nell’umanità, e non certo nel Capitalismo (senza virgolette e con tanto di c maiuscola, a sottolinearne la natura di Potenza sociale che ci tiene saldamente in pugno), ho l’impressione che Segrè per l’essenziale non sa di che parla quando chiama in causa il «”capitalismo”», che egli evidentemente vuole salvare da «se stesso» attraverso una sua radicale revisione («mercati e capitali devono cambiare, sostanzialmente») di stampo etico-ecologica.
«Urge trovare, mio caro, un nuovo rapporto fra capitale naturale ed economico, fra ecologia ed economia. È quest’ultima però che dovremo cambiare, cambiando noi stessi, il nostro stile di vita, i nostri consumi, il nostro modo di produrre». Lasciamo perdere il miserabile concetto di «capitale naturale» (vedi anche quello analogo di «capitale umano»*), che fa rientrare dalla finestra la «naturalizzazione» dei fenomeni economici fatta accomodare, a chiacchiere, dalla porta; e stendiamo pure un velo pietoso anche sul rancido mantra della “rivoluzione culturale” che dovrebbe partire dal singolo per poi investire la società nel suo complesso (campa cavallo!); concentriamoci piuttosto un momento sul «nostro modo di produrre», e chiediamoci: un modo di produzione non presuppone peculiari rapporti sociali? Per brevità do la mia risposta senza troppi giri di parole: non c’è dubbio. Ad esempio, la vigente economia mondiale, nera o verde che sia, a lunghissima o a cortissima filiera, a Km zero ovvero a Km 1000, ecc., è un modo storico di produzione che si basa sullo sfruttamento sempre più intenso e scientifico degli uomini e della natura in vista del massimo profitto. È la «logica» del Capitale, è la «linearità progressiva» del Dominio, è la tecno-scienza come formidabile strumento di sfruttamento e di controllo sociale. È, insomma, il Capitalismo, senza alcun’altra pletorica aggettivazione.
Ho l’impressione che il Professore abbia rimpiazzato la «naturalizzazione» dell’economia con il feticismo tecnologico che gli impedisce di comprendere come l’odierna tecno-scienza esprima precisi rapporti sociali di dominio e di sfruttamento che per essere distrutti devono conoscere la dinamite della rivoluzione sociale.
«L’indignazione», scrive sempre Segrè al suo studente, «non può diventare una moda: deve rappresentare il disgusto per le cose come sono e la forza per cambiare». Ma per non diventare vittima di una moda l’indignato deve comprendere «le cose come sono», e deve fecondare la propria forza con una coscienza che sappia cogliere alle radici le cause che ci impediscono di vivere umanamente in un tempo in cui questa stupenda possibilità ci sorride da tutte le parti. Inutile dire che il nostro Professore su questo terreno non dà alcun contributo, e sarebbe perfino ridicolo pretenderlo o semplicemente aspettarselo. Egli, infatti, non ama le utopie, almeno che non siano «utopie concrete», come sarebbe appunto la sua economia del giusto limite, invocata contro la «moderna presunzione dei mercati», nei confronti della quale, scrive sempre l’autore della Lettera, bisogna provare «disgusto: sì, esattamente come quello che si può provare di fronte a un odore nauseante».
È lo stesso disgusto che ho provato leggendo quanto segue: «Dobbiamo riuscire a condividere una nuova responsabilità sociale a livello di città, proprio nel senso di civitas: società civile, imprese, istituzioni. Un nuovo civismo, dunque, per il mondo che sarà», basato su «un’economia (più) umana». Il «nuovo civismo» (stavo per scrivere, non so perché, cinismo) e l’«economia (più) umana» di Segrè hanno davvero un «odore nauseante».
«Ma tu protesta, puoi farlo!», scrive il cattivo maestro al suo immaginario studente. Io invito quest’ultimo a iniziare la protesta mandando a quel paese il Professore e, soprattutto, le ideologie falsamente “rivoluzionarie” che sostengono l’esigenza e la possibilità di un Capitalismo “a misura d’uomo”, una mostruosa chimera che si nutre delle – residue e sempre più anoressiche – speranze di tante persone.
* «Il capitale è una specie di parola magica come qualsiasi altro di quei termini generali inventati dagli sfruttatori dell’umanità per nascondere il loro sfruttamento» (K. Marx, Teorie sul plusvalore, III).
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Chi si accontenta gode
Non fare il passo più lungo della gamba.
Se ciascun l’interno affanno lo tenesse in fronte scritto, quanti mai che invidia fanno non farebbero pietà.
Sono alcuni tra i vecchi aforismi insegnatimi da mio padre (era un uomo della seconda metà dell’800 che io ho perso quando avevo appena raggiunto gli undici anni) che mi pare contengano in luce il progetto politico del nostro autore, ed anticipino anche il ” paradosso di Easterlin”.
Certo tu hai ragione quando a livello macroeconomico li confuti dalla torre di osservazione del a noi caro ubriacone di Treviri,( che però ha pure preconizzato la fine del capitalismo). Perché allora incatenarsi a l’ “illibero arbitrio ” e non immaginare una possibile liberazione? Certo l’economia politica di Segrè è precettistica, ma possiamo liberarci senza precettarci?
Un cordiale saluto