Nel suo interessante libro Utopie letali (Jaca Book, 2013) Carlo Formenti prende di mira le «utopie “di sinistra”», le quali secondo l’autore «hanno poco a che fare con l’utopia comunista che ancora spaventa il capitale» (p. 7). Tesi che mi sento di condividere pienamente, e che già spiega in qualche modo il giudizio di cui sopra. Non è mia intenzione soffermarmi su ogni tema toccato dall’autore (dal «divorzio fra democrazia e mercato» alle «sperimentazioni sociali» in atto in Americana Latina, soprattutto nella Venezuela di chávista, passando per la critica all’ideologia-prassi neoliberista, ecc.); qui mi limito a toccare solo alcune questioni poste nel libro.
Cerchiamo intanto di capire meglio quali sono «le utopie letali con cui polemizza questo libro»: «si tratta delle utopie di quelle sinistre “movimentistiche” postmoderne, postideologiche, postmateriali, postindustriali (l’elenco potrebbe andare avanti per pagine e pagine, ma ve le risparmio) che hanno sostituito le velleità rivoluzionarie con il sogno di un crollo indolore del capitalismo che dovrebbe essere provocato da improbabili mutazioni della psicologia e dell’antropologia individuali, oppure dalle lunghe marce per i nuovi diritti, o dall’invenzione di “terze vie” che ci proiettino oltre la dicotomia fra pubblico e privato, oppure da tutto questo assieme e da altro ancora.
La lista delle ideologie chiamate in causa è lunga e, apparentemente, eterogenea: neo e postoperaisti, neo anarchici, benecomunisti, girotondini, parte dei movimenti femministi, ecologisti e pacifisti; soggetti in cerca di riconoscimento identitario; entusiasti della democrazia di Rete; paladini dei nuovi diritti, ecc.». Chi segue il mio blog certamente avrà notato una certa assonanza tra ciò che scrive Formenti e le polemiche che assai più modestamente organizza chi scrive contro gli ottimisti della rivoluzione, quelli che gridano entusiasticamente Rivoluzione! a ogni sussulto – a volte perfino a ogni peto, con rispetto parlando – del processo sociale, nonché contro i teorici del post-tutto (o oltrismo: oltre Marx, oltre il Capitalismo, oltre la legge del valore, oltre la modernità, oltre il pubblico, oltre… l’oltre!), intellettuali di successo sempre alla nevrotica ricerca di «nuovi soggetti sociali» cui attribuire la pesante responsabilità di «nuova classe rivoluzionaria». Di qui, probabilmente, il loro imperituro successo come – sedicenti – avanguardie rivoluzionarie.
Sotto questo aspetto, di particolare interesse ho trovato la critica che Formenti rivolge ai teorici del cosiddetto Capitalismo cognitivo, Antonio Negri in testa, i quali «hanno occhio solo per il lavoro immateriale di knowledge workers» e «in particolare sostengono che oggi il general intellect non si oggettiva nel lavoro morto, cioè nel sistema delle macchine, bensì nella cooperazione sociale spontanea e nella produzione di “sapere vivo”. Per questo motivo, aggiungono, il lavoro vivo, pur dipendendo tuttora dall’impresa capitalistica nella sua attuale forma di rete, sarebbe in grado di auto-organizzarsi indipendentemente dal comando capitalistico […] Queste tesi esprimono un’incredibile sottovalutazione della capacità del nuovo sistema di macchine di sovra determinare non solo l’organizzazione, ma anche la stessa antropologia del lavoro» (p. 81). Comprensibilmente l’autore di Utopie letali si stupisce di come certi intellettualoni che dovrebbero conoscere a fondo il meccanismo capitalistico nell’epoca della sussunzione totalitaria di tutto e tutti al Capitale, prendono invece gigantesche cantonate quando si tratta di analizzare criticamente prassi sociali il cui significato va nel senso di un sempre più radicale, stringente, capillare e profondo dominio del rapporto sociale capitalistico. Rimandando il lettore alla critica dei teorici del Capitalismo 2.0 svolta in diversi post e nel mio Dacci oggi il nostro pane quotidiano, qui mi permetto di citare un passo di Cripto-moneta del comune e “acciarpature monetarie”:
«Per una bizzarria del pensiero che andrebbe indagata più a fondo, i teorici del bio-capitalismo cognitivo osservano una contraddizione in grado di far sviluppare forme economiche alternative incompatibili con lo sfruttamento del lavoro e con la ricerca del massimo profitto, là dove invece la contraddizione, che è immanente al concetto stesso di Capitale, attesta il continuo approfondimento del rapporto sociale capitalistico. Riformisticamente, essi rigettano l’ipotesi rivoluzionaria “classica” come unica via maestra in grado di superare con un movimento in avanti la contraddizione. La cosa si mostra con particolare evidenza a proposito del mitico general intellect, che in Marx ha una pregnanza concettuale potentemente dialettica (rivoluzionaria), mentre nei teorici di cui sopra esso svolge una funzione ideologica chiamata a supportare chimerici programmi comunardi da realizzarsi