Per Serge Latouche, «La civiltà occidentale, così come la conosciamo da tre secoli, è molto diversa dalle altre. Si tratta infatti di una società della crescita, cioè di un’organizzazione umana completamente dominata dalla sua economia. E quest’ultima per rimanere in equilibrio, ha una sola via, la fuga in avanti, come un ciclista che, se smette di pedalare, cade a terra. Quando manca la crescita, nella società dei consumi si blocca tutto» (Incontri di un “obiettore di crescita”, Jaca Book, 2013).
Il Capitalismo è in primo luogo e fondamentalmente una società dominata dalla ricerca del massimo profitto possibile, e a causa di ciò la sua struttura economico-sociale deve necessariamente subire periodiche rivoluzioni. È la bronzea legge del profitto che sottopone l’economia a continui mutamenti tecnologici e organizzativi, che sposta sempre in avanti i confini del mercato, trasformando la vita stessa degli individui, ridotti, se mi è concesso dire, a risorse economicamente sensibili, in una merce. L’«immane raccolta di merci» di cui parlò una volta Marx per definire la ricchezza sociale nella sua forma capitalistica, oggi, nell’epoca della bio-merce (l’individuo come merce che produce merci e che consuma merci: insomma, come merce perfetta) e della sussunzione totalitaria del lavoro sotto il dominio del Capitale, suona perfino riduttiva.
Il corpo stesso degli individui è, infatti, diventato una «immane raccolta di merci», una verde prateria in continua espansione a disposizione del cavallo capitalistico (il Capitale non conosce un limite fisico, ma anzi esso crea sempre di nuovo spazio su cui scorrazzare), un laboratorio che fa la gioia e la fortuna di chi per mestiere inventa nuovi bisogni, nuovi desideri, nuove “utopie”, nuovi sogni, nuove necessità. Ma che fa anche la gioia e la fortuna di chi si guadagna il pane aggiustando l’anima strapazzata di un «capitale umano» a sempre più alta «composizione organica».
È la tetragona legge di cui sopra che fa del rapporto sociale peculiare di questa epoca storica (Capitale-Lavoro) una disumana e disumanizzante relazione di dominio e di sfruttamento. In questo senso è verissimo che quella capitalistica è «un’organizzazione [dis]umana completamente dominata dalla sua economia». Il Capitale come potenza sociale astratta e impersonale che domina anche gli stessi agenti del capitale, i capitalisti, è una realtà che viene in evidenza soprattutto nei momenti di crisi economica, la quale impatta sulla società alla stregua di una catastrofe naturale: inaspettata, violenta, incontrollabile, dolorosa.
Definire il Capitalismo a partire dai concetti di crescita e di consumo, come fa Latouche, è dunque profondamente sbagliato: infatti, è quando manca la crescita dei profitti che nella società basata sulla valorizzazione degli investimenti «si blocca tutto». Il motore dell’economia capitalistica non è il consumo, ma il profitto: è il saggio del profitto che regola, in ultima analisi, l’andamento del ciclo economico, che espande o contrae gli investimenti produttivi, che espande o contrae il mercato finanziario, speculazione inclusa.
Per questo è semplicemente chimerico affermare che bisogna uscire dalla società dei consumi, quando si tratta piuttosto di uscire dalla società dei profitti, ossia dal Capitalismo tout court. D’altra parte, non ci si può attendere altro da un intellettuale che alla Conferenza all’Università di Roma del 7 novembre 2012 ha proposto all’Italia la seguente ricetta per venire fuori dalla crisi: «Frugalità e riaffermazione della supremazia della piccola impresa, che ha rappresentato per cinquanta anni il tessuto connettivo del Paese, la sua peculiarità».
«Accusarci di andare a caccia di chimere è profondamente ingiusto» (p. 54): così risponde il guru francese della decrescita a chi gli rimprovera uno scarso senso della realtà. Contro l’ideologia del TINA (There Is No Alternative), Latouche sostiene il carattere realistico della decrescita. Sulla sostanza chimerica e reazionaria dell’opzione decrescista sostenuta dal Francese rimando a Capitalismo e termodinamica. L’entropia (forse) ci salverà.
