Invece della parola d’ordine conservatrice: «Un equo salario per un’equa giornata di lavoro», gli operai devono scrivere sulla loro bandiera il motto rivoluzionario: «Soppressione del sistema del lavoro salariato» (K. Marx, Salario, prezzo e profitto).
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Un lettore del post La “dignità” che uccide scriveva qualche giorno fa su Facebook:
«Isaia non afferma solo che il lavoro salariato equivale ad assenza di libertà ma che il Capitale “ricusa la libertà e l’umanità (due facce della stessa medaglia) anche agli stessi capitalisti, ridotti alla stregua di più o meno gaudenti funzionari dell’economia basata sul profitto”. Dunque, sotto il Capitale tutto il lavoro, e non solo quello salariato, è vessatorio e deumanizzato. Secondo me, comunque, non è così.
Il punto, a mio avviso, non è che esisterebbe una caratteristica fondante e totalizzante (la distinzione tra capitale e lavoro, tra salario e profitto, l’estrazione di plusvalore, quello che vuoi) che sotto un determinato regime economico e sociale renderebbe il lavoro in quanto tale fonte di asservimento anziché di autorealizzazione umana, ma è che sono le condizioni concrete nelle quali il lavoro si svolge (che lavoro fai, quanto guadagni, in quali condizioni materiali ti trovi a lavorare, quali protezioni hai o non hai, quanto margine di autonomia hai per decidere che lavoro fare e come farlo, e così via) che rendono un lavoro degno o indegno.
La domanda quindi è se è possibile lottare affinché le condizioni materiali del lavoro salariato siano trasformate in modo tale che esso possa fare parte di una vita degna di essere vissuta o non lo è. Gli “ingegneri riformistici” affermano che lo è (e ovviamente si può essere d’accordo o meno sull’efficacia delle strategie che propongono a tale scopo, ma questo è un altro discorso), e io sono d’accordo, mentre voi non lo siete. Poi, che ci siano degli operai convinti che si debba fare la guerra al lavoro salariato in quanto tale, non mi pare voglia dire granché. Il movimento operaio è da sempre diviso su questioni come rivoluzione piuttosto che riforme o integrazione piuttosto che rifiuto, ma le opzioni rimangono giuste o sbagliate in se’, a prescindere dal consenso o meno che ricevono».
Mi scuso per la “risposta” tardiva. Solo adesso leggo la prima riflessione di L. Non prendo in considerazione il resto della discussione, che non ho letto. E anche di questo mi scuso.
È vero, per me la maledizione del lavoro dominato dalla legge del profitto ricade su tutte le attività lavorative. Naturalmente nel lavoro salariato si concentra la quintessenza del rapporto sociale capitalistico, e ciò fa di questo lavoro il male per eccellenza, la sentina della prassi sociale capitalistica, pur essendo il fondamento materiale su cui si regge l’intero edificio sociale. È proprio in questa contraddizione che pulsa il potenziale risvolto dialettico chiamato “rivoluzione sociale”. Si badi bene, potenziale. Non «il lavoro in quanto tale», il lavoro astrattamente inteso, il lavoro colto in una (assurda) dimensione astorica, ma il lavoro salariato in quanto tale è, a mio avviso, ostile all’uomo, e quindi «indegno» dal punto di vista umano. Le «condizioni concrete» del lavoro salariato sono strutturate in primo luogo e fondamentalmente da qualcosa che non cade sotto la percezione dei sensi: il rapporto sociale capitalistico, il quale è, sempre all’avviso modesto di chi scrive, una relazione di dominio e di sfruttamento. Non il lavoro “in sé e per sé”, dunque, ma il peculiare lavoro della nostra epoca storica (borghese/capitalistica/imperialista) presuppone e pone sempre di nuovo quel disumano rapporto sociale.
Il lavoro salariato, proprio perché presuppone e pone con assoluta necessità il dominio sempre più totalitario del Capitale sulla società, rende inefficace, sotto il profilo della «dignità umana», l’azione degli «ingegneri riformistici». In effetti, l’opera di questi ingegneri è efficacissima, perché aiuta il Capitalismo a superare le proprie contraddizioni senza mettere in questione il rapporto sociale (Capitale-Lavoro) che lo rende possibile.
