Il Punto di vista umano è la prospettiva
che permette di cogliere la possibilità della
liberazione nell’attualità del dominio di classe.
1. Un primo approccio al problema
Chi si batte per il superamento rivoluzionario del vigente regime sociale in vista della Comunità umana, facilmente presta il fianco alla seguente obiezione: «La rivoluzione sociale concepita dai militanti del Punto di vista umano rende plausibile e perfino necessario anche l’impiego di mezzi violenti nella lotta politico-sociale. Ebbene, questi mezzi non confliggono forse sul piano etico-politico con la natura umana della Comunità in vista della quale essi dicono di battersi? Non è solo con mezzi umanamente sostenibili che gli individui possono sperare di conquistare il cosiddetto Regno della libertà?».
A mio parere l’obiezione non va respinta con un’alzata di spalle, innanzitutto perché essa coglie un punto nodale nell’azione politica del soggetto autenticamente rivoluzionario, ossia la necessità di adeguare i mezzi ai fini, di fare cioè di questa necessità un criterio fondamentale nella scelta degli obiettivi sia “tattici” che “strategici”, per usare il tradizionale gergo politico-militare, nonché dei mezzi idonei a conseguirli.
Ad esempio, la tesi secondo la quale il processo di emancipazione dell’intera umanità non può non avere come suo motore centrale le classi dominate, le sole che per la loro condizione materiale sono potenzialmente interessate a distruggere i rapporti sociali che creano sempre di nuovo quella condizione, è profondamente radicata nella questione che stiamo trattando. Questa fondamentale tesi genera a cascata una serie di problemi politici di grande momento (come quelli che riguardano il rapporto tra il partito e la classe, tra la coscienza e la spontaneità, tra l’etica e la politica, ecc.) che qui non tratterò, se non in modo incidentale e sotteso.
In linea generale, la contraddizione – qui genericamente intesa – vive nell’oggettività della cosa stessa (alludo ovviamente alla vigente società), e lungi dal nasconderla attraverso espedienti retorici falsamente dialettici, i rivoluzionari devono invece riconoscerla in tutta la sua portata, per padroneggiarla nel modo migliore sul piano della teoria, della prassi e dell’etica.
La stessa esistenza del rivoluzionario considerato nella sua qualità di “normale” cittadino si pone in oggettiva contraddizione con la sua attività politica, perché per vivere egli è costretto in qualche modo e in qualche misura a contribuire all’esistenza di quel regime sociale che pure vuole con tutte le sue forze abbattere, e il fatto che egli ha piena consapevolezza di ciò non fa venire meno la contraddizione, appunto perché essa si dà con assoluta oggettività, prescinde cioè dalla volontà dei singoli individui. Naturalmente il rivoluzionario che è riuscito a superare con successo la fase politicamente adolescenziale del proprio processo di maturazione sa che egli non può uscire individualmente da questa contraddizione, la quale ha soprattutto nelle lotte economiche la sua più compiuta manifestazione dialettica, nella misura in cui esse possono diventare «palestra di comunismo», per dirla con Marx, ovvero costituire la normale fisiologia della relazione Capitale-Lavoro.
Detto en passant, buona parte degli attacchi critici marxiani alla posizione “esistenzialista” di Max Stirner contenuti nell’Ideologia tedesca (1846) devono a mio avviso essere interpretati alla luce della considerazione appena formulata. In effetti, Marx non attacca l’ideologia dell’Unico perché centrata sull’individuo, come hanno voluto leggere anche molti “marxisti”, bensì fondamentalmente perché l’individualismo stirneriano era radicato su una concezione volgare e «triviale» del comunismo, il cui concetto era «tanto miserevole che può avere importanza soltanto nella società odierna e nella sua immagine ideale». Per questo l’individualismo di «San Max» appariva a San Marx gravato di pregiudizi piccolo borghesi che finivano per plasmare l’idea del “comunismo” che aveva nella testa il primo, e che il secondo trovava a dir poco infondata non sulla scorta di astratti principi ideali, ma sulla base del reale processo storico-sociale.
Sulla polemica Marx-Stirner rimando a Eutanasia del Dominio.
