Continua lo sciopero dei minatori sudafricani sfruttati come bestie nelle miniere della cintura del platino a ridosso di Johannesburg. Le miniere coinvolte ormai da parecchi mesi nelle agitazioni «selvagge» dei lavoratori sudafricani, in lotta per ottenere significativi aumenti salariali e migliori condizioni di vita e di lavoro, sono di proprietà dell’Anglo American Platinum, dell’Impala Platinum e della Lonmin, vale a dire dei tre maggiori produttori di platino al mondo. L’organizzazione sindacale National Union of Mineworkers (Num), vicina all’African National Congress, principale partito sudafricano al governo del Paese dal ’94 ad oggi senza interruzioni, si è dissociata dal movimento di lotta, la cui direzione è così interamente nelle mani dell’Association of Mineworkers and Construction Union (Amcu). Se consideriamo «che l’economia del Sudafrica, che possiede le maggiori riserve di platino al mondo, si basa sulle esportazioni di metallo per più della metà dei suoi guadagni in valuta estera» (Rita Plantera, Nena News, 29 gennaio 2014), ci rendiamo conto di quanto alta sia la posta in palio e di quanto forti siano le pressioni economiche e politiche con cui i minatori del platino hanno a che fare.
«Lo sciopero è il più imponente dopo quello fatale di Marikana del 2012 il cui tristissimo epilogo – 34 corpi di lavoratori sparsi per terra uccisi dal fuoco della polizia oltre a decine di feriti – rappresenta probabilmente la vergogna più grande o quella più inaspettata nel Sudafrica del post-apartheid» (Rita Plantera). Non saprei dire se il massacro di Marikana rappresenta davvero «la vergogna più grande» per il regime sudafricano venuto fuori dall’odioso sistema di apartheid, anche perché il peggio è nell’ordine delle cose, in Sudafrica come ovunque nel capitalistico mondo; posso però dire in tutta sincerità che quel sanguinoso episodio di lotta di classe non mi sorprese nemmeno un po’. Rimando al post Sudafrica. Il colore del profitto chi intende capire il senso delle mie parole.
«Ragioni di stato e del profitto che non si incontrano con quelle della sopravvivenza e a cui, a 20 anni dall’inizio dell’era democratica per il Sudafrica, né la classe dirigente al governo né le multinazionali che operano in diversi settori, da quello agricolo a quello minerario, pare non abbiano la volontà di prestare orecchio» (ivi). Qui viene da chiedersi: la forma politico-istituzionale democratica del potere sociale che fa capo alle classi dominanti è forse in contraddizione con le ragioni dello Stato (capitalistico!) e del profitto? Posso sbagliarmi, ma almeno due secoli di prassi sociale nei Paesi democratici suggeriscono una risposta negativa a questa domanda, peraltro formulata in modo assai suggestivo per indicare che è la realtà stessa che ci mette in bocca le parole che dànno sostanza alla verità. Si tratta di imparare a riconoscere la dura grammatica del Dominio, e a esprimerla senza edulcorarne il contenuto con zollette ideologiche (del tipo: tolleranza multirazziale, potere popolare, patto sociale, bene comune, ecc.) che confortano la nostra paura di dover compiere scelte che ci appaiono troppo azzardate. Ma se non conquistiamo quella capacità, ci esponiamo impotenti al diktat delle “scelte obbligate”.
Non la teoria critica – non solo – ma appunto la secolare prassi sociale dei Paesi occidentali capitalisticamente più avanzati ha dimostrato come la forma democratica del potere politico sia quella più rispondente agli interessi delle classi dominanti nel contesto di società altamente strutturate, stratificate e complesse. Solo in tempi eccezionali la difesa dello status quo può implicare la sospensione del cosiddetto gioco democratico, salvo ripristinarlo a crisi sociale superata, magari sostituendo il vecchio personale politico ormai inservibile con quello nuovo.
D’altra parte, l’alternanza di carota e bastone, di lusinghe e minacce, di violenza potenziale e violenza dispiegata da sempre caratterizza l’essenza della politica democratica. Decisivo nell’epoca della sussunzione totalitaria e planetaria degli individui al Capitale è il concetto di violenza sistemica, che ci tiene dentro la coazione a ripetere del Dominio senza l’ausilio di corposi strumenti coercitivi, ma piuttosto in virtù del “normale corso degli eventi”. Inutile dire che quando la situazione lo imponga, gli evocati corposi strumenti coercitivi fanno il loro macabro ingresso sulla scena, accompagnati dal piagnisteo progressista sulla “democrazia tradita”. «Un massacro da tempi di regime e da stato di polizia che ricorda tanto quello di Sharpeville del 1960», come scrive Plantera sempre a proposito dei fatti di Marikana, è insomma tutt’altro che inconcepibile in regime democratico. Marikana è un monito per il proletariato di tutto il mondo.
Sono andato, come si dice, fuori tema? Può darsi. In realtà volevo solo esprimere tutto il mio disprezzo per le sirene democratiche che stanno cercando di convincere i minatori sudafricani a scendere a più miti consigli, a non mettersi su un terreno di scontro che potrebbe portare il Paese indietro di decenni, ad accettare la logica del compromesso per non compromettere le conquiste politiche e sociali ottenute negli ultimi vent’anni, a non dimenticare la grande lezione di Nelson Mandela – eroe della Patria «che è di tutti: neri e bianchi, poveri e ricchi», e non certo simbolo della lotta di classe anticapitalistica. Volevo solo solidarizzare con i combattivi lavoratori sudafricani, i quali hanno forse qualcosa da insegnare ai loro fratelli di sventura sfruttati nelle vecchie democrazie occidentali – e, beninteso, nelle meno avvizzite «democrazie popolari», magari «con caratteristiche cinesi».
Annunciando la propria candidatura per Democratic Alliance («il partito dei bianchi») alle presidenziali di aprile, Mamphela Ramphele, la compagna del fondatore del Black Consciousness Movement Steve Biko (massacrato in cella dalla polizia nel 1977), ha dichiarato: «Credo che questa decisione sia nell’interesse del Sudafrica, mentre ci dirigiamo in acque turbolente». Nell’interesse del Sudafrica, ossia degli interessi capitalistici nazionali e sovranazionali (il Capitale non ha nazione!), è cosa certa; rimane da capire in che senso il Paese africano si dirige in «acque turbolente». Aspettarsi un nuovo democratico e multirazziale massacro di lavoratori, per piegarne «l’irresponsabile e antipatriottica» combattività, non è certo fuori luogo.
Per Franco Arato, professore dell’Università di Torino, Mandela è stato il protagonista della democratizzazione del Sudafrica. Tuttavia, «Il malcontento della popolazione, in particolare dei giovani è molto forte. Per evitare il radicalizzarsi di tale sentimento le nuove generazioni dovranno continuare a seguire l’esempio senza tempo di Madiba» (Limes, 15 dicembre 2013). Io spero invece che il proletariato sudafricano archivi in fretta la pratica Mandela, tutta interna al tempo del dominio capitalistico, per aprirne una nuova, interamente dedicata alla lotta di classe contro il Capitale (nazionale, internazionale, “bianco”, “nero”, democratico, autoritario), la sola lotta che può generare, in Sudafrica e ovunque nel mondo, il tempo della liberazione. A ben considerare, è il rapporto sociale capitalistico il vero regime di apartheid che ci tiene segregati in una dimensione che si fa sempre più disumana.
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