HUMANITAS

rinascimento-1La nuova umanità è l’umanità da sempre
cercata e infine scoperta, non un’umanità perfetta.

Homo sum?

Homo sum, humani nihil a me alienum puto: in quanto uomo, nulla di umano mi può essere estraneo. Si prenda per buona questa traduzione ad opera di un ignorante – anche – in fatto di lingua latina. La prima volta che lessi la celebre frase di Publio Terenzio Afro risale a molto tempo fa, quando ancora ragazzino iniziai a frequentare Casa Marx attraverso le Opere Marx-Engels pubblicate dagli Editori Riuniti.

Nell’aprile del 1865 le figlie del Moro sottoposero l’affettuosissimo padre a un gioco molto popolare nell’Inghilterra Vittoriana: Confession. Si trattava di sondare le preferenze letterarie, estetiche, etiche e quant’altro di amici, genitori e parenti. Nella lista delle cose, dei nomi, dei colori, dei poeti, degli eroi ecc. preferiti, alla voce massima preferita Marx scrisse appunto la frase di Terenzio. Per la curiosità del lettore, il colore preferito dal comunista tedesco era il rosso. Quando si dice il destino. Motto preferito: De omnibus dubitandum. Quando si dice «filosofia del sospetto»…

Mi sono imbattuto nella massima terenziana qualche settima fa, in occasione di una conferenza intorno ai Sette vizi capitali tenuta da uno psicologo napoletano, il quale, se devo essere sincero, si è dimostrato più abile nell’oratoria (per tacere della godibilissima inflessione dialettale che lo rendeva più simile a un attore comico che a uno scienziato dell’animo umano) che profondo. Alla fine sono andato a casa con la sensazione di non aver imparato nulla di nuovo ma di essermi divertito. Comunque sia, quando è giunto il momento di trattare l’invidia (ahi!), il simpatico conferenziere ha infilato nel discorso anche la massima di cui trattiamo, declinandola concettualmente nell’accezione mainstream che essa ha assunto col tempo.

Com’è noto, Homo sum, humani nihil a me alienum puto può avere almeno due declinazioni semantiche: una certa, ossia basata sul testo dal quale la frase è estrapolata, l’altra piuttosto dubbia, forse perfino forzata, e comunque non appare radicata in quel testo. Paradossalmente, la declinazione dubbia/forzata ha avuto più successo di quella certa. Tuttavia il paradosso si spiega benissimo, e la fugace allusione ai vizi capitali già è sufficiente a metterci sulla buona strada.

La declinazione certa dice: Nella misura in cui ho una natura umana, i fatti che riguardano l’uomo, non solo il generico e astratto uomo ma anche l’individuo particolare che non conosco, o conosco solo superficialmente, mi toccano personalmente e anche a un certo grado di intimità affettiva e psicologica. È in sostanza quanto l’attempato Cremète, un personaggio della commedia Il punitore di se stesso di Terenzio (1), obietta appunto al giovane Menedemo quando questi lo invita, in buona sostanza, a farsi i fatti suoi:

Cremète
È vero che noi ci conosciamo da poco, cioè da quando hai comprato un fondo qui presso, e che tra noi non c’è mai stato dell’altro, però tu sei un galantuomo e noi siamo vicini, e per me la vicinanza è prossima all’amicizia. Tutto questo mi induce a darti francamente e familiarmente dei consigli.
Menedemo
O Cremète, i tuoi affari ti lasciano bel tempo, eh?, e così puoi impicciarti negli affari altrui e in ciò che non ti riguarda.
Cremète
Uomo sono. Nulla di ciò che è umano mi è estraneo, io dico.

Ciò che muove Cremète non è insomma il desiderio di impicciarsi dei fatti altrui, ma piuttosto un senso di umanità che gli fa considerare come amico anche un perfetto estraneo. La sostanza umana comune a tutti gli individui: questo legittima l’interesse di Cremète circa i problemi di Menedemo, che invece fa valere le prosaiche regole della convivenza basate sull’esperienza, la quale in effetti costringe gli uomini a diffidare dei loro simili, a fidarsi solo degli amici di provata dedizione. L’humanitas del “filosofo” Cremète suona fin troppo sospetta all’orecchio realistico di Menedemo: essa non è pane per i suoi denti, i quali evidentemente sono avvezzi a masticare sostanze meno nobili dal punto di vista umano.