Ciò che realizza un abisso concettuale e pratico tra politica rivoluzionaria e realpolitik non è tanto la scelta degli obiettivi parziali, che a volte possono essere coincidenti (si pensi ad esempio alle rivendicazioni a carattere economico: più occupazione, più salario, meno orario, più sicurezza nel lavoro, ecc.), e nemmeno il mezzo idoneo a conseguirlo (scioperi, picchetti, forme di lotta decisamente violente), ma piuttosto il contenuto politico e ideale (non ideologico!) che informa il discorso dei rivoluzionari, i quali si sforzano di trasmettere ai dominati, anche a partire da lotte e rivendicazioni assai modeste, la necessità e la possibilità dell’iniziativa autonoma di classe, e al contempo di far nascere nel loro seno l’idea che la libera comunità umana è realmente possibile, e non solo auspicabile sul piano astrattamente ideale.
Soprattutto questa idea-speranza deve pian piano conquistare strati sempre più larghi di nullatenenti (oltre che di individui umanamente sensibili di tutte le estrazioni sociali), perché se ciò non accade facilmente i dominati cadono nella rete del Dominio nei momenti di catastrofe sociale. L’Utopia ben fondata deve conquistare le menti e i cuori dei dominati; se non di tutti, com’è ovvio, certamente di moltissimi di loro. La strada, la lotta e la vita, non certo le democratiche schede elettorali, misureranno il grado di maturazione della Rivoluzione. Se l’idea-speranza di una Comunità radicalmente nuova resterà confinata nell’ambito di poche persone, la coazione a ripetere della conservazione sociale (vedi fascismo, stalinismo, nazismo, progressismo) non mancherà di festeggiare nuovi successi.
Fecondato da quella che senza ideologismi – e per compendiare il discorso fin qui fatto – possiamo chiamare coscienza di classe, anche il mezzo si carica di significati ostili allo status quo sociale e alla realpolitik che lo esprime, ed è per questo che una forma di lotta prima accettata dalla legalità borghese può non esserlo più successivamente, almeno per tutto il periodo in cui tale forma rischia di cadere sotto la pericolosa influenza dei rivoluzionari. Ciò che in ogni caso fa premio dal punto di vista umano (e specularmente dal punto di vista del Dominio) non è il contenuto di violenza o di non violenza nelle forme di lotta, ma piuttosto il loro contenuto in termini di coscienza politico-ideale.
Credo che riflettere in modo aperto, non ideologico e non dogmatico, su tutti questi temi sia molto importante, tanto per ciò che concerne l’elaborazione di una teoria autenticamente rivoluzionaria, quanto per ciò che riguarda la costruzione di una azione politica adeguata alla prospettiva che sto cercando di delineare.
Come ho detto altre volte, non si tratta, almeno per me, di conquistare un punto di vista assolutamente originale rispetto, ad esempio e per intenderci subito, a quello che possiamo apprezzare nel Manifesto del partito comunista o nel Che fare? (ho sempre sghignazzato sulla pretesa dell’assoluta originalità, ovunque questa pretesa ha voluto esercitarsi: nella politica, nella filosofia, nell’arte, nella scienza); si tratta piuttosto di riproporre le classiche – non vecchie – questioni intorno alla rivoluzione sociale sul fondamento della Società-Mondo del XXI secolo, cosa che implica il riconoscimento della debolezza dottrinaria e politica dei (supposti: a partire da chi scrive, in primis!) pochissimi rivoluzionari attivi nel pianeta. Non devo certo ricordare a chi segue i miei modesti scritti il maledetto retaggio stalinista che ancora oggi rende eccezionalmente difficile l’azione degli anticapitalisti.
D’altra parte, riscrivere un nuovo Manifesto e un nuovo Che fare? (rimanendo sempre nel campo della metafora e sempre al netto dei tanti e importanti limiti teorici e politici dei due testi, dovuti al contesto storico-sociale nel cui seno essi vennero concepiti) non è un’operazione che si possa fare a tavolino. Magari! Questa operazione di grande respiro teorico e politico o sarà anche il prodotto di nuove lotte, di nuovi grandi movimenti sociali, di nuove esperienze accumulate sul campo, oppure semplicemente non sarà, non potrà aver luogo.