hic et nunc, nell’ambito stesso del Capitalismo, e intellettualistiche congetture intorno a supposti nuovi soggetti rivoluzionari […] Solo la Rivoluzione sociale è in grado di rovesciare dialetticamente la Potenza del Capitale, di assestare un colpo mortale ai vigenti rapporti sociali, i quali danno corpo a una prassi che rende sempre più possibile l’emancipazione integrale (materiale e “spirituale”) degli individui nello stesso momento in cui la nega sempre di nuovo nel modo più violento. Se non si comprende questo, 1. si rimane abbagliati dalla strapotenza del Capitale (per reagire alla quale l’ideologia degli ottimisti della “rivoluzione” offre sempre mille illusorie vie di fuga concettuali), 2. facilmente si nutrono bizzarre idee intorno a «questo tempo di algoritmi macchinici», 3. si cullano false – ancorché poco allettanti – speranze su «una possibilità per costruire un sistema monetario e finanziario alternativo, in grado di superare i nodi contraddittori e iniqui del capitalismo contemporaneo» (Fumagalli)».
Naturalmente condivido l’opzione decisamente rivoluzionaria che Formenti sembra avanzare quando sostiene che «il capitalismo non cade da solo, né possiamo illuderci che siano le richieste di diritti e riconoscimenti identitari a rovesciarlo». E come non condividere il suo invito, che colpisce in pieno «lo spontaneismo, l’orizzontalismo organizzativo e culturalista degli ultimi decenni», a «tornare a riflettere sull’idea di partito come organizzazione antagonistica degli interessi di classe, un concetto che va tuttavia adeguato alle attuali condizioni di frantumazione delle soggettività, inventando nuove forme organizzative e nuove procedure decisionali»?
Purtroppo tanto sul terreno squisitamente politico, il terreno appunto del partito di classe (o della classe che si fa partito, marxianamente e dialetticamente parlando), quanto su quello dell’associazionismo operaio e proletario genericamente inteso, siamo praticamente all’anno zero, perché le vecchie forme, anche quelle un tempo più adeguate a una prassi autenticamente rivoluzionaria, oggi non sono replicabili. Insomma, il nuovo Manifesto del Partito Comunista e il nuovo Che fare? aspettano ancora di essere scritti. Lo saranno?
Perché allora sopra ho scritto sembra? Perché avanzo forti dubbi intorno alla reale portata rivoluzionaria delle tesi elaborate da Formenti? Semplicemente perché non mi basta il pur generoso incitamento a «testimoniare la verità», a continuare a chiamare, contro il pensiero unico liberale-riformista, «le cose con il loro nome: lotta di classe, sfruttamento, comunismo, eccetera». Più che di nominare le cose, si tratta infatti di sviscerarne il contenuto, di precisarne il concetto. Per quanto mi riguarda possiamo chiamare il comunismo Pippo, purché si faccia chiarezza intorno alla sua sostanza concettuale, con ciò che ne segue sul piano dell’interpretazione storica e della prassi. Gli stalinisti di tutte le tendenze per decenni si sono riempiti la bocca di comunismo, lotta di classe, rivoluzione, dittatura proletaria e via di seguito blaterando, per riferirsi a concetti e a pratiche che giudico l’esatto opposto di quanto Marx e Lenin avevano elaborato e praticato. Anche – non solo – per non venir associato a questi ultrareazionari personaggi rifuggo da certe pompose autodefinizioni, e come Marx mi proclamo non marxista. Ma ritorniamo a Formenti.
«Le periodizzazioni sono sempre opinabili, ma resta un dato storico inconfutabile: a partire dai primi anni Ottanta, il filo rosso che corre dalla Comune di Parigi alla Rivoluzione d’Ottobre, proseguendo nel secondo dopoguerra con le lotte operaie in Occidente e con le guerre di liberazione in Asia, Africa e America Latina, si spezza definitivamente. La caduta del Muro di Berlino non ha fatto altro che calare il sipario su una tragedia che si era consumata da tempo» (p. 151). In questo caso la periodizzazione più che opinabile mi sembra del tutto infondata. Il filo rosso di cui parla Formenti si spezzò non «a partire dai primi anni Ottanta» del secolo scorso, in concomitanza con l’ascesa del thatcherismo, del reaganismo e – su una scala assai più modesta, diciamo casalinga – del craxismo, ma appunto con il trionfo dello stalinismo alla fine degli anni Venti. Lo stalinismo, lungi dall’essere stato la continuazione dell’Ottobre con altri mezzi, nelle mutate circostanze interne e internazionali, fu invece l’espressione-strumento: 1. della controrivoluzione capitalistica internazionale dopo l’ondata rivoluzionaria postbellica (vedi «biennio rosso» in Italia e in Germania), 2. dell’accumulazione capitalistica a ritmi accelerati in Russia e 3. della continuità imperialistica della Russia (di qui anche la scelta di promuovere innanzitutto l’industria pesante, a detrimento dell’industria dei beni di consumo e dell’agricoltura) dopo la brevissima parentesi rivoluzionaria.