Da sempre riformare il Capitalismo equivale a conservarlo, possibilmente più potente di prima.
Fare «la guerra al lavoro salariato in quanto tale» significa non solo cercare di resistere alle pressioni del Capitale (attraverso le lotte cosiddette “economiche”: più salario, meno orario, migliori condizioni di lavoro, ecc.); significa soprattutto volere il superamento del vigente regime sociale in vista di una Comunità centrata sull’uomo in quanto uomo, e non sul profitto (e quindi sul capitale, sul denaro, sulla merce, ecc). Mettere in “dialettica” le lotte “parziali” con l’obiettivo finale è un “classico” problema nell’azione politica dei «rivoluzionari». Un problema dal quale ovviamente gli «ingegneri riformistici» sono dispensati.
Si può naturalmente non essere d’accordo con questa tesi “rivoluzionaria”, e la stragrande maggioranza delle persone infatti non lo è. Ma non mi pare che essa «non voglia dire granché»: dice invece tantissimo. Si tratta intanto di capirla.
Per Diego Marani «Il lavoro deve essere protetto perché è come l’acqua, come l’aria. È lui che ci tiene insieme. E senza non si può vivere» (Lavorare manca, p. 246, Bompiani, 2014). E proprio come nel caso dell’aria, ci accorgiamo della sua assenza solo quando esso manca: allora è la nostra stessa dimensione umana a entrare in asfissia. La nostra dignità boccheggia, annaspa dolorosamente alla ricerca di un po’ d’ossigeno, simile a un pesce tolto dall’acqua.
Ma di quale lavoro parla Marani nel libro appena citato? È presto detto: si tratta del lavoro «scritto sulla prima pagina della nostra Costituzione: L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro». Naturalmente per lui quel lavoro odora, se non proprio di sacro, certamente di dignità: «Provo rispetto infinito per chi lavora e con le sue mani o con la sua testa lascia un piccolo segno di sé sulla pelle indifferente di questo mondo» (p. 246). Segue citazione della poesia di Gianni Rodari che non a caso ha come titolo Gli odori dei mestieri:
Io so gli odori dei mestieri:
di noce moscata sanno i droghieri,
sa d’olio la tuta dell’operaio,
di farina sa il fornaio,
sanno di terra i contadini,
di vernice gli imbianchini,
sul camice bianco del dottore di medicine c’è buon odore.
I fannulloni, strano però, non sanno di nulla e puzzano un po’.
L’apologia del lavoro che secerne sudore e dignità da tutti i pori non potrebbe essere più cristallina, peraltro in perfetta continuità con quel cattocomunismo che ha impregnato di sé la politica e la cultura del Bel Paese per molti decenni. È dunque il lavoro salariato, il lavoro che presuppone e pone sempre di nuovo il rapporto sociale capitalistico, che ha in testa Rodari quando critica l’ideologia neoliberista che concepisce i lavoratori alla stregua di meri strumenti asserviti alla logica delle compatibilità economiche.
«La Thatcher garantiva che se si chiudevano posti di lavoro da una parte era per crearne dei nuovi da un’altra. Tagliare i rami secchi per farne crescere dei più rigogliosi, era la sua immagine preferita. Se si accettava che un settore economico accumulasse sprechi, prima o poi quel settore sarebbe affondato e con lui tutti i posti di lavoro che garantiva. Eliminare i posti di lavoro improduttivi permetteva di risparmiare denaro e investire in più proficue attività che avrebbero dato nuovo lavoro. Un ragionamento che non fa una grinza, ma che non ha nessun rispetto delle persone che ci sono dietro quei posti di lavoro. Non sono più persone ma solo attrezzi che si possono spostare da una parte all’altra, a seconda di dove servono. Un modo di pensare che ha attecchito rapidamente anche da noi e che ha avuto i suoi ideologi» (p. 193). Checché ne pensi Marani, per bocca della Lady di Ferro non parlava la famigerata ideologia neoliberista, bensì la stringente logica del Capitale, la cui funzione sociale non è mai stata quella di soddisfare i molteplici bisogni degli individui, ma piuttosto quella di sfruttare i lavoratori in vista del profitto.