La declinazione dubbia/forzata dice: In quanto uomo, nulla dei sentimenti e delle umane inclinazioni mi è estraneo. Ovvero: Sono uomo nel bene come nel male, con le mie virtù e con le mie miserie, e non posso che prenderne atto. Naturalmente si invitano anche gli altri a prenderne atto, possibilmente con indulgenza, perché la perfezione non è di questo mondo, e perché tutti ci muoviamo nel regno dell’imperfezione. «Chi sei tu per giudicare me?» In effetti, qui l’humanitas diventa sinonimo di imperfezione, di mancanza, di debolezza e di altre qualità negative, o umanissime, per dirla con Nietzsche. Umano, fin troppo umano! Come d’altra parte umanissima è l’immagine di Dio che gli individui hanno plasmato e riplasmato sempre di nuovo nel corso dei millenni.

Ora, fino a che punto la condizione degli individui si può considerare umana? E come va declinato il concetto di umanità? E poi, ha senso oggi porre una simile radicale (perché «la radice è l’uomo») questione? Ho dedicato a questo scottante tema due miei modesti lavori scaricabili da questo sito: Eutanasia del Dominio (2008) e L’Angelo Nero sfida il Dominio (2011), ai quali rimando per un maggior approfondimento della “problematica”.

floris_frans_501_banquet_of_the_godsPerfettismo e umanità

Scrive l’antiutopista Alberto Mingardi ne L’intelligenza del denaro: «Per Ricossa, il mito dell’età dell’oro è alla radice di tutti i perfettismi, di tutti i tentativi di realizzare il regno dei cieli sulla terra» (2). Ovviamente il cosiddetto «socialismo reale» è chiamato in causa come prova regina dell’assunto antiutopistico: «Sicuramente non erano “società di eguali” gli esperimenti storici che più hanno insistito sulla necessità di superare le intollerabili diseguaglianze cagionate dal capitalismo di mercato. Pensiamo alla Russia sovietica». O alla Cina di Mao, mi permetto di aggiungere. E già che ci sono, aggiungo quest’altra piccolissima precisazione: né la Russia di Stalin né la Cina di Mao ebbero mai a che fare con «l’utopia comunista», trattandosi di «esperimenti storici» che si dispiegarono e si esaurirono interamente dentro la dimensione capitalistica. Naturalmente il “comunista” di osservanza stalinista/maoista nemmeno sotto tortura converrà con la mia “astrusa” tesi, e contro Mingardi, e soprattutto contro chi scrive, egli si arrampicherà malamente sugli specchi dell’umana imperfezione, dell’inevitabile distanza che corre tra la teoria e la prassi, tra il sogno e la realtà, insomma sugli scivolosissimi specchi del miserabile «socialismo reale». Fortunatamente posso vantare il “privilegio” di non aver mai dovuto cimentarmi in quella disdicevole – qui l’eufemismo è d’obbligo! – impresa. Ma ritorniamo a Mingardi.

«Per la maggior parte di noi, vivere meglio è preferibile che vivere peggio. Vivere meglio significa, astrattamente, farlo in modo più confortevole. In pratica, è acquistare un iPad piuttosto che un’automobile o una lavatrice. Quando una persona compra una di queste cose, dimostra di ritenere che la sua vita sarebbe migliore avendo l’oggetto desiderato a propria disposizione» (p. 49). Non c’è dubbio. Ma qui siamo alla superficie della realtà, che il nostro scienziato sociale accetta in modo volgare/apologetico nell’accezione marxiana del concetto. Tanto per cominciare, le persone non comprano «cose» ma merci, la cui esistenza presuppone e pone sempre di nuovo peculiari rapporti sociali di dominio e di sfruttamento (oggi di portata mondiale), presuppone e pone tutto un mondo teoretico e pratico, “spirituale” e “materiale”, un mondo che ha avuto una genesi storica e che può dunque avere una fine – perché ciò che ha avuto un inizio porta con sé la possibilità della propria fine. Il mondo di cui parlo si chiama naturalmente Capitalismo, la cui odierna dimensione planetaria è quella più adeguata al suo concetto e alla sua prassi.