Dal punto di vista del proletariato internazionale lo stalinismo fu una controrivoluzione, mentre dal punto di vista dello sviluppo capitalistico russo esso giocò una funzione storicamente progressiva. Com’è noto, nell’Ottobre ’17 Lenin tentò il Grande Azzardo per mettere il giovane proletariato russo all’avanguardia del movimento operaio internazionale, non certo per trasformare il suo partito in un eccezionale strumento al servizio dell’accumulazione capitalistica. Per questa triste bisogna, sarebbero bastati i menscevichi e i socialisti rivoluzionari, i quali infatti denunciarono il programma leniniano esposto nelle Tesi d’aprile come l’opera di un pazzo visionario. Per la verità, non pochi bolscevichi allora pensarono la stessa cosa, a dimostrazione di quanto sia difficile mantenere fermo il punto di vista di classe nelle grandi svolte della storia.
Mutatis mutandis, in Cina il maoismo rappresentò l’ala più radicale, e alla fine vincente, della rivoluzione nazionale-borghese basata sui contadini. La fragile natura proletaria del comunismo cinese evaporò alla fine degli anni Venti, anche grazie all’intervento di Mosca nella lotta di classe in Cina. Che il Partito di Mao si proclamasse “comunista”, come il cugino russo, può forse fare qualche differenza in sede di analisi storica? Certamente. Ma in questo senso: grazie allo stalinismo e alla sua variante cinese nel mondo è circolato un mito (o una balla speculativa) che con il socialismo non aveva nulla a che fare. E ne piangiamo ancora le conseguenze, come lo stesso Formenti conferma.
Il crollo del Muro di Berlino non ha dunque rappresentato «Il venir meno di qualsiasi alternativa – per quanto “nominale” – alla società capitalistica» (p. 68), ma piuttosto la ratifica della sconfitta subita dell’Unione Sovietica, Paese capitalistico/imperialista alla stessa stregua dei suoi avversari, nella competizione interimperialistica chiamata Guerra Fredda.
Sul post del 18 marzo scrivevo: «Nel definire il concetto di Guerra Fredda, Thomas L. Friedman mette avanti lo scontro ideologico fra due sistemi sociali alternativi, cosa che indusse Fukuyama, per la verità un po’ troppo in anticipo sui tempi, a dichiarare la fine della storia allorché uno dei due poli maggiori della contesa interimperialistica (quello cosiddetto Sovietico) crollò miseramente, e con una rapidità che allora sorprese solo chi ignorava la disastrata condizione dell’economia russa». Anche Formenti sembra prendere sul serio la tesi di Fukuyama, sebbene per affermare un atteggiamento politico di rivalsa nei confronti del «Capitalismo neoliberista» trionfante.
La «delegittimazione non solo di teorie, ideali e speranze, ma delle stesse parole che per un secolo e mezzo, dalla pubblicazione del Manifesto di Marx ed Engels alla fine del XX secolo, erano servite a nominarli», non si verifica, come sostiene il Nostro, nel 1989 e negli anni che videro il miserabile crollo dell’ex «Patria del Socialismo» (ancorché «reale»: sic!), ma ben prima, molto tempo prima, con la semplice esistenza di un «socialismo reale» in Russia, nei suoi «Paesi Fratelli», in Cina, in Vietnam, nella Corea del Nord, e così via.
A pagina 74, l’autore scrive che «fra i primi anni Sessanta e la metà degli anni Settanta del secolo scorso», in risposta alle trasformazioni intervenute nella struttura industriale del capitalismo avanzato, Renato Panzieri, Mario Tronti, Antonio Negri, Romano Alquati e altri intellettuali di sinistra andarono «all’assalto dell’ortodossia marxista del PCI». Ora, quella che Formenti definisce «ortodossia marxista del PCI» in realtà non fu che la variante italiana, diciamo togliattiana, dello stalinismo. Gran parte degli errori teorici di Negri si spiegano con il suo tentativo di colpire quello che negli anni Settanta egli definiva «il movimento operaio ufficiale» (il PCI di Togliatti-Longo-Berlinguer e la CGIL di Lama), concepito, erroneamente, come espressione della vecchia composizione di classe, superata dal Capitalismo «postmoderno», e non come movimento politico-sociale borghese tout court. La teorizzazione della Moltitudine e del «proletariato cognitivo» di oggi ha molto a che fare con la teorizzazione dell’«operaio sociale» di ieri.