Va da sé che chi ritiene che nei testi di riferimento (ognuno naturalmente ha i propri: libri, tesi, piattaforme programmatiche, ecc.) è contenuto se non tutto almeno l’essenziale, e che per i rivoluzionari si tratta semplicemente di ribadire sempre di nuovo gli «invarianti principi del comunismo» nonché di “applicarli” alla realtà, ha bensì il mio rispetto ma certamente non la mia solidarietà politica, per quel pochissimo che essa vale.
A questo punto formulo il problema circa l’uso della violenza nella lotta di emancipazione universale («Emancipando se stesso, il proletariato emancipa l’intera umanità») con una serie di domande, anche per sollecitare al lettore una sua autonoma risposta.
Posto il fine ultimo della Comunità umana, ossia della Comunità che non conosce violenza, né oppressione né coercizione di sorta (materiale, politica, psicologica) dell’uomo da parte dell’uomo, quali mezzi (pacifici/violenti) si prestano meglio nell’azione politica volta a conseguire la «meta finale» di cui sopra? È possibile praticare esclusivamente mezzi umani nella società che, con ogni evidenza, umana non è? I mezzi debbono/possono prefigurare i fini o piuttosto essi devono esserne “dialetticamente” adeguati? E come si configura questa dialettica?
Quella con cui noi abbiamo a che fare immediatamente non è, evidentemente, la Comunità umana, che si dà come possibile futuro, ma la società disumana, e si fa della cattiva utopia se riflettiamo sui mezzi prescindendo da questo dato di fatto. I mezzi possono prefigurare il fine ultimo, possono cioè avere la sua stessa sostanza, solo se quest’ultimo “cade” nel campo di dominio del presente, ossia dei vigenti rapporti sociali. Se invece l’obiettivo finale trascende completamente la dimensione del presente, sebbene la sua possibilità sia profondamente radicata in esso, i mezzi adeguati al conseguimento del fine ultimo non possono avere la sua stessa sostanza.
Ma mentre la sostanza della Comunità umana non ha nulla a che fare con l’attualità del Dominio, e ne è anzi l’esatto opposto, la stessa cosa non può dirsi per la rivoluzione sociale, che cade nella dimensione del Dominio, sebbene la sua ragion d’essere consiste nel suo radicale superamento. Marx scrisse una volta che «Il diritto non può essere mai superiore alla configurazione economica ed allo sviluppo, da esso condizionato, della società» (Critica al programma di Gotha). Mutatis mutandis, questo vale anche per quello che possiamo chiamare diritto rivoluzionario (il diritto alla rivoluzione, il diritto della rivoluzione, il diritto generato dalla rivoluzione). La rivoluzione sociale non può non portare le maligne stigmate del Dominio, e solo avendo piena coscienza di ciò si può tenere a bada quanto di cattivo cercherà di insinuarsi anche nel processo rivoluzionario.
È dunque con la maligna sostanza del Dominio che il militante del punto di vista umano si deve confrontare immediatamente quando pone la difficile questione circa il rapporto tra mezzi e fini. Tuttavia, lungi dall’essere ininfluente, la prospettiva della Comunità umana illumina l’intera scena della sua riflessione e della sua azione.
Nella sua opera del 1804 Gli aspetti caratteristici del tempo presente, J. G. Fichte si trovò dinanzi a questo impegnativo rovello: com’è possibile edificare, a partire da una condizione umana tutt’altro che perfetta e per molti riguardi assai ingiusta, l’era della «santità», ossia l’epoca della piena maturità dell’uomo (un’epoca contrassegnata dalla libertà, dalla razionalità, e dall’autocoscienza)? Uomini ingiusti possono costruire una società giusta?
Com’è noto, il filosofo tedesco aborriva l’uso della violenza nella lotta di classe, e difatti alla rivoluzione borghese sul modello francese egli preferiva di gran lunga quella che chiamava la «riforma dall’alto». Il protagonismo sociale delle masse parigine più radicalizzate in senso giacobino e la vicenda rivoluzionaria di Babeuf lo convinsero che «dal basso» il progresso umano non poteva attendersi nulla di buono. Ciò tuttavia non significa che Fichte escludesse del tutto esiti violenti nel processo di trasformazione sociale, causati soprattutto dalla scarsa lungimiranza delle «classi ricche», le quali «continueranno ad allargare le loro usurpazioni di generazione in generazione, e non diranno mai “basta”, sino a quando l’oppressione non avrà toccato finalmente il suo culmine e non sarà divenuta assolutamente insopportabile; e sino a quando, perciò, la stessa disperazione non avrà dato agli oppressi quella forza che non potevano trarre dal loro coraggio, annientato da secoli» (La missione dell’uomo).