È solo all’interno di questa dimensione esistenziale e concettuale che, a mio avviso, il truismo di cui sopra acquista significato e prospettiva storica. Non esiste un astratto «vivere meglio», né un astratto desiderare, e solo chi nega l’evidenza di una società sempre più sottoposta alle ferree leggi del profitto può sorvolare sul contenuto storico e sociale dei concetti che adopera per descrivere i fenomeni sociali. Più in generale, ogni discorso politico, storico, sociologico e filosofico che prescinde dalla struttura classista della vigente società necessariamente diventa ideologico, e perfino apologetico dello status quo sociale.

Scriveva Nietzsche nel già evocato testo: «Ma il filosofo vede nell’uomo attuale “istinti”, e presume che questi faccian parte dei fatti immutabili dell’uomo e possano pertanto fornire una chiave per la comprensione del mondo in generale; l’intera teleologia si basa sul fatto che si parla dell’uomo degli ultimi quattromila anni come di un uomo eterno, verso il quale convergono naturalmente, sin dal loro inizio, tutte le cose del mondo. Ma tutto si è fatto: non esistono fatti eterni, come non esistono verità assolute. Perciò, da ora in poi, è necessario il filosofare storico e, con esso, la virtù della modestia» (3). Se sulla modestia di Marx non scommetterei nemmeno un centesimo («Homo sum, humani nihil a me alienum puto»), sono invece disposto a puntare quel poco che ho sulla sua capacità di «filosofare storico». All’ubriacone germanico devo infatti il concetto di storicità dei bisogni e dei desideri umani, e del modo in cui essi sono stati di volta in volta soddisfatti. L’uomo vive interamente in una dimensione storica (natura compresa), e prescindere da questo fatto, in sé né positivo né negativo (ma certamente problematico, come dimostrano gli ultimi cinquemila anni), significa rimanere alla superficie (direi alla schiuma) della prassi sociale.

La conseguenza teoretica di ciò la possiamo apprezzare nei passi che seguono: «Esistono anche gli asceti, per carità. Ma, per la gran parte delle persone avere una vita marginalmente migliore (più confortevole, meno faticosa, con maggiori opzioni di scelta) è preferibile ad avere una vita marginalmente peggiore (meno confortevole, più faticosa, con un più ristretto ventaglio di scelte)» (p. 50). Qui è ribadita la concezione apologetica di Mingardi (a partire dal gergo economico: «marginalmente»), il quale non riesce neanche a immaginare un mondo senza merci, senza denaro, senza mercati, senza lavoro salariato e senza… asceti. Per chi scrive, non si tratta di non consumare merci a rapporti sociali immutati, ma di distruggere questi stessi rapporti sociali – perché disumani. Né si tratta di contestare sul mero piano etico/morale «l’avanzare della società di mercato [perché] porterebbe con sé la corruzione morale», la quale «coincide con la “mercificazione” di relazioni e rapporti fra persone», come dice il nostro tentando di ridicolizzare «gli «asceti» (i quali peraltro fanno di tutto per subire un simile trattamento, occorre dirlo). La disumanizzazione degli individui, di tutti gli individui, ad opera del vigente meccanismo sociale è un processo così profondo, capillare, invasivo, aggressivo e soprattutto “naturale”, ossia immanente ai rapporti sociali capitalistici, che il concetto di «corruzione morale» appare quantomeno impotente ad afferrare la cosa. Non a caso tale concetto si colloca al centro di molte ideologie reazionarie di “destra” e di “sinistra”, nonché al cuore delle religioni monoteiste. Il mondo non è corrotto dal Capitale, qui colto in ogni sua fenomenologia (merce, denaro, salario e via di seguito): esso è piuttosto creato tutti i santi giorni a immagine e somiglianza della Potenza sociale che tutto e tutti domina.

È questa essenziale (radicale) mancanza di potere sulla nostra vita che ci rende non liberi, almeno per ciò che riguarda gli aspetti più importanti e decisivi della nostra esistenza; di qui il concetto di non-ancora-uomo chiamato a informare una lettura pienamente storica e sociale (fuori da ogni essenzialismo antropologico) della nostra attuale e potenziale condizione su questo pianeta. Lo spazio, per mutuare un fondamentale concetto schmittiano, più che Grande (Grossraum), dovrebbe essere umano: è la mia personalissima concezione “esistenzialista” del Potere. Chiedo forse di sottoporre al trattamento umano l’intero spazio esistenziale degli individui nel seno della società disumana? Nemmeno per idea. Il mio è un punto di vista utopistico, non chimerico. Qui Utopia vale come luogo che ancora non esiste, semplicemente perché nessuno l’ha creato, ma che potrebbe esistere. L’Utopia di cui parlo è dunque una possibilità radicata nell’attualità, nella vigenza del Dominio (4).

