Ossia, lo sviluppo della lotta di classe nella più
grande fabbrica capitalistica del pianeta.
Scrive il tardo maoista Francesco Valerio della Croce:«Secondo un assunto, alquanto semplicistico, la Repubblica popolare cinese sarebbe divenuta, nel corso del tempo, una forma inedita di “capitalismo di stato”, una realtà economica in cui le regole del profitto e della turboproduzione vigerebbero assolute e incontrastate» (Il sorpasso: come la Cina cambierà la storia). Secondo il mio assunto, non so quanto semplicistico (tocca al lettore giudicare), la Repubblica popolare cinese è SEMPRE stata una realtà sociale pienamente capitalistica, dalla sua proclamazione (1949) in poi. Naturalmente in modi diversi nel corso dei decenni sulla base del retaggio storico di quel grande Paese, della sua struttura sociale (caratterizzata dalla predominanza dell’elemento rurale) e nazionale (presenza nello spazio cinese di diverse nazionalità, etnie, ecc.), nonché della sua collocazione nello scenario internazionale (vedi in primis il bipolarismo USA-URSS).
Ai sostenitori della natura pienamente capitalistica/imperialista della Cina, della Croce obietta sostanzialmente due argomenti: il forte tasso di sviluppo dell’economia cinese, anche nel contesto della crisi economica internazionale deflagrata nell’estate del 2007 a cominciare dagli Stati Uniti, e la forte presenza in quell’economia dello Stato: «Ebbene, il suddetto pensiero cozza non poco con la realtà, per più d’un motivo. Il più vistoso motivo è rappresentato proprio dallo stato di salute in cui prospera l’economia cinese: una situazione di segno decisamente opposto rispetto all’occidente capitalistico, spolpato di una parte ingentissima della sua capacità produttiva dal 2007, anno in cui la crisi di sovraspeculazione finanziaria è esplosa ed ha palesato in proporzioni gigantesche l’enorme indebitamento che ha risucchiato via una parte consistente di economia reale […] Decisivo, per comprendere come la presenza irremovibile dello Stato nelle scelte di orientamento dell’economia cinese si raccordi in ogni ambito della vita produttiva del Paese, è sottolineare che lo strumento principale di legislazione, regolazione e controllo è rappresentato dal Piano quinquennale». Ho risposto a queste due risibili obiezioni in diversi post, ad esempio in questo: L’indiscutibile successo del Capitalismo con caratteristiche cinesi.
A proposito del mitico «Piano quinquennale» scrivevo qualche tempo fa: «Detto en passant, anche Stalin e, in seguito, Kruscev puntarono i riflettori della propaganda sugli altissimi tassi di sviluppo dell’industria russa per dimostrare la natura socialista dell’economia del Paese, e magnificarne la superiorità nei confronti dei competitori occidentali. Lungi dall’attestare la natura socialista della Russia stalinista, i mitici Piani Quinquennali ne testimoniavano piuttosto l’essenza capitalistica; essi raccontavano, a chi avesse orecchie per ascoltare la verità, il processo «di accumulazione originaria» in un Paese capitalisticamente arretrato e molto ambizioso sul terreno della contesa imperialistica, peraltro in ossequio alla tradizione Grande-Russa del Paese, così odiata dall’uomo che subì l’oltraggio della mummificazione – in tutti i sensi. Di qui l’opzione di politica economica tesa a orientare tutti gli sforzi della nazione verso la costruzione, a ritmi stachanovisti, di una potente industria pesante: più acciaio e meno burro! Com’è noto il burro non fa ingrassare gli arsenali» (L’imperialismo è la grande Cina).
Stalinismo e maoismo come facce della stessa (capitalistica) medaglia? Non c’è dubbio. Almeno per chi scrive, si capisce. Diciamo meglio: il maoismo come stalinismo con caratteristiche cinesi.
«La nuova leadership del Presidente Xi Jiping, sembra aver compreso appieno l’importanza del ruolo internazionale che la Repubblica popolare svolge oramai a livello mondiale ed accanto a questa consapevolezza si mantiene saldo il riferimento al marxismo-leninismo in una visione dialettica di riforma dello Stato». La «visione dialettica» del «marxismo-leninismo» posta al servizio dell’Imperialismo con caratteristiche cinesi. Andiamo bene, nel migliore dei «socialismi reali» possibili. Ovvero: Come volevasi dimostrare.