Oltre che con i sostenitori del TINA, Latouche se la prende anche con chi lo attacca da “sinistra”, proponendo una «nostalgia rivoluzionaria [che] resta prigioniera di una visione manichea della realtà ereditata dalla sinistra marxista, col suo schema di una lotta di classe ridotta all’antagonismo borghesia/proletariato. Sfortunatamente le cose non sono così semplici. Che ci siano conflitti di interessi irriducibili, non saremo certamente noi a negarlo. Che una rivoluzione sia necessaria, è altrettanto evidente. Tuttavia, questa rivoluzione come la si farà? Contro chi? E contro cosa? Visto che siamo tutti vittime, chi più chi meno, contagiati dal virus produttivista e consumista, bisognerà prevedere lo sterminio del popolo al dettaglio in nome del popolo nel suo insieme, secondo l’equazione matematica del terrore formulata da Benjamin Constant e riattualizzata dai Khmer Rossi?» (Incontri di…). Quanto sostiene Latouche la dice lunga, tra l’altro, sull’idea di “marxismo” che egli ha in testa. I Khmer rossi rappresentano il migliore cavallo di battaglia di Latouche nella sua polemica con i “marxisti”: «Tutti i tentativi di modificare radicalmente l’immaginario, di cambiarlo forzatamente, hanno avuto risultati terrificanti, come ha dimostrato l’esperienza dei Khmer Rossi in Cambogia» (Decolonizzare l’immaginario). Interpretare in chiave anticapitalistica la mostruosa esperienza dei maoisti cambogiani è semplicemente ridicolo.
Come sa chi ha la bontà di leggere le mie modeste cose, a mio avviso lo stalinismo, non importa se con caratteristiche russe, cinesi o cambogiane, è l’esatto opposto di quella concezione rivoluzionaria del mondo che Marx si sforzò di elaborare e praticare. L’intellettuale francese può certamente avere la meglio su gran parte dei militanti “marxisti” oggi in circolazione, in genere eredi di quel “comunismo” che ha gettato nel più assoluto discredito l’idea stessa di una emancipazione rivoluzionaria delle classi dominate e dell’intera umanità; ma nei confronti dell’autentico punto di vista critico-rivoluzionario (che, detto en passant, non ha bisogno di definirsi con un nome), egli appalesa tutta la sua inconsistenza dottrinaria e politica, tutto il suo infantilismo “filosofico”.
Alla base del genocidio cambogiano degli anni Settanta non ci fu, come crede lo sprovveduto Latouche, una coerente quanto feroce utopia anticapitalistica, ma un retaggio storico fatto di oppressioni e violenze coloniali, di sfruttamento imperialistico, di nazionalismo frustrato, di odio sociale tra campagna e città, di estrema miseria urbana e rurale, di corruzione endemica e capillare, di vendette sociali e personali lungamente coltivate. Tutte queste magagne sfociarono nella parossistica chiusura nazionalista-contadina dei Khmer Rossi, i quali si proposero di sradicare con la forza dal corpo sociale cambogiano ogni inclinazione benevola nei confronti del «corrotto occidente capitalistico». Una versione particolarmente estremista del maoismo (caldeggiata soprattutto dalla moglie di Mao) costituì il miserabile fondamento ideologico dell’ultranazionalismo Khmer, la cui sanguinosa esperienza rappresenta un capitolo del Libro Nero del Capitalismo.
I giacobini pensarono che fosse possibile cambiare la «cattiva natura dell’uomo» attraverso un mero sforzo di volontà, mediante una illuministica rivoluzione culturale, senza cioè modificare radicalmente le cause storico-sociali di quella natura. «Essi stavano sul filo d’una grande contraddizione, e chiamarono in loro aiuto il filo della ghigliottina … Essi credevano nella forza assoluta dell’idea, della “verité”. E ritenevano che nessuna ecatombe umana sarebbe stata troppo grande per costruire il piedistallo a questa “verité”» (Trotsky, Giacobinismo e socialdemocrazia). Raddrizzare l’«albero storto» dell’individuo, anche a costo di spezzarlo, è stato da sempre il sogno degli idealisti eticamente motivati di tutte le tendenze politiche e filosofiche. La «rivoluzione antropologica» a rapporti sociali invariati è la classica via per l’inferno lastricata di eccellenti intenzioni.