Evidentemente l’opzione di scelta del consumatore-cliente è la sola “libertà” che taluni riescono a concepire. Ma a ben considerare, mai la merce ha sfamato un solo uomo su questa terra.

«Su internet ci si può comprare una bambola gonfiabile, ma non la stima e l’affetto di una compagna per la vita. Il rispetto delle persone che ci sono care si guadagna con i comportamenti, non con le mance. È difficile farsi degli amici degni di questo nome, anche se si offre costantemente a tutti la cena. E così via. Tuttavia, con il nostro macellaio, con il nostro sarto, anche con il nostro medico e con l’insegnante che dà ripetizione a nostra figlia, abbiamo un rapporto diverso da quello che vorremmo avere con le persone di cui siamo innamorati» (p. 51). E chi può mettere seriamente in questione tutto questo? Si tratta solo di aggiungere il seguente dettaglio: nel Capitalismo le cose non possono andare diversamente. Di più: il rapporto capitalistico che rende possibile la nostra esistenza materiale e sociale (vedi «il nostro macellaio», «il nostro sarto», «il nostro medico» ecc.) penetra intimamente anche nella nostra sfera affettiva, la quale non può certo dirsi al riparo dalla generale reificazione e alienazione che travaglia gli individui. Tutt’altro!

«In un’economia completamente assorbita dalla vendita di merci, la frammentazione della psiche in una molteplicità di personalità non fa che aumentare il numero dei potenziali clienti. […] L’uomo è coinvolto di continuo in processi di trasformazione che alterano il suo stato, trasformandolo in qualcosa o qualcun altro. […] L’uomo sospende la propria incredulità e recita una parte: la parola persona deriva da un termine latino che significa “maschera”» (5). Se questo è un uomo, verrebbe da dire.

Se uno vuole farsi un’idea abbastanza precisa e realistica di ciò che oggi è il cosiddetto uomo medio (e quindi incluso chi scrive ed escluso chi legge: così non offendo nessuno!), che una volta George Orwell definì ironicamente (in disputa concettuale con Gandhi) «un santo fallito», non ha che da guardare la pubblicità. Come ci immagina e ci rappresenta il marketing pubblicitario, compreso quello politico, così siamo. Forse più di ogni altra scienza sociale il marketing ha sviluppato, per ragioni facilmente comprensibili, la capacità di penetrare nell’intima struttura psicologico-emotiva degli individui, non solo per comprenderla, ma soprattutto per cercare di volgerla a proprio profitto – e qui il termine acquista un significato davvero pregnante. Parlando con ironia di «”mercificazione”» Mingardi evoca un Moloch che egli non vede semplicemente perché gli è troppo vicino, di più: ha la sua – che poi è anche la nostra – stessa sostanza (6).

Per quanto mi riguarda, non avanzo la pretesa, smentita e derisa mille volte dalla storia, di fondare la Comunità Perfetta, come insinuano con ingenua malignità i critici del pensiero utopistico, i tristi sacerdoti della Realpolitik e gli insulsi teorici del male minore («perché il meglio è nemico del bene», e «chi troppo vuole nulla ottiene»). Com’è noto, la perfezione non è di questo mondo e, d’altra parte, come insegnano le Utopie scritte negli ultimi millecinquecento anni quello di perfezione è un concetto assai mutevole, anch’esso bisognoso del trattamento storico. Si tratta piuttosto e “semplicemente” di costruire la Comunità Umana, la cui premessa fondamentale sta nel superamento dell’odierna formazione storico-sociale, disumana a cagione della sua radice storico-sociale, della sua legge di sviluppo (fondata sullo sfruttamento del «capitale umano»), non a causa della cattiva volontà delle classi dominanti.

