Sul Corriere della Sera di oggi Pierluigi Battista bastona da par suo i professionisti della «deriva autoritaria», i teorici di un supposto «decisionismo» che a cadenza regolare (il Ventennio naturalmente si presta meglio alla cosa) minaccerebbe di tracimare nel Fascismo. Inutile dire che per evitare al Paese anche solo l’ombra di una simile possibilità i cittadini sono chiamati dai sopradetti professionisti alla più attenta «vigilanza democratica» e alla più rigorosa «risposta democratica». Da concretare possibilmente alla prossima tornata elettorale. È anche abbastanza superfluo informare chi legge i miei modesti post che personalmente non ho alcuna intenzione né di “vigilare” né di “rispondere democraticamente”. Ma vediamo cosa ha scritto Battista.
«Difficile spiegare a uno straniero dell’Occidente liberaldemocratico che la fine del bicameralismo perfetto, fortunatamente sconosciuto nel suo Paese, sia visto in Italia come l’anticamera di una mostruosa “deriva autoritaria”. O che un ragionevole rafforzamento dei poteri del capo del governo sia il primo passo dello sprofondamento negli abissi di un regime antidemocratico. O che l’abolizione delle Province sia l’avvio di una ipercentralizzazione tirannica dello Stato che soffoca ogni autonomia locale. Difficile spiegare i vibranti appelli contro la riforma radicale del Senato, la psicosi di una cultura così impaurita e paralizzata dallo spettro del “regime autoritario”, da vedere pericoli di dispotismo in riforme istituzionali che altrove, all’interno di democrazie consolidate e sicure di sé, appaiono semplicemente normali […] Con il tempo si è sedimentata una distorsione conservatrice con connotati quasi religiosi di omaggio e venerazione del testo costituzionale (“la Costituzione più bella del mondo”), una mistica e una sacralizzazione dello status quo che hanno portato alla scomunica tutti quegli esponenti politici (da Fanfani a Craxi, da Cossiga a D’Alema, da Berlusconi fino allo stesso Matteo Renzi) che si sono impegnati in un modo o nell’altro nella proposta di riformare le nostre istituzioni. “Deriva autoritaria” è stata la formula magica di questa scomunica. Non la discussione sui singoli punti delle riforme, ogni volta opinabili e migliorabili, ma l’idea stessa che si possa ritoccare in una direzione più vicina al resto delle democrazie occidentali il nostro assetto istituzionale. Modificare la Costituzione è diventato “stravolgere la Costituzione”. Ogni riforma “un attentato alla democrazia”. Ogni semplificazione un annuncio di pericoloso “autoritarismo”. Un pregiudizio difficile da superare. Gli accorati appelli di questi giorni ne sono una testimonianza» (Il complesso del tiranno).
Battista ha dimenticato di citare un’altra ricorrente nonché sanguinosa accusa rivolta dai professionisti della deriva autoritaria ai “decisionisti” di turno: «Qui si cerca di attuare il progetto della P2». Che scandalo! Io la famigerata Loggia gelliana me la ricordo benissimo: si trattava di una classica associazione lobbistica polifunzionale, per così dire, che l’arretrata struttura politico-istituzionale del Bel Paese e la gesuitica ideologia “cattocomunista” costringevano alla segretezza. Naturalmente «segretezza» per modo di dire. Più che segreta la P2 era informale. Di qui, la necessità delle riforme istituzionali e strutturali! In effetti, giacciono da anni in Parlamento numerosi disegni di legge che prevedono la regolamentazione dell’attività lobbistica, una prassi che può suonare scandalosa solo nella vecchia – e ipocrita – Italia, la patria del si fa ma non si dice.
Luca Casarini, ex leader delle “tute bianche” e oggi candidato a un seggio nel Parlamento europeo con la lista Tsipras, ieri ha detto a Piazza Pulita che Renzi è solo un «cavallo di Troika»: le riforme costituzionali presentate dal suo governo non sarebbero che la risposta ai diktat dei poteri forti mondiali, i quali avrebbero tutto da guadagnare da un assetto più «decisionista» delle nostre istituzioni. Il renziano Sandro Gozi ha risposto ricordando al diversamente sinistrorso che sono almeno trent’anni che politici, politologi, giuristi e costituzionalisti discutono intorno alla «impellente necessità» di quelle riforme. «Abbiamo già discusso. Adesso dobbiamo fare».
