Gianni Petrosillo intende ristabilire la verità storica intorno ai grandi meriti dell’Unione Sovietica di Stalin nella cosiddetta guerra di liberazione contro il nazifascismo, la quale per chi scrive fu in primo luogo e a tutti gli effetti un conflitto imperialistico del tutto simile, quanto alla natura storico-sociale delle sue cause reali alla Grande Guerra. Va da sé che per cogliere le radici storico-sociali dell’ultimo conflitto mondiale “tradizionale” occorre andare al di là del suo travestimento ideologico, curato nei minimi particolari soprattutto dalle due Super Potenze vittoriose. Dalla mia prospettiva storica, dunque, non avrebbe alcun senso ricusare al Capo della Russia imperialista chiamata Unione Sovietica i meriti che egli indubbiamente merita, e ancor meno avrebbe senso, sempre dal mio punto di vista, negare all’«aguzzino comunista» (sic!) quella statura di statista di rango mondiale che in Occidente la storiografia “borghese” è disposta a concedere a cuor leggero ai suoi compari di sterminio in guisa di aguzzini democratici. Come si è capito, io metto tutti i protagonisti della Seconda Macelleria Mondiale nello stesso capitalistico sacco: più obiettivo di così! Do perciò a Cesare quel che è di Cesare, e allo statista al servizio del Dominio sociale capitalistico quel che gli spetta di diritto.
Il certificato di Grande Statista per «Koba il Terribile», che tanto a cuore sta a Petrosillo, di certo non troverà in chi scrive un’opposizione di principio.
Vediamo adesso in che termini il nostro fervente estimatore del «georgiano Soso», vittima di un’odiosa «damnatio memoriae da parte dei membri del partito a lui più vicini, gli stessi che lo avevano seguito con incrollabile zelo fino alla fine, senza mai accorgersi di alcun crimine» (per non parlare dei tanti “comunisti” occidentali scopertisi “antistalinisti” solo a babbo morto, o quando il noto Muro gli precipitò in testa); vediamo, dicevo, come Petrosillo perora la causa del mitico (o famigerato, fate un po’ voi) Baffone: «Politici e filosofi liberali, a noi contemporanei, vengono presi dal panico appena lo sentono nominare. Che nessuno provi a riabilitare l’aguzzino comunista, il persecutore di dissidenti, il carnefice dei gulag, il despota della steppa, l’uomo che osò opporsi alla civiltà capitalistica e all’egemonia americana costruendo una grande potenza militare ed economica (che, pur tuttavia, non era la terra del socialismo benché così si facesse chiamare), oltre che all’avanzata del nazismo, mentre tutti in Europa cercavano ancora un compromesso con Hitler, o fuggivano a gambe levate, oppure si sottomettevano alla croce uncinata» (G. Petrosillo, Koba il Terribile, Conflitti e strategie, 8 novembre 2013). E il Patto Ribbentrop-Molotov del ’39 come si spiega in questo – apologetico – contesto? Com’è noto furono i compagni-camerati nazisti a tradire la fiducia di Stalin, il quale fino all’ultimo non volle credere alla possibilità di un’imminente invasione tedesca del sacro suolo russo.
Se Hitler non avesse rischiato il grande azzardo del dominio totale ed esclusivo sul Vecchio Continente, il «patto di non aggressione» del ’39 avrebbe dato i suoi frutti, con grande soddisfazione per la «Patria Socialista». Probabilmente a Ovest di Varsavia gli uomini avrebbero portato i baffetti alla Adolf, e a Est della capitale – o ex capitale – polacca i baffoni alla Joseph. Di là tutti “camerati”, dall’altra parte tutti “compagni”. Probabilmente. Ai tempi di Brest-Litovsk Lenin, per la disperazione dei suoi compagni, non si fece certo commuovere dai richiami patriottici, e perorò come un «dannato disfattista» la causa dell’uscita immediata dalla guerra imperialista, anche a costo di cedere milioni di metri quadrati di sacro suolo patrio alla Germania. Perdere spazio per conquistare tempo alla rivoluzione, in Russia e in Europa: fu la strategia di Lenin, il rivoluzionario. Affogare nel sangue dei contadini e dei proletari russi le armate tedesche per non perdere un solo millimetro di terreno della «Santa madre Russia»: fu la strategia di Stalin, il controrivoluzionario. (Naturalmente faccio riferimento alla figura di Stalin come espressione di una tendenza storica oggettiva, non certo in quanto espressione di una volontà attribuibile a una singola persona. Chi fosse interessato alla mia interpretazione dello stalinismo può compulsare Lo scoglio e il mare. Riflessioni sulla sconfitta della Rivoluzione d’Ottobre – 1917-1924).