La nuova umanità agognata in ogni tempo è l’umanità da sempre cercata e infine scoperta, non un’umanità perfetta. L’umanità sta alla perfezione come l’utopia ben concepita sta alla chimera. Proprio perché non ho mai dato alcun credito alla colossale menzogna del «socialismo reale» (un reale Capitalismo spacciato per qualcosa di più presentabile e accettabile) non avverto alcun disagio nel porre al centro della mia riflessione critica sul mondo la tensione dialettica fra Dominio e Liberazione.

«Nella Prefazione al suo libro L’idea di giustizia, Amartya Sen, premio Nobel per l’Economia nel 1998, precisa il metodo con il quale ha trattato la questione sulla quale ha inteso discettare, nonché gli obiettivi che si propone di raggiungere. Nelle prime righe della stessa dà per assodato che la seguente proposizione risponda ad una verità o, meglio, che risponda ad una verità logica: “Ciò che ci tocca non è, cosa piuttosto logica, la constatazione che il mondo è lungi dall’essere totalmente giusto – ben pochi di noi lo pretendono – ma il fatto che esistono ingiustizie palesemente risolvibili, a cui desideriamo porre rimedio”» (7). Io non sono così filosoficamente ingenuo e politicamente indigente da pretendere un mondo «totalmente giusto», senza peraltro entrare qui nel merito dell’ambiguo concetto di giustizia. Mi batto piuttosto per un mondo totalmente umano, umano dalla testa ai piedi, per così dire. La risoluzione delle «ingiustizie palesemente risolvibili» la lascio volentieri al riformatore sociale, ai buoni di spirito, a chi desidera mitigare i rigori del Dominio, a chi crede nella menzogna del Capitalismo dal volto umano.

Adamo_ed_EvaErrare humanum est

Nella società capitalisticamente avanzata dei nostri tempi l’individualità sopravvive più che altro allo stato residuale, e il più delle volte assume le forme negative di un errore («errore umano»), di un incidente di percorso, di una bizzarria, di un fuor d’opera, di un’anomalia che occorre rapidamente correggere o eliminare per non inceppare il meccanismo. Sotto questo aspetto ogni errore umano, anche quello più odioso e sanguinoso, quello pregno di nefaste conseguenze, più che meritare il nostro perdono, come suggeriva Livio nelle sue Storie (VIII, 35), merita piuttosto la nostra riflessione critica, il nostro sforzo teso a coglierlo nella sua essenza (8).

La personalità, quando è vera, oggi è un mero «fattore frenante», come, analogamente, lo fu ai tempi della transizione dal lavoro artigianale alla manifattura e poi al macchinismo il produttore-artigiano, ricco di qualità professionali ma inadeguato alle nuove esigenze capitalistiche. Sono le ideologie alla moda e il marketing che dettano, classe sociale per classe sociale, strato sociale per strato sociale (professione, cultura, religione, orientamento politico e sessuale, ecc.) il corretto standard di “personalità”, e gli individui fanno di tutto per attenervisi, per non rimanere tagliati fuori dalla competizione universale (economica, sociale in senso lato, affettiva, psicologica e quant’altro). E così possiamo assistere al paradosso per cui più si è lontani dal punto gravitazionale del dominio, più la sua forza di attrazione si fa debole in corrispondenza della periferia del sistema sociale, e maggiore è l’angoscia degli individui, più forte e doloroso il loro senso di esclusione, più impellente il bisogno di ritornare al centro del sistema, a recitare insieme a tutti gli altri individui socialmente abili «lo spettacolo della vita». E si capisce perché: la sopravvivenza del sistema sociale disumano coincide con la sopravvivenza dell’individuo, almeno fino a quando una rivoluzione sociale non viene a spazzare via il primo dalla faccia della Terra. Non siamo forse tutti «sulla stessa barca»? E difatti l’insegna Anseatica proclamava: navigare necesse est, vivere non necesse. Mutuando Seneca diciamo che ciò che ci turba non è tanto la tempesta, quanto il mal di mare della gente, la quale soffre e vomita con uno stoicismo degno di miglior causa. Purtroppo l’istinto di sopravvivenza è alleato del Dominio («la sopravvivenza dell’individuo presuppone il suo adattamento alle esigenze del sistema che vuol perpetuare se stesso») (9), e solo nelle guerre, quando la vita stessa è minacciata da vicino, esso è disposto a seguire le forze del progresso storico. A patto che queste forze prendano chiaramente corpo e indichino alla vita minacciata «la strada che mena alla salvezza».