Scrivevo giusto qualche giorno fa a proposito di Guido Carli e di Ignazio Visco: «Nel 1973 avevo undici anni, e sto invecchiando ascoltando sempre di nuovo quel mantra: bisogna tagliare lacci e lacciuoli! Scherzi a parte, quando Renzi (e prima di lui Letta, Monti e Berlusconi) dice che “dobbiamo cambiare verso non perché ce lo chiede l’Europa, ma perché ce lo chiede l’Italia”, egli ha perfettamente ragione, perché interamente italiche, nonché annose in un modo che tende al parossismo, sono le magagne strutturali (economiche, politiche, istituzionali, culturali, ecc.) del capitalismo italiano. Alla lunga (diciamo pure alla lunghissima), le vecchie strategie di politica economica volte a generare l’espansione, o quantomeno la sopravvivenza, del Made in Italy (si pensi alle svalutazioni competitive, oggi non più possibili, o al «moltiplicatore» keynesiano basato sulla spesa pubblica) bypassando la necessità delle radicali, e socialmente costose, ristrutturazioni tecnologiche e organizzative delle aziende hanno mostrato la corda. La signora Camusso e i suoi colleghi sindacalisti sono furiosi nei confronti delle dichiarazioni di Visco non perché hanno a cuore gli interessi dei lavoratori, ma perché temono di perdere il loro potere politico di collaborazione/interdizione. Sulle italiche magagne (basti pensare al divario Nord-Sud e al “sistema di potere” meridionale che su esso ha lucrato) si sono radicate forti rendite di posizione» (Il capitale italiano guarda sempre più a Est).
Ma davvero oggi «La democrazia repubblicana è in pericolo», come recita il titolo del post di apertura del blog di Beppe Grillo? Davvero essa, strangolata dai famigerati mercati e dagli gnomi del liberismo più cinico e selvaggio, ha bisogno del soccorso popolare? Personalmente non la penso così. Solo chi in passato si è fatto delle illusioni intorno al “libero gioco democratico” oggi può credere, sbagliando, che il voto dei cittadini non conta più, mentre ieri invece esso contava, eccome, nelle decisioni politiche dei governi. Uno dei più celebri professionisti della «deriva autoritaria», Stefano Rodotà *, già agli inizi degli anni Ottanta lamentava la trasformazione del Parlamento in un «votificio» .
La crisi economica e politica che ha investito l’Italia e l’Europa ha semplicemente reso evidente una verità prima celata sotto uno spesso velo ideologico: la democrazia sancisce l’impotenza sociale delle classi dominate, chiamate ogni tot anni a “scegliere” i funzionari del Leviatano messo a guardia degli odierni rapporti sociali. Il tanto discusso “commissariamento” della politica è la continuazione della democrazia con altri mezzi, così come, mutatis mutandis, la Repubblica nata dalla Resistenza si è data come la continuazione del Fascismo con altri mezzi, in un contesto nazionale e internazionale mutato dalla Seconda carneficina mondiale. Dalla mia prospettiva, populisti (di “destra” e di “sinistra”), demagoghi e “seri democratici” si agitano sullo stesso ultrareazionario terreno: quello della conservazione sociale.
Oggi il “populista” Grillo denuncia «la concezione plebiscitaria della democrazia, comune a Renzi e Berlusconi» probabilmente perché il “dinamismo decisionista” del Premier rischia di rodergli la base elettorale. Così, il guru-comico genovese trova comodo afferrare l’epiteto di fascista che i progressisti gli hanno tirato addosso senza complimenti nei mesi scorsi per scagliarlo contro il rivale. Che noia che barba questa Miserabilandia!
* Solo in questo momento apprendo quanto segue:
«In una autorevole intervista rilasciata oggi sul Fatto Quotidiano, l’autorevole professore Stefano Rodotà, nei panni del costituzionalista, pur non essendo un costituzionalista, si scaglia nuovamente contro l’autoritaria riforma costituzionale proposta dal tiranno di Firenze, Matteo Renzi. Senso della polemica: questa riforma non si deve fare perché troppo modificativa degli equilibri costituzionali. Vergogna! Vergogna! A quanto pare, però, come ricordato poco fa dal professor Stefano Ceccanti, lo stesso Rodotà, appena alcuni anni fa, tà-tà-tà, era più riformista del tiranno di Firenze. Proponendo addirittura la – orrore! – soluzione ultra giacobina del monocameralismo secco. Vergogna! Qui il testo dell’ottima riforma proposta da Rodotà, che a questo punto suggeriamo ai parlamentari a cinque stelle, e anche a quelli democratici, di presentare anche in alternativa al testo del governo. Tà-tà-tà» (Claudio Cerasa, Rodotà come Renzi: nel 1985 voleva abolire il Senato, Il Foglio, 1 aprile 2014).
Abolire il Senato ha un senso (Rodotà). Abolirlo ma non troppo no (Renzi).
Su Facebook F. commenta come segue a proposito della proposta di Rodotà del 1985 :
Sebastiano a quanto pare usi strumentalmente questa notizia sottacendo il discorso più complesso e coerente che Rodotà sviluppa. Mostri un limite enorme e una visione piccola piccola.
La mia risposta:
Ti ringrazio per la stima. Ma è proprio «il discorso più complesso e coerente che Rodotà sviluppa» che personalmente trovo ultrareazionario. Nel mio piccolo piccolo, s’intende. Ciao e buona (possibilmente democratica e legalitaria) giornata!
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