Ma in linea di principio Fichte era ostile a ogni soluzione rivoluzionaria che avesse nelle masse il proprio fondamentale arsenale, e perciò egli teorizzò, strizzando forse l’occhio alla Repubblica di Platone, la formazione di una classe di sapienti, di «sacerdoti della scienza», e l’ascesa di un sovrano illuminato in grado di portare a compimento senza troppa violenza né eccessivi soprusi il lungo cammino dell’uomo verso l’ultimo stadio del suo perfezionamento (dal primo stadio, caratterizzato dalla «ragione istintiva», al quinto stadio, caratterizzato appunto dalla «santità», passando attraverso il secondo stadio, segnato dalla «ragione umana», il terzo, segnato dalla coscienza, e il quarto, caratterizzato dall’autocoscienza).
In ogni caso i «sacerdoti della scienza» e il sovrano illuminato rimanevano impigliati nell’imperfezione del mondo, erano cioè fatti necessariamente della sua stessa sostanza, sebbene in una guisa attenuata dalla sapienza e dalla volontà di fare solo il bene degli uomini. Per rimanere fedele al proprio principio, Fichte si vede così costretto a risolvere il rovello facendo intervenire sulla scena il deus ex machina per eccellenza: nella sua infinita misericordia Dio, «un giorno», permetterà all’opera di perfezionamento degli uomini e delle loro istituzioni di compiersi definitivamente. «Sino a quel giorno i governi non possono essere migliori di quanto viene consentito da Dio, e il solo mezzo sicuro, in possesso della nazione, per obbligarli a seguire la marcia del progresso, sta nello sviluppo intellettuale e morale di ciascuno e di tutti» (Cit. tratta da H. Denis, Storia del pensiero economico, I, Mondadori, 1973).
La «santità» (ossia la piena umanizzazione degli individui, per usare il nostro linguaggio) passa insomma dalla storia alla mitologia a sfondo religioso: è questo l’esito di un pensiero che ha certamente coerenza, ma non ha (non può avere per una serie di circostanze storiche e sociali abbastanza intuibili) profondità e radicalità critica.
Qui mi vengono in mente «le incomprensibilmente belle parole della Judith di Hebbel» citate da Lukács in Tattica e etica (1919): «E se Iddio avesse posto il peccato tra me e l’azione che mi è stata imposta, chi sono io perché possa sottrarmi ad esso?». Già, chi sono io?
3. Critica della cieca violenza*
«La violenza, come la lancia di Achille, può guarire le ferite che ha inflitto», scriveva Sartre nella sua esaltata introduzione al libro di Frantz Fanon I dannati della terra (1961). Niente di più falso. La violenza, in grazia della sua dimensione “ontologica”, non ha questo potere benigno. Se messa nelle mani di un Soggetto politico che agisce con piena coscienza per estirpare le radici del Male, la violenza può diventare necessaria al conseguimento di alcuni fondamentali obiettivi, ossia quelli che concorrono alla realizzazione della comunità umana, la sola che può guarire le ferite che il dominio sociale ha inflitto e infligge sempre di nuovo agli individui. […]
Nei confronti degli esaltati ideologi della violenza, concepita come un momento decisivo, dirimente, del processo storico, ho sempre nutrito un forte sospetto, e financo una franca ostilità. Non perché in generale ricusi alla violenza la sua oggettiva funzione in quel processo, e giudico indigente sul piano della teoria e della prassi chi prova a negare questo inconfutabile dato di fatto (che tuttavia va compreso in tutta la sua dolorosa verità, e non accettato acriticamente); piuttosto perché ho sempre visto in chi avverte il bisogno di sfoggiare un atteggiamento aggressivo una debolezza teorica, politica e psicologica di fondo, celata appunto dietro frasi e pose iper rivoluzionarie, ossia pseudorivoluzionarie. È tipico del pensiero debole e superficiale affettare pose muscolose e falsamente radicali. La psicoanalisi, oltre che filosofia, sa di cosa parlo. […]
Bisogna dunque diffidare di chi pone costantemente in evidenza la necessità della violenza nella lotta politica, e che mostra di non aver compreso la sua funzione ancillare nei confronti dell’elaborazione teorica e politica cui è chiamato ciò che definisco il Soggetto Storico della Rivoluzione. Chi affetta un approccio apologetico e superficiale con il problema della violenza nello scontro politico, ed esibisce un impaziente desiderio di menar le mani, mostra tutta la sua inconsistenza esistenziale, e probabilmente coltiva una certa indifferenza per coloro che dovranno sperimentare il suo «manganello rivoluzionario». […]
Proprio perché rappresenta una questione di grande significato storico, sociale e politico, il tema della violenza merita quindi di venir approcciato in termini critici e problematici, e sottratto alla speculazione “filosofica” dell’intellighenzia radical-chic, intimamente intrisa di idee piccolo-borghesi. La violenza da sempre è stata monopolizzata dalle classi dominanti, e quando si è trattato di versare sangue in nome della patria, della civiltà, della democrazia, della libertà e persino della «Rivoluzione», alle classi dominate, usate come meri strumenti di offesa e di conquista, è stato richiesto il maggior contributo. Questo solo fatto credo basti a giustificare l’atteggiamento critico, serio e vigile che propongo.