La società capitalistica non conosce uomini, ma solo «capitale umano» da mettere a valore (e consumatori in grado di pagare, ossia di trasformare il valore contenuto nelle merci in denaro): è questo il segreto del lavoro (salariato) su cui si fonda – anche – la nostra Repubblica. E siccome questo tipo di lavoro presuppone la bronzea legge del profitto, non ci si deve sorprendere quando in certi periodi l’esercito dei disoccupati si espande in modo preoccupante: la disoccupazione conferma, non contraddice l’Art 1 della «Costituzione più bella del mondo» (sic!). Chi fa l’apologia del lavoro (salariato) «scritto sulla prima pagina della nostra Costituzione» deve poi accettare tutto ciò che questo lavoro presuppone e pone in ogni sfera della prassi sociale, in ogni ambito delle nostre relazioni sociali. Se accetti, e anzi incensi ed esalti il lavoro (salariato) come l’attività sotto ogni rispetto più essenziale agli individui, devi poi portare a casa, per così dire, l’intera confezione storico-sociale. Mi rendo conto: difficilmente il nostro progressista mi darebbe ragione, se avesse modo di conoscere la “provocatoria” tesi che sostengo.
D’altra parte, la cosa più “rivoluzionaria” che egli è in grado di concepire è la seguente: «Io voglio credere che non esiste lavoro inutile, che nessun lavoro è spreco perché ogni lavoratore è un uomo e il suo valore sta nella dignità che gli conferisce eseguirlo e riceverne un compenso» (p. 247). Quasi mi commuovo. Ho detto quasi. E comunque non sono talmente cattivo da rivelargli un segreto che potrebbe sconvolgerlo: ciò che decide dell’utilità o dell’inutilità di un lavoro non è la buona o la cattiva volontà di Tizio piuttosto che di Caio ma, ancora una volta, il Capitale. Chi ha letto e capito Adam Smith e Karl Marx (ad esempio a proposito di lavoro produttivo e lavoro improduttivo) lo sa. Chi si fa prendere da un orgasmo etico leggendo le tristi e grigie poesie “lavoriste” di Gianni Rodari, no. Non è una questione di intelligenza (qui batto in ritirata!), ma di coscienza (di classe).
A proposito di poesie! Ne propongo anch’io una, questa:
Se dunque con il rapido aumento del capitale
aumentano le entrate dell’operaio,
nello stesso tempo però si approfondisce
l’abisso sociale che separa l’operaio dal capitalista,
aumenta il potere del capitale sul lavoro,
la dipendenza del lavoro al capitale.
La situazione materiale dell’operaio è migliorata,
ma a scapito della sua situazione sociale.
L’abisso sociale che lo separa dal capitalista
si è approfondito (Marx, Lavoro salariato e capitale).
Scrive Nicola Costantino «contro la scienza triste della scarsità»: «Grazie al crescente progresso tecnologico, avremo sempre meno lavoro, ma anche meno bisogno di lavorare. Può essere l’inferno, oppure un nuovo paradiso terrestre: dipende da noi» (Abbondanza, per tutti, Donzelli, 2014). Se non archiviamo la società fondata sullo sfruttamento del lavoro salariato (sì, Marani, quello dell’Art. 1 della Costituzione) l’inferno su questa Terra è garantito. Dimenticavo: l’inferno è già dalle nostre parti, e non smette di diventare sempre più… infernale. E se dipendesse dal professor Costantino, le cose continuerebbero ad andare in questa cattiva direzione. Egli, infatti, perora la causa di «una più equa distribuzione di redditi e patrimoni, per garantire una vita più dignitosa a tutti». Un po’ pochino, diciamo.
D’altra parte, nel momento in cui l’ultima parola della scienza economica progressista (e “umanista”) è affidata alla metaforica penna di un economista del calibro di Thomas Piketty, l’osannato autore de Il capitale nel XXI secolo (nonché punto di riferimento politico e dottrinario di Paul Krugman: e ho detto tutto!), la cui proposta più “rivoluzionaria” è quella di creare un meccanismo fiscale di tassazione dei grandi patrimoni di dimensione planetaria allo scopo di ridurre le famose (famigerate?) diseguaglianze sociali; se così stanno le cose, dicevo, non me la sento di infierire più di tanto contro il bravo professore di ingegneria qui preso di mira.