Il novantenne (auguri miglioristi!) Macaluso ha ragione quando sostiene che il PCI non è morto con Renzi: «Il Pci non esiste più dal 1991, quando fu travolto dalle macerie del Muro crollato due anni prima». Il Partito Comunista d’Italia nato a Livorno nel ’21 morì invece con la sua stalinizzazione iniziata “diplomaticamente” da Gramsci* e continuata con mezzi più sbrigativi da Palmiro il Migliore. Insomma, la «sinistra storica», quella dedita all’«ortodossia marxista», gronda stalinismo da tutte le parti.
Ecco perché quando nell’Introduzione Formenti scrive che, «se si vuole gestire la transizione a una civiltà postcapitalista, occorre tornare a ragionare, con Gramsci, anche sul “farsi Stato” delle classi subordinate e sulla loro capacità egemonica», il consiglio giunge al mio orecchio con un suono assai sinistro. È la stessa sgradevole sensazione acustica che da ragazzino provavo quando taluni “comunisti radicali” parlavano di «dittatura del proletariato» e mi invitavano a leggere il Libretto Rosso di Mao, oppure Materialismo dialettico e materialismo storico di Stalin.
Se un rimprovero si deve dunque muovere alla «nuova sinistra», e per la verità allo stesso Formenti, è quello di non avere fatto i conti fino in fondo con lo stalinismo; non solo, ma di avere a un certo punto contrapposto a esso ideologie e “modelli sociali” che proprio nello stalinismo e nell’esperienza russa post-rivoluzionaria avevano la loro radice. Alludo ovviamente al maoismo e al “comunismo cinese”, in primo luogo, e poi al castrismo, al guevarismo e via di seguito. Lo stesso DNA politico-ideologico delle brigate rosse appartiene a quella cattiva storia (vedi, ad esempio, la loro mitologia resistenzialista intorno alla «rivoluzione tradita» dal PCI togliattiano), come peraltro hanno riconosciuto i politologi più competenti e meno organici alla tradizione “comunista”. Insomma, più che di utopie letali io parlerei, a questo proposito, di chimere letali.
* Scrive Giorgio Galli nella sua Storia del PCI (Bompiani, 1976) a proposito del Comitato esecutivo del partito comunista a guida gramsciana (1925): «Il linguaggio, che riecheggia quello dell’apparato staliniano che in quegli stessi mesi sta preparando il terreno per il XIV Congresso del partito che ormai controlla, corrisponde a un nuovo concetto per il quale i dirigenti in carica si identificano col partito. Quando infatti la sinistra osserva che se ha dovuto organizzarsi in corrente è perché gli organi del partito funzionano da centro di coordinazione della corrente gramsciana, tocca a Longo, dirigente della Federazione giovanile sino a pochi mesi prima su posizioni di sinistra e che ora svolge un ruolo di punta nella campagna contro Bordiga, replicare che, anche in fase congressuale, “vi deve essere una centrale che ordina e dei compagno costretti, dalla disciplina, a ubbidire”. […] Dunque, da nemico della Centrale, cioè del partito, l’oppositore [antistalinista] è già trasformato in “agente provocatore”. E alle parole seguono i provvedimenti disciplinari: nel giugno Ugo Girone viene espulso. […] Nello stesso mese di luglio Terracini viene arrestato, ma in agosto Togliatti, scarcerato per amnistia [sia da stalinista che da statista l’amnistia sarà per Palmiro una sorta di destino… ], torna a fianco di Gramsci per dirigere con lui la battaglia contro le superstiti velleità bordighiane. […] Alla presunta ragione che la Russia conferiva all’argomentazione di Gramsci, la grande maggioranza dello stato dirigente del Pci sacrificò il principio dell’esame critico, tollerando le falsificazioni e le sopraffazioni» (pp. 112-118).
La leggenda metropolitana del Gramsci antistalinista della prima ora è parte di quella vicenda segnata dall’accecamento ideologico, dalle falsificazioni più pacchiane e dalle sopraffazioni più odiose, in Italia come in Russia – vedi la tragica storia dei comunisti italiani che si rifugiarono in quella che credevano fosse la «Patria del socialismo» per sfuggire alla persecuzione fascista, salvo finire nella brace stalinista.
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