Per questo quando sento parlare molti fautori particolarmente zelanti della «decrescita felice» circa l’urgenza di «cambiare radicalmente i nostri pessimi valori, i nostri cattivi stili di vita, le nostre cattive abitudini», non posso fare a meno di inquietarmi. La mano corre istintivamente al collo, quasi in un gesto di rassicurazione…
I militanti del punto di vista umano hanno capito che per liberarci «dal virus produttivista e consumista»; per modificare radicalmente il nostro «immaginario» alienato e reificato, occorre superare il vigente rapporto sociale che tutto sfrutta, consuma, mercifica, inquina e disumanizza. Per mutuare Marx, Latouche vuole emancipare l’uomo «dal virus produttivista e consumista» solo «affinché l’uomo porti la catena spoglia e sconfortante», mentre si tratta di gettare via la catena capitalistica e cogliere i fiori vivi della Comunità Umana, oggi sempre più possibile e, al contempo, sempre più negata. È in questa presa di coscienza che, a mio avviso, si deve individuare la sola «rivoluzione culturale» in grado di ripristinare il Tempo della Speranza.
È vero: anche in questa epoca dominata dalla totalitaria legge del profitto si danno all’uomo delle alternative; la cattiva dimensione di una vita non-ancora-umana non necessariamente è un destino insuperabile. È altresì vero che l’”alternativa” proposta ormai da parecchi anni da Latouche non esce neanche di un solo millimetro da quella maligna dimensione, né sembra avere una concreta possibilità di implementazione nel quadro stesso del vigente assetto sociale. Ai miei occhi certe utopie (come la mia, ad esempio) appaiono molto più concrete e realistiche di molte chimere riformiste informate dalla concezione dei piccoli passi, ossia dall’illusione che attraverso piccole ma concrete conquiste sociali l’umanità può affrancarsi dal Moloch capitalistico. Perlomeno la mia utopia cerca di fare i conti fino in fondo con il Dominio sociale come esso è secondo la sua intima natura, e non come «potrebbe e dovrebbe essere» in base a criteri economici, filosofici, etici e politici quantomeno discutibili e certamente ideologici. Il realismo (dei “conservatori” e dei “rivoluzionari”) non ci salverà, questo è, come si dice, poco ma sicuro.
Il lato forte, quello molto più pericoloso dei decrescisti -che pur ne costituiscono una frazione apparentemente raffinata e ecologista, sono i nazionalisti di sinistra, gli epigoni del baffone, sia pur democratizzati e costituzionalizzati, che vogliono mettere tutti al lavoro, centralizzando le condizioni della produzione attorno al comando e l’investimento statale
Sarà questo più vasto campo ideologico che dobbiamo già oggi combattere con molta forza: le sue tesi sono di applicazione immediata e annidate in profondità nella nostra eredità storica (che coincide col punto di vista del dominio)
Esse faranno presa proprio sulla grande massa dei non-garantiti (di provenienza
proletaria o piccolo borghese poco importa) che potrebbero invece essere ricettivi
ad una reale rivoltamento sociale
Il pensiero che attribuisce al neo-liberismo e al capitale finanziario le cause della crisi odierna ha oramai fatto breccia, la classe politica dominante e quella in predicato di esserlo avvallano ben volentieri questa opinione in tempi di insourcing
Ovviamenente nessuno di questi ammette che la specifica “crisi nella crisi” nostrana proviene dalla troppo artificiosamente prolungata parabola discendente del circolo vizioso keynesiano
Chi ci seguirebbe se gli spiegassimo che è la lunga abitudine al troppo stato che lo trattiene in questa minorazione materiale e spirituale?