«Non è, così pare, ancor tempo che a tutti gli uomini possa accadere come a quei pastori che videro rischiararsi il cielo su di loro e udirono le parole: “Pace in terra, e agli uomini un compiacersi gli uni negli altri”» (10). Ma perché non agire affinché quel tempo finalmente giunga? Dopo tutto, il miracolo dell’umanizzazione si dà nella storia, la quale è notoriamente un prodotto umano, umanissimo. Il tempo della liberazione non viene, dev’essere piuttosto generato.

(1) Formato PDF: www.hardwaregame.it.
(2) A. Mingardi, L’intelligenza del denaro, p. 190, Marsilio, 2013. Il libro di Ricossa è La fine dell’economia. Saggio sulla perfezione (1986), Rubettino-Facco, 2006.
(3) F. Nietzsche, Umano, troppo umano, I, p. 42, Newton Compton, 1988.
(4) «Nelle più acute crisi sociali, soprattutto nelle guerre mondiali, possiamo osservare fisicamente l’esplodere dell’enorme energia che si accumula nel cozzare delle “faglie” temporali (il futuro preme contro il presente). Per questo cresce il dolore e il disagio in coloro che riflettono sulla cattiva condizione umana, e non riescono proprio a mandar giù la maledizione per cui gli individui non riescono a venir fuori dal cerchio stregato della disumanità (la società che attribuisce valore solo a ciò che si può vendere con profitto: uomini, cose, idee, emozioni, ecc.) quando la tecnologia, la scienza, le informazioni e le capacità organizzative permetterebbero a tutti, già oggi, una vita felice, un’esistenza non sottoposta all’imperio delle totalitarie esigenze economiche, non dilaniata dalla competizione universale per la conquista di una fetta della torta, di un “posto al sole” (in fabbrica, in ufficio, tra gli amici, nel mondo, ovunque), in una sola parola: un’esistenza umana. “Sapersi come un frutto appeso all’albero, che non potrà mai maturare per la troppa ombra e vedere, vicinissimo, il sole che ci manca” (Nietzsche): è ciò che chiamo, senza enfasi né “pathos rivoluzionario” ma con asciutto realismo, la tragedia dei nostri tempi» (Eutanasia del Dominio).
(5) J. Rifkin, L’era dell’accesso, pp. 284-285, Mondadori, 2000).
(6) È a questa altezza analitica che il concetto adorniano di composizione organica dell’individuo, elaborato dal filosofo tedesco in analogia al noto concetto marxiano di composizione organica del capitale, “gira” a pieno regime: «Novissimum organum. È stato dimostrato da tempo che il lavoro salariato ha foggiato le masse dell’età moderna, e ha prodotto l’operaio come tale. In generale, l’individuo non è solo il sostrato biologico, ma – nello stesso tempo – la forma riflessa del processo sociale, e la sua coscienza di se stesso come un essente-in-sé è l’apparenza di cui ha bisogno per intensificare la propria produttività, mentre di fatto l’individuo, nell’economia moderna, funge da semplice agente del valore … Decisiva, nella fase attuale, è la categoria della composizione organica del capitale. Con questa espressione la teoria dell’accumulazione intendeva “l’aumento della massa dei mezzi di produzione a paragone della massa della forza-lavoro che li anima”. Quando l’integrazione della società, soprattutto negli stati totalitari, determina i soggetti, sempre più esclusivamente, come momenti parziali nel contesto della produzione materiale, la “modificazione nella composizione organica del capitale” si continua negli individui. Cresce così, la composizione organica dell’uomo … La tesi corrente della “meccanizzazione” dell’uomo è ingannevole, in quanto concepisce l’uomo come ente statico, sottoposto a certe deformazioni ad opera di un “influsso” esterno, e attraverso l’adattamento a condizioni di produzione esterne al suo essere. In realtà, non c’è nessun sostrato di queste “deformazioni”, non c’è un’interiorità sostanziale, su cui opererebbero – dall’esterno – determinati meccanismo sociali: la deformazione non è una malattia che colpisce gli uomini, ma è la malattia della società, che produce i suoi figli come la proiezione biologistica vuole che li produca la natura: e cioè “gravandoli di tare ereditarie”» (T. W. Adorno, Minima moralia, p. 278, Einaudi, 1994). Sotto questo aspetto, l’operaio chapliniano di Tempi moderni è ben al di sotto della verità, non è adeguato né al concetto né, soprattutto, alla prassi della composizione organica umana.
(7) Valeria Gaudi, Delirio follissimo (da integrare).
(8) Un tentativo in questo senso lo troviamo in Nietzsche: «Il nostro delitto nei confronti dei delinquenti consiste nel fatto che li trattiamo da mascalzoni. […] Infatti, la colpa, seppure ve ne fosse una, non viene punita: essa è negli educatori, nei genitori, nell’ambiente, in noi, non nell’assassino – intendo le circostanze che lo hanno portato a uccidere» (Umano, troppo umano, I, pp.83-84). Per questo su un breve post dedicato al carcere scrivevo: «A ben considerare, “sbagliata”, ossia disumana, irrazionale, violenta, non è la condotta del reo, ma la società che ci mette tutti nelle condizioni di “sbagliare”, e che comunque ci confina tutti dentro una dimensione esistenziale ostile all’autentico concetto di dignità umana, semplicemente perché la sua prassi orientata al massimo profitto (e non solo in un’accezione economica) ci toglie dalle mani il comando sulle cose essenziali che decidono della nostra vita. Se si prescinde da questa capacità di decisione, ogni discorso intorno alla dignità umana e alla libertà non è che ideologia, ideologia dominante, per l’appunto.Se non mettono a nudo la struttura di classe di questa società, che rende possibile ogni ignominia pubblica e privata (se l’uomo non esiste tutto il peggio non solo è possibile, ma è anche nell’ordine “naturale” delle cose), anche le idee più progressiste e umanamente orientate minacciano continuamente di volgersi nel loro contrario, nella misura in cui non mettono in questione in radice le regole del gioco che preservano e irrobustiscono lo status quo. Se non afferriamo questa dolorosa verità, dal punto di vista ”spirituale” non siamo più liberi del detenuto che sconta l’ergastolo nella più fetida delle celle del carcere più schifoso del Bel Paese. Lungi dal sottovalutare la lotta dei detenuti per «migliori condizioni di detenzione», offro a questa auspicata lotta un punto di vista che in sé è già un acquisto di libertà, beninteso nei limiti consentiti da questa società-carcere» (Il carcere e – è – la società).
(9) M. Horkheimer, Eclisse della ragione, pp. 81-86, Einaudi, 2000. «L’uomo non ha più modo di sfuggire al sistema», continuava Horkheimer. In effetti, più che fuggire al o dal sistema, impresa chimerica che a suo tempo Marx rimproverò a Max Stirner, si tratta piuttosto di “rottamarlo”, per dirla con un termine alla moda, e di sostituirlo con la Comunità degli uomini.
(10) F. Nietzsche, Umano, troppo umano, II, p. 267.