Disporre della vita degli altri a cuor leggero, seppure per conto della «causa rivoluzionaria», non solo rinnova la coazione a ripetere del dominio sociale borghese, ma getta un’inquietante ombra sull’intera concezione del mondo dei “rivoluzionari”, i quali in quella guisa mostrano di non essere per niente tali. Solo la classe dominante può permettersi il lusso di sorvolare – ma sempre fino a un certo punto – sulla contabilità dei morti e dei feriti, anche perché il più delle volte essi provengono dalle classi subalterne. Ma il soggetto che ha come obiettivo «supremo» la costruzione della Comunità mana, deve avvertire tutta la pesantezza, la sofferenza e la drammaticità della cosa.
Non si tratta, insomma, di rigettare sul piano della teoria e della prassi la violenza, ma piuttosto di assumerne coscientemente tutta la portata storica, sociale, «esistenziale», così che nel calcolo dell’efficacia rivoluzionaria possa contare anche il problema di come spargere meno dolore possibile. Questa «economia di violenza e di sofferenza» non deve riguardare solo gli appartenenti alle classi dominate, ma anche il nemico di classe, perché l’obiettivo fondamentale da perseguire non è la vendetta nei suoi confronti, né la sua sofferenza (che comunque si dispiegherebbe oggettivamente, soprattutto nel caso in cui la rivoluzione sociale fosse vincente), ma la conquista del potere e la costruzione della nuova società. […]
La violenza politica deve vivere dunque nell’oggettività delle cose, e il Soggetto della rivoluzione deve ben guardarsi dal far «calare dall’alto» la sua stringente necessità sulle classi subalterne, trattandole in tal guisa alla stregua di meri strumenti di una lotta mortale della quale esse non possono capire il significato. Bisogna piuttosto trasformare le anonime e informi «masse» in classi sociali coscienti della posta in palio. Più che la violenza, è lo sviluppo della «coscienza di classe» in strati sempre più vasti della classe subalterna che connota il processo rivoluzionario, se è veramente tale e non l’ennesima lotta tra fazioni borghesi. […]
Scriveva Lukàcs nel 1919 (Tattica e etica): «Esistono delle situazioni – tragiche situazioni – nelle quali è impossibile agire senza attirare su di sé una colpa». Questo è, a mio giudizio, il modo politicamente serio di affrontare il problema della violenza rivoluzionaria, il quale si fa carico di assumere su di sé tutta la portata politica ed etica che quel problema necessariamente racchiude. La violenza, qualunque natura essa venga ad assumere in una data situazione storica, ruota sempre e ossessivamente nell’orbita del male.