E qui veniamo a un punto assai scabroso della faccenda: «I morti sovietici nella seconda guerra mondiale sono stati 23 milioni, quelli americani appena 400.000, eppure, non fanno altro che ripeterci, dalle scuole dell’obbligo, che dobbiamo ringraziare gli statunitensi per la nostra libertà. Ormai abbiamo perso la posizione eretta a forza di tutti questi inchini ingiustificati». Più che la posizione eretta degli italiani, cosa che non può certo solleticare l’orgoglio di un anti-sovranista “senza se e senza ma” com’è chi scrive, ho a cuore la posizione eretta della coscienza (di classe), e questo spiega perché il cinico conteggio dei caduti ricordato dall’apologeta del Dominio mi fa dire, con il Marx della Miseria della filosofia (e, mi permetto di aggiungere, della geopolitica apologetica): «Il cinismo è nelle cose e non nelle parole che esprimono le cose». I realisti geopolitici, soprattutto quelli che possono vantare un «radicale percorso di ripensamento del marxismo», sono particolarmente adatti ad esprimere il maligno (disumano) cinismo delle cose, e questo li rende almeno più credibili sul piano delle analisi dei movimenti geopolitici rispetto ai loro colleghi “idealisti”, quasi tutti appartenenti al progressismo internazionale.
Com’è noto, all’inizio dell’Operazione Barbarossa la superiorità militare della Wehrmacht sull’Armata Russa (altro che Rossa!) apparve subito schiacciante. Il keynesismo tedesco aveva prodotto la macchina bellica più potente al mondo, che sarà superata e annichilita solo in un secondo momento dalla creatura bellica generata dal keynesismo made in Usa. A quel punto, alla Russia non rimase che giocare la sua solita vecchia carta per tamponare la falla in attesa di tempi migliori: usare il proprio enorme e freddo corpo, che già aveva divorato l’esercito di Napoleone, e il corpo dei suoi sudditi. Milioni di proletari e di contadini letteralmente gettati contro le truppe motorizzate tedesche, confidando nel limite dei loro proiettili e del loro carburante. Sofisticati e potenti panzer contro una muraglia di corpi umani: la fanteria sovietica, coadiuvata da pochi T-34. Per alzare il morale della popolazione russa Stalin fece fucilare non pochi «seminatori di panico».
Il nemico alle porte del regista Jean-Jacques Annaud rende bene l’atmosfera infernale della battaglia di Stalingrado. Migliaia di uomini gettati come carbone nella fornace della caldaia bellica. «Fate presto con quel carbone!». Sotto una certa pressione, infatti, la macchina si arresta. «Più carbone, perdio, la pressione scende maledettamente!».
Ma allora, si dirà, la Russia si sarebbe dovuta arrendere all’invasore? Non ho detto questo. Che le classi dominanti, di qualsiasi Paese, usino le persone come materia prima industriale e bellica è un fatto che non ha bisogno della mia opinione, né, tanto meno, della mia approvazione. D’altra parte, come già detto chi scrive è, in “pace” come in guerra, disfattista nei confronti degli interessi nazionali, che poi sono sempre e necessariamente gli interessi delle classi dominanti, o delle fazioni vincenti di esse. «Stalin non è stato un santo ma chi, tra i condottieri che governano e guidano le nazioni e i popoli, lo è mai stato? Gli statisti non si riconoscono dalla loro umanità, dai buoni sentimenti e dalla bontà d’animo, ma dalle cose che fanno e dalle decisioni, anche tragiche, che assumono. Lo Stato non è un oratorio e mai potrà diventarlo». Non c’è dubbio. Ecco perché mi batto contro lo Stato capitalistico in vista di una Comunità umana nel cui seno il concetto di uomo possa finalmente corrisponda al suo nome. Come aveva capito il trincatore di Treviri*, la società che non conosce la divisione degli individui in classi sociali non ha alcun bisogno dello Stato, né della politica come la conosciamo dai tempi dell’antica Grecia, ossia come espressione degli antagonismi sociali e come strumento di lotta tra le classi e dentro le stesse classi. La politica estera delle nazioni non è che la continuazione della politica interna con altri mezzi e su una scala più vasta: l’obiettivo è in ogni caso il rafforzamento materiale, politico e ideologico del Dominio. Dico questo per mettere in chiaro la radicale differenza che corre tra il punto di vista geopolitico, più o meno apologetico, e il punto di vista critico-rivoluzionario.