«Abbiamo la possibilità di produrre tantissimo, ma la maggior parte dei potenziali consumatori non dispone di redditi adeguati all’accesso a tali prodotti». Insomma, il solo «paradiso terrestre» che Costantino riesce a concepire è un Capitalismo nel cui seno prosperano consumatori in grado di acquistare tutte le merci che il sistema industriale è capace di produrre. Non vorrei apparire di troppe pretese, ma personalmente aspiro a un «paradiso terrestre» degno del concetto di uomo in quanto uomo: il «capitale umano» che lavora in vista di un salario e consuma merci per riprodurre la maledizione capitalistica mi sembra qualcosa di infernale.
Il primo maggio ho postato su Facebook quanto segue:
Umanytus contro il Primo Maggio del regine
Papa Francesco: «Chiedo a quanti hanno responsabilità politica di non dimenticare due cose: la dignità umana e il bene comune». Io invece, assai più umilmente, chiedo a quanti hanno voglia di comprendere le ragioni del male su questa terra di voltare le spalle a chi predica «la dignità umana e il bene comune» a rapporti sociali immutati. «Venite meco!», dice l’umanista.
Oggi a Pordenone.
Susanna Camusso: «Viva il Lavoro!». No: abbasso il lavoro (salariato, quello che fonda la Repubblica democratica nata dalla resistenza)! Lavoro, disoccupazione e precarietà hanno la stessa maligna radice.
Raffaele Bonanni: «Senza lavoro le persone perdono la dignità». No, il lavoro salariato presuppone e pone sempre di nuovo una società che annichilisce ogni autentica dignità umana. Il salario dà la sopravvivenza, non la dignità. Solo la lotta contro gli interessi del Capitale dà una dignità degna di questo nome ai lavoratori. Tutto il resto è apologia della cattiva società!
Luigi Angeletti: «Viva il primo Maggio!» No, abbasso il Primo Maggio del Regime (ossia dei sindacati, dei partiti, delle istituzioni, del Presidente della Repubblica, di Papa Francesco, ecc.)!
Commenti da Facebook:
L. B.: «Oggi i Lavoratori e le Lavoratrici, festeggiano la loro “sussunzione” alla logica sempre crescente della valorizzazione del capitale (logica del profitto), nonché il loro essere “costretti” a cedere la loro forza-lavoro ai padroni, quindi la loro mancanza di libertà, nel decidere come quando e per chi e cosa lavorare. Oggi i Lavoratori e Lavoratrici, festeggiano la loro condizione di schiavi del salario. Schiavi, il cui tempo di vita, è stato trasformato in tempo di lavoro, per poi nella vecchiaia, “godere” di una pensione da fame. Oggi Lavoratori e Lavoratrici, fratelli e sorelle di sventura, festeggiano “la dannazione del lavoro salariato”, il lavoro cioè, vissuto come repulsione, “come lavoro coercitivo esterno rispetto al quale il non-lavoro si presenta come “libertà e felicità”. Ed infine, Lavoratori e Lavoratrici, festeggiano la loro condizione di “alienati”. Alienati innanzitutto, dal prodotto stesso del proprio lavoro e perché ridotti a mera appendice di un processo lavorativo che non gli appartiene più, ridotti quindi a sensore, valvola, termostato, apparecchio di controllo della macchina, del sistema di macchine collegato da mille canali di comunicazione e di traffico. Alienati perché, siffatti uomini e donne, vorrebbero vivere, ma non gli è neppure permesso di esistere in quanto uomo/donna, ma solo come schiavi del salario. Beh, con questi chiari di luna cari Lavoratori e Lavoratrici, non vedo che cosa avete da festeggiare. Ciao Sebastiano.
S. M.: «Viva il Primo Maggio di chi era davanti o dentro i centri commerciali a protestare!».
Sebastiano Isaia: Mi sembra di aver detto che solo nella lotta c’è dignità. E più la lotta dei nullatenenti si radicalizza soprattutto in termini di coscienza (“di classe”), e più questa dignità prende spessore e rompe con i principi etico-morali imposti a tutti noi dalla classe dominante.