In altre parole, per il punto di vista critico-radicale il problema della violenza non costituisce una questione di principio ma di consapevolezza storica, coscienza cioè che la prassi rivoluzionaria deve necessariamente immergersi nella colpa della violenza. Il Soggetto di quella prassi non solo non oblitera il carattere colpevole – nel ristretto senso qui delineato – della violenza cui esso stesso è costretto a ricorrere, ma ne fa consapevoli tutti i protagonisti dello scontro sociale, affinché ogni atto sia commisurato alla posta in gioco. Come lo psicanalista cerca di desublimare gli istinti repressi e deformati che si agitano nel subconscio e nella stessa prassi del paziente, analogamente il Soggetto rivoluzionario – qualunque significato si voglia attribuire a questo concetto – deve aiutare i protagonisti del processo storico a chiamare con i loro autentici nomi i sentimenti che li spingono a battersi (odio, invidia, rabbia, paura, speranza, desiderio, amore, ecc.), in modo che la responsabilità storica e sociale delle loro azioni possa venire alla luce, giorno dopo giorno, errore dopo errore, eccesso dopo eccesso. Questa è la sola etica della responsabilità che riesco a concepire.
Affrontare in modo serio e non apologetico il problema della violenza nella lotta politica in generale, e nel processo rivoluzionario in particolare, consente di porre le basi teoriche e politiche da cui lanciare le frecce critiche contro la superstizione che vuole il monopolio della violenza essere saldamente nelle mani delle classi dominanti, secondo l’ideologia pattizia e contrattualistica che presenta lo Stato come il più alto momento di equilibrio degli interessi sociali, nonché come camera di compensazione delle tensioni che si sviluppano sempre di nuovo nella «società civile», anziché come organizzazione politica suprema delle classi dominanti, quale esso è nella realtà. Non un principio astratto desunto meccanicamente dalla prassi storica, ma una penetrante critica della società classista deve condurci a ritenere la violenza rivoluzionaria come una dolorosa necessità: «Questa è la semplice verità, una verità sgradevole e rozza, un’autentica verità necessaria» (F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, 1873).
Il diritto moderno condanna sul piano ideologico l’uso della violenza controrivoluzionaria solo perché intende stigmatizzare ed esorcizzare l’esercizio della violenza rivoluzionaria da parte delle classi dominate. Naturalmente si predica bene fino a che non giunge il momento di razzolare. Gli storici del diritto tendono a dimenticare, ad esempio, come il massacro dei comunisti spartachisti nella Germania del 1919 avvenne nell’ambito di un regime pienamente Costituzionale, nel cui seno le forze progressiste (la socialdemocrazia, in primis) giocavano un ruolo fondamentale.
Assai opportunamente Jacques Derrida ha posto i riflettori sul termine tedesco Gewalt, un concetto «così difficilmente traducibile», che significa «”violenza” ma anche “forza legittima”, violenza autorizzata, potere legale, come quando si parla di Staatsgewalt, il potere di Stato» (J. Derrida, Forza di legge, il “fondamento mistico dell’autorità”, 1994, p. 91, Bollati Boringhieri, 2003. ). Con ciò balza agli occhi quanto il linguaggio della filosofia occidentale più profonda esprima bene l’inestricabile legame che da sempre unisce la violenza al potere. […]
Scrive Sergio Cotta: «La violenza si presenta quale destino insuperabile dell’uomo, di cui prender coscienza senza cedere a paure eccessive o a illusorie speranze. Forse nessuno ha sottolineato con la radicalità di Nietzsche questo destino di violenza in tutte le sue forme: dalla brutalità alla volgarità plebea, dalla massiccia imposizione materiale a quella, sottile ma non meno coartante, del conformismo. […] D’altronde, pur non giungendo a questa radicalità, Freud è tuttavia perentorio: “non c’è speranza nel voler sopprimere le tendenze aggressive degli uomini” ha scritto nella sua nota risposta a Einstein» (S. Cotta, Perché la violenza, 1978). Io condivido questo pessimismo radicale, ma lo declino in questi termini: la violenza è intimamente e inscindibilmente connessa con la condizione umana, pardon, con la condizione disumana. Ogni idea riguardante il superamento della violenza nel seno della società violenta – perché la vigente società è “ontologicamente” violenta, è violenta «in sé», con assoluta necessità – è un inganno che colpisce in primo luogo colui che la coltiva.
Interessantissimo articolo, come sempre del resto. La critica alla cieca violenza fa davvero chiarezza sull’utilizzo che essa può rivestire nella ben nota Lotta (in barba alla retorica borghese del pacifismo a tutti i costi). È potere (inteso Foucaltianamente) che può stravolgere il dominio.
Davvero grazie Giovanni. Ciao!
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