Alla fine, per Petrosillo il merito più significativo di Baffone sembra essere stato quello di «opporsi alla civiltà capitalistica e all’egemonia americana». E questo, osserva il nostro, fa di Stalin uno spettro che continua a turbare i sogni di chi ha tutto l’interesse a prolungare «il nostro misero presente di infingimenti e di vigliaccherie globali». Tuttavia egli dice anche che la Russia stalinista «non era la terra del socialismo benché così si facesse chiamare», tesi che condivido e che ho sempre sostenuto, probabilmente anche quando lo stesso Petrosillo metteva entrambe le mani sul fuoco circa la natura schiettamente socialista dell’Unione Sovietica. È solo un’impressione, beninteso.
Lungi dall’opporsi alla «civiltà capitalistica» la Russia di Stalin ne fu piuttosto una variante russa, e per questo sostengo, come sa chi ha la bontà di seguirmi, che il cosiddetto «socialismo reale» fu una pagina particolarmente ignobile del Libro Nero del Capitalismo. Particolarmente ignobile proprio perché l’ideologia dello Stato Sovietico cianciava di «Socialismo» e di «dittatura del proletariato» nello stesso momento in cui nel «Paese dei Soviet» si edificava a tappe accelerate un Capitalismo di Stato basato sull’industria pesante idoneo a sostenere gli interessi imperialistici della Russia, in linea con la tradizionale politica estera di Grande Potenza della Russia zarista. Naturalmente a Petrosillo le mie riflessioni devono necessariamente suonare come delle quisquilie dottrinarie, giacché la sola cosa che ai suoi geopolitici occhi ha importanza è la costruzione di un fronte unico mondiale antiamericano: la mia auspicata rivoluzione sociale anticapitalistica mondiale non gli può importare di meno. Legittimamente, peraltro.
* Il cattivo retaggio del «socialismo reale» continua a pesare sull’interpretazione degli scritti marxiani, come dimostra anche la citazione che segue: «Ciò che di Marx oggi non è più possibile accettare non è certamente la critica dell’economia – che invece trova sempre più conferme – quanto l’antropologia e la filosofia della storia che ne consegue. In buona parte dell’opera di Marx c’è infatti un deficit profondissimo di analisi e comprensione della soggettività, che ha avuto conseguenze assai negative nelle storie dei movimenti operai e delle emancipazioni sociali che si sono richiamate al marxismo […] Da tale messa in valore dell’homo faber, dell’uomo della prassi, nasce lo schematismo riduzionistico del materialismo storico (con la semplicistica articolazione di struttura e sovrastruttura), e, in pari tempo, un’antropologia fabbrile fusionale e gruppale, in cui non v’è spazio alcuno per l’individuo e le sue differenze rispetto alla superiorità e all’organicità del collettivo» (R. Finelli, Karl Marx e il suo deficit originario, Consecutio Temporum, 22 ottobre 2013).
Non condivido affatto il giudizio sull’«antropologia e la filosofia della storia» che, secondo Finelli, dovrebbero conseguire dalla marxiana critica dell’economia. Un giudizio che, semmai, colpisce non Marx quanto piuttosto i suoi epigoni, soprattutto quelli in guisa stalinista e maoista. Separare poi il Marx “economico” da quello “antropologico-filosofico” significa, a mio avviso, non aver capito l’essenza del pensiero marxiano, avendolo forse appreso solo attraverso la lettura dei cosiddetti marxisti e, ancora peggio, alla luce della maligna mitologia del cosiddetto «socialismo reale». Ho provato ad argomentare questi miei concetti in Eutanasia del Dominio. Riflessioni critiche intorno all’attualità del Dominio e alla possibilità della liberazione. Da questo studio estrapolo la seguente citazione marxiana: «Nella storia fino ad oggi trascorsa è certo un fatto empirico che i singoli individui, con l’allargarsi dell’attività sul piano storico universale, sono stati sempre asserviti a un potere a loro estraneo (oppressione che essi si sono rappresentati come un dispetto del mondo), a un potere del cosiddetto spirito che è diventato sempre più smisurato e che in ultima istanza si rivela come mercato mondiale. Ma è altrettanto empiricamente dimostrato che col rovesciamento dello stato attuale della società attraverso la rivoluzione comunista questo potere così smisurato per i teorici tedeschi verrà liquidato, e allora verrà attuata la liberazione di ogni singolo individuo» (Marx-Engels, L’ideologia tedesca, Opere, V, p. 66, Ed. Riuniti, 1971). Di ogni singolo individuo.