R. B.
Concordo su tutto,come sempre del resto. Però se permetti,vorrei esprimere una considerazione. E’ sacrosanto da parte tua affermare che il capitalismo si basa sul profitto, ma per realizzarlo e’ necessario piazzare le merci prodotte,di conseguenza se non si consuma,non si vendono. Ciao Sebastiano!
Sebastiano Isaia
Ottima considerazione. Tuttavia occorre aggiungere che il consumo ha “senso” per il Capitale solo nella misura in cui in esso è presupposta un’adeguata valorizzazione dell’investimento. Viceversa, non c’è consumo che possa allettare il Capitale. In questo senso è corretto, a mio avviso, individuare nel profitto, e non nel consumo (non a caso pascolo concettuale dell’economia politica volgare) il motore dell’accumulazione capitalistica. Sempre grazie per l’attenzione Raffa! Ciao!
S.T.
Quindi mentre il capitalismo opera concretamente sul piano reale NOI CI OPPONIAMO CON UNA RIVOLUZIONE CULTURALE IMPREGNATA IN OGNI CASO DI CAPITALISMO… Speriamo che riesca…
Mi permetto di intervenire nel suo interessante blog per svolgere qualche osservazione su quello che ha scritto in questo post.
Con tutta evidenza lei è un umanista marxista e quindi come tutti gli umanisti non cerca di descrivere l’uomo così come si presenta in natura alla stregua di qualsiasi organismo vivente ma come vorrebbe che fosse anche nelle sue “capacità” evolutive.
Come tutti gli umanisti lei palesa sia una scarsa consapevolezza delle strutture concettuali del linguaggio (così come esposte da Wittgenstein e Benveniste) sia della fisica (cosi come esposte magistralmente da Georgescu – Roegen).
Le strutture concettuali portanti del linguaggio (i deittici (di persona, cosa e luogo) e il verbo accadere o avvenire (ma anche essere e stare) dotati delle marche morfologiche o delle particelle temporali o aspettuali) ci dicono che l’uomo è un evento tra gli eventi che avvengono nel mondo e, nell’ambito di questa struttura concettuale portante caratterizzata dalla spazialità e dalla eventualità (temporalità), non vi è modo di assegnare all’uomo una qualche dignità particolare rispetto alle altre cose che gli avvengono intorno.
Le strutture concettuali portanti della fisica ci dicono che qualsiasi evento, compreso l’evento umano (che anche dal punto di vista fisico è solamente un evento tra gli eventi, per poter avvenire deve essere sostenuto da un flusso adeguato di energia). Orbene purtroppo la gigantesca bolla di energia fossile che ha consentito lo sviluppo della cosiddetta civiltà industriale sta manifestando dopo quasi un secolo gli inevitabili rendimenti decrescenti in termini di EROEI e cioè in termini di energia netta che giunge alla società per alimentare l’attività economica che come mette bene in evidenza Georgescu Roegen è anch’essa un evento fisico che per accadere ha bisogno di flussi adeguati di energia e che l’energia utile a effettuare lavoro (a far accadere un evento) si dissipa irreversibilmente (legge di entropia). Pertanto la diminuzione del flusso di energia portarà ad una inevitabile contrazione delle attività economiche e in particolare ad una forte contrazione della produzione agricola visto che l’attuale produttività dell’agricoltura meccanizzata che ha consentito l’attuale sviluppo demografico si basa su elevati flussi di energia fossile. La contrazione della produzione agricola comporterà ovviamente la morte per fame nei prossimi decenni di circa 5 miliardi di persone (è una stima ottimistica visto che l’agricoltura alimentata dalla sola energia solare non ne può sfamare più di un miliardo). Il devastante declino entropico della civiltà industriale (che Georgescu Roegen aveva previsto già nei primi anni ’70 in base a ragionamenti puramente fisici, energetici, prima del Club di Roma nei cui confronti Georgescu Roegen era peraltro molto critico) è quindi un dato fisicamente certo come del resto tutti gli eventi fisici che si basano su calcoli energetici al netto ovviamente di eventuali imprecisioni nello stabilire i tempi degli eventi dovute ai dati disponibili relativi alle risorse fossili che non sempre sono precisi.