3 pensieri su “HUMANITAS

  1. Il dipinto iniziale mi ha riportato alla memoria una canzone, dal mio punto di vista, una delle piu’ belle canzoni d’amore mai scritte. E’ questa: https://www.youtube.com/watch?v=wWys4JSTBys. Non penso che hai bisogno del testo, immagino che tu la conosca, comunque in essa (ma ne potrei scrivere una specie di trattato) il legame tra Amore e Libertà intesa come Volo, Creazione, Viaggio nell’Ignoto, è inestricabile. Certo, cio’ forse eccede da quanto scrivi qui…forse.
    Un altro rimando della mia mente (che mi gioca strani scherzi) è ad una frase ascoltata in un film di Almodovar: “Ho sempre confidato nella bontà degli sconosciuti”, anche su quest’ultima non penso che ci sia bisogno di una spiegazione affinchè se ne possa cogliere il nesso con alcuni accenni nel tuo scritto. Per il resto, che dire? Resto in posa estatica! Bellissimo! Che poi riscopro sempre qualcosa che c’è dentro di me e che bussa per uscire! Ciao!

    • Ogni volta che la ascolto la pelle si fa d’oca. Chissà poi perché! Qualche volta pure la strimpello, ed è talmente bella che un residuo della sua calda luminosità persiste anche nella mia infima voce e negli accordi scacciati via dalla chitarra scordata. Per il resto, sei buona come sempre, e non me ne lamento. Grazie e un abbraccio. Umano.

  2. Pingback: -Un Giuda senza fine- | valeriagaudi

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