Più che a Marx, «il deficit originario» dovrebbe essere attribuito all’autore dell’infondata critica.
DA FACEBOOK:
Arno Favarelli ha scritto:
Hai dimenticato la guerra di aggressione alla minuscola Finlandia, con un abitante ogni 10 Km. quadrati, che baffone voleva annettere! I vecchi stalinisti, e la scuola di partito del PCI, molto efficacie nell’addestrare le nuove covate di novelli bolscevichi insegnavano, mistificando la storia che era stata la Finlandia a dichiarare guerra a baffone. Condivido. Ciao Sebastiano!
Gianni Conflittiestrategie Petrosillo ha scritto:
Ovviamente, Lei sa benissimo che il suo linguaggio mi è familiare perché il nostro retroterra culturale è comune. Ma le strade si divaricano sull’oggi. Lei, come me, avrà letto Le lotte di Classe in Urss di Bettelheim e quindi saprà altrettanto bene della struttura sociale sovietica e dei suoi problemi. Non c’era socialismo perché in fin dei conti, col senno di poi, possiamo dire (Lei però su questo non sarà d’accordo) che il socialismo era irrealizzabile. Lei con tutta onestà ammette della grande statura di Stalin nei termini in cui io ho posto la questione (certo Lenin era un’altra cosa), perché è persona intelligente e non uno scribacchino dei poteri capitalistici. La prospettiva sovrana non è per me un punto d’onore ma una maniera per allontanare un giogo più deleterio coincidente in questo momento con gli Usa. Le vecchie categorie marxiane non ci spiegano più molto sulle nostre società (ma la grande scoperta scientifica di Marx resterà per sempre, e per sempre sarà il nostro punto di partenza) ed urge una nuova teoria. Noi facciamo questo tentativo mentre molti (Lei incluso) mi sembra che dormano troppo sugli allori che coprono anguste catacombe categoriali. La ringrazio e a presto.
La mia “risposta”:
Sono io che La ringrazio per la cortese e tutt’altro che formale riflessione. Non condivido nulla della sua impostazione teorica e politica, antiamericanismo “tattico” incluso. Penso che la teoria e la prassi del «Nemico Principale» (che da sempre per molti “antimperialisti” di diversa tendenza politica ha il volto del Grande Satana a stelle e strisce) siano cibo per mosche cocchiere, la cui Realpolitik è spesa tutta al servizio del Dominio. Penso anche che le differenze dottrinarie che ci separano siano ben più profonde di quanto Lei immagini, ed è per questo che un minimo sindacale di pensiero critico-rivoluzionario, quale il mio modesto intelletto è capace di esprimere, deve necessariamente apparirle confinato dentro «anguste catacombe categoriali».
La ringrazio ancora e la saluto cordialmente.
Daniele Vidoni scrive:
La Russia era tanto antimperialista che infatti si alleò in guerra con Stati Uniti ed Inghilterra, notoriamente conosciuti come Stati dispensatori di libertà e democrazia in ogni angolo del globo. Ma è vero, i nazisti non erano i più forti e potenti, erano semplicemente i più cattivi, soprattutto da quando ruppero le alleanze con la Russia, prima ovviamente no, e che diamine. La Russia era l’incarnazione del socialismo in marcia, perbacco, ergo, tutto quello che immediatamente ne minacciava l’espansione imperialista… ooops, piccolo dettaglio), diventava, ipso facto, anti socialista. Basta appioppare una bella etichetta e voilà, tutto diventa più buono, anche la solita cacca(imperialista… ariooops). É la logica dell’indottrinamento di massa: spara una minchiata anche la più assurda e irreale in modo martellante e continuo e vedrai che alla fine tutti se la berranno, e se tutti se la berranno, quella, da quel momento in poi, sarà la Realtà. E così, a forza di ingurgitare realpolitik in quantità industriale, si finisce, senza manco sapere come, col diventare i classici realisti più realisti del Re.
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