Poichè, come affermano i biologi, l’uomo non è in grado per costituzione biologica, come tutti gli animali, di elaborare progetti a lungo termine al fine di preservare la sua stessa specie, quello che si sarebbe dovuto fare già circa 40 anni fa non è stato fatto e quindi probabilmente questo irreversibile declino entropico con conseguente morte in massa di intere popolazioni non è più evitabile.
Io non conosco gli scritti di Latouche, non conosco gli scritti del Club di Roma e dei cosidetti decrescitisti nè mi interessa conoscerli. Conosco solamente gli scritti di Georgescu Roegen e la sua rappresentazione fisica degli eventi umani, in particolare degli eventi economici che moltissimi fisici hanno confermato come del tutto corretta e inecepibile sul piano della teoria fisica. Conosco inoltre le strutture concettuali portanti del linguaggio e della fisica e non sono di conseguenza un umanista (sono stato marxista per un tempo molto breve prima di studiare analisi del linguaggio e fisica).
Suppongo che la sua reazione a quello che ho scritto, tipica di un umanista (di destra o di sinistra che sia) sarà quella di rifiutare la visione dell’uomo che ho appena descritto o quantomeno di porla in dubbio. Ebbene, in tal caso le risponderò con una famosa frase di Wittgenstein che dice: se però un tizio lo dubitasse, come potrebbe manifestarsi il suo dubbio? E non potremmo lasciarlo tranquillamente dubitare, dal momento che non fa proprio nessuna differenza?
Un cordiale saluto
(PS se desidera approfondire l’argomento troverà materiale nel mio blog giorgio-ansan.blogspot.it)
Solo adesso trovo il tempo di leggere la sua interessante riflessione, della quale la ringrazio sinceramente.
Come lei stesso ha intuito il mio approccio alle questioni sociali in generale, e alla questione ecologica in particolare è assai diverso da quello che informa la sua concezione dei processi sociali, e per molti e significativi aspetti ne è agli antipodi. A mio modesto avviso la sua concezione del mondo, che forse non sbaglio se definisco scientista, si pone nei confronti del vigente sistema di Dominio sociale in un rapporto che non si può certo definire critico-radicale.
Nella misura in cui «Essere radicale vuol dire cogliere le cose alla radice», e che «la radice, per l’uomo, è l’uomo stesso» (Marx), accetto di buon grado la definizione di umanista con ha voluto rubricarmi, e, d’altra parte, io stesso definisco punto di vista umano la teoria-prassi che cerco di elaborare e di implementare nei limiti soggettivi e oggettivi che qui sarebbe fuori luogo indagare. Ebbene, dalla mia prospettiva umanista l’uomo non «si presenta in natura alla stregua di qualsiasi organismo vivente», semplicemente perché il suo ambiente “naturale” è il prodotto di un’ultramillenaria prassi sociale. Ciò è un “bene” o un “male”? Per quanto mi riguarda, quanto appena sintetizzato in modo a dir poco stringato è un fatto di eccezionale portata storica e concettuale che va compreso nella sua essenza, nella sua dialettica e nella sua dinamica.
In un modesto post ho scritto: «L’uomo è (storicamente, socialmente e antropologicamente) tale nella misura in cui oppone resistenza, materiale e spirituale, alle cose, e non le subisce semplicemente e passivamente. L’uomo pone il mondo come una mediazione tra sé e l’ambiente circostante, e lo fa naturalmente, per così dire, prima che la cosa diventi oggetto della sua riflessione. Mediare significa comprendere, trasformare, padroneggiare, senza soluzione di continuità reale e concettuale. Medio, dunque esisto! L’uomo è la specie che pone la mediazione. Probabilmente è in questo porre la distanza tra sé e la natura, che ha reso possibile l’anomalia chiamata uomo, che va cercata la genesi del Male e la possibilità del suo definitivo annientamento» (da Bisogno ontologico e punto di vista umano). Inutile dirle che declino il concetto di Male non in chiave teologica ma nei termini storico-sociali mutuati da Marx – o, meglio, dalla mia interpretazione della posizione marxiana: anche per questo non mi definisco un marxista.
E qui mi permetto un’altra citazione, che spero possa chiarire meglio il mio punto di vista umanista: «Per il teologo, senza Dio tutto il Male è possibile; per l’ateo il male deriva dall’ignoranza (notate la m minuscola: l’ateo ideologico ha paura di civettare in qualche modo con la teologia); per il critico-radicale senza l’uomo tutto il Male (ritorna la maiuscola) è possibile, e il peggio non può che… peggiorare. Il primo vuole conciliare il Mondo con il suo Creatore, il secondo lo vuole illuminare in vista di un ulteriore progresso di civiltà e il terzo semplicemente umanizzare, a partire dai rapporti sociali che governano la produzione e la distribuzione della ricchezza sociale» (Perché non posso dirmi – semplicemente – ateo).
Qui tocco, per concludere rapidamente, un punto decisivo. Detto che non conosco gli scritti di Georgescu Roegen, a mio avviso la «rappresentazione fisica degli eventi umani, in particolare degli eventi economici», è del tutto priva di significato se non fa i conti con l’essenza sociale che informa in modo sempre più stringente, totalitario, globale, capillare, esistenziale le prassi che rigano in profondità il tessuto sociale. Facilmente si scade nel feticismo tecnologico se non si comprende come la tecno-scienza sia in primo luogo e fondamentalmente l’espressione di un peculiare rapporto sociale, constatazione che si estende alla forma merce (mercato) e alla forma denaro (capitale), non a caso concepite da moltissimi scienziati sociali alla stregua di forme astoriche inscritte nel metaforico (ma solo fino a un certo punto…) DNA umano. Parlare di «Civiltà industriale» in astratto, senza cioè specificarne il contenuto storico-sociale che le conferisce una reale e viva dimensione, per me non ha alcun senso, se non quello ideologico e apologetico di proiettare sul passato e sul futuro gli odierni rapporti sociali di dominio e di sfruttamento – dell’uomo e della natura. Non le sto “rimproverando” nulla, sia chiaro: mi limito a svolgere un ragionamento nei termini generali, e perfino generici, che mi permette una “risposta” che vuole essere quanto più breve possibile.
L’esistenza del cosiddetto «socialismo reale» non legittima sul piano “scientifico” il concetto di «Civiltà industriale» semplicemente perché quel «socialismo» altro non fu (e non è: vedi la Cina) che un Capitalismo – più o meno di Stato – fortemente orientato, come nel caso dell’Unione Sovietica, in senso imperialistico. Questo, ovviamente, sempre all’avviso assai modesto di chi scrive.
Tengo a precisare che questa posizione sul cosiddetto «socialismo reale» non è una mia tarda acquisizione, resa possibile dai crolli dei miserabili Muri, ma è una conquista teorica e politica che mi deriva dalla conoscenza della storia del movimento operaio scritta già negli anni Venti del secolo scorso dai comunisti occidentali che contrastarono lo stalinismo (anche quello italiano: vedi Gramsci-Togliatti) già al suo sorgere, nel suo iniziale processo genetico. Ciò mi consente di parlare della Comunità Umana come di una splendida e sempre più concreta possibilità (ho detto POSSIBILITÀ, non certezza: tutt’altro!) e di ridere sui Khmer Rossi di Latouche.
Mi scuso per la lunghezza della “risposta”, le rinnovo i ringraziamenti per l’attenzione e la riflessione e la saluto cordialmente.
scientismo come fase suprema del positivismo….
“Identificando il sapere con la scienza, il positivismo attribuisce all’intelligenza solo le funzioni necessarie a organizzare un materiale già modellato sugli schemi di quella cultura commerciale che sarebbe compito dell’ intelligenza criticare. Tale limitazione fa dell’inteligenza la serva dell’ apparato di produzione, non già la padrona di esso..”
da notare che nell’oggettività materialistica sopra descritta -che pensa di aver abbandonato ogni idea in nome della scomposizione matematica- la possibilità (nell’accezione storica e non metafisica) è concepita in quanto probabilità; e così la possibilità ha smesso di arriderci
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