«La visita di Putin in Cina, in programma a maggio, diventa quindi un appuntamento cruciale, sia per comprendere i prossimi sviluppi del rapporto tra le due potenze (in termini commerciali, militari e strategici) che per veder messi seriamente in discussione gli attuali equilibri di potere. Un asse russo-cinese, con ovvie ricadute anche nei rapporti all’interno dei Brics, costituirebbe una sfida decisiva al predominio politico-militare del blocco a guida statunitense. Non ci resta che attendere. Fiduciosi, se abbiamo come obiettivo la pace e il dialogo fra civiltà e culture (D. A. Bertozzi, Il “filo rosso”: Cina e Russia sempre più vicine ). Come ai bei tempi della Guerra Fredda (vedi i famigerati Partigiani della Pace) l’obiettivo della “pace” e del «dialogo fra civiltà e culture» riposa nelle mani della Cina e della Russia. In effetti, la cosa gronda fiducia da tutte le parti, e quasi mi converto alla lungimirante visione strategica elaborata dal «maggiore generale cinese Wang Hayun (consulente presso il China International Institute for Strategic Society)». Quasi. Datemi il tempo di imparare un po’ di «marxismo-leninismo».
Dal post pubblicato su Facebook
实事求是 *
«Nel numero dedicato alla morte del Grande Condottiero, l’11 settembre del 1976, L’Economist scrive: “Mao deve essere accettato come uno dei grandi vincitori della storia. Per aver elaborato, contro le prescrizioni di Marx, una strategia rivoluzionaria incentrata sui contadini, che permise al Partito comunista di conquistare il potere a partire dalle campagne, e per aver diretto la trasformazione della Cina da società feudale, distrutta dalla guerra e dissanguata dalla corruzione, a Stato egualitario e unificato, nel quale nessuno muore di fame”» (A. Barbera, La stampa, 12 maggio 2014). Non «contro le prescrizioni di Marx», come se Mao avesse voluto seguire una strada originale rispetto alla rivoluzione proletaria marxiana, ma piuttosto sulla base di una concezione borghese del mondo messa al servizio di una rivoluzione nazionale-borghese centrata sull’iniziativa del vasto mondo rurale cinese**. Già Stalin aveva chiamato «socialismo» («in un solo paese») l’accumulazione capitalistica a tappe accelerate in Russia.
Quanto alla natura “egualitaria” dello stato cinese è meglio stendere un velo pietoso. Anzi funerario, come racconta Yang Jisheng, l’autore di Tombstone, The Great Chinese Famine, 1958-1962: «A quel tempo Yang Jisheng ha 36 anni, è iscritto al Partito ed è un “orgoglioso giornalista” dell’agenzia di Stato Xinhua. Ma la convinta adesione all’Utopia non gli impedisce di scavare attorno a quel che accadde fra il 1958 e il 1962, gli anni della grande carestia in cui suo padre se ne va, apparentemente per una tragica volontà della natura […] Il padre di Yang se ne va in tre giorni, ma per almeno dieci anni, fino alla fine delle sue ricerche, fino ai fatti di piazza Tienanmen, Yang non avrà piena consapevolezza di quali fossero le vere ragioni della Grande Carestia, dei suoi 36 milioni di morti in quattro anni, del perché masse di cinesi fossero finite in una condizione tale da spingere i più sfortunati – lo ha ricostruito lui stesso – che a cibarsi di escrementi di uccelli o delle carni dei propri defunti». Ho provato ad indagare quelle «vere ragioni» in Tutto sotto il cielo (del Capitalismo).
«Avevo 18 anni, ero studente e vivevo a pochi chilometri dal mio villaggio. Non c’era molto da mangiare, ma come immagino accadesse nelle scuole di Hitler e Mussolini una ciotola di riso me la davano tutti i giorni». L’”egualitarismo” come miseria di massa: un classico delle cosiddette utopie negative raccontate in diversi romanzi fantapolitici. Solo che questo è il mondo reale dell’accumulazione capitalistica, la quale, com’è noto, non è un pranzo di gala.
«”Quando eravamo tutti uguali, non si può dire fossi realmente infelice, ma il problema era che non avevo la più pallida idea di quale fosse la differenza fra essere felice o infelice. Ora lo so, e l’ho spiegata ai cinesi con una formula matematica”. Prende un pezzo di carta e scrive: “Il tasso di felicità è dato dal rapporto fra la qualità della vita attuale e quella passata. Alla formula completa manca solo il coefficiente: la quantità di informazioni a disposizione”. L’orgoglio del giornalista ha attraversato indenne la storia». Peccato che l’orgoglio da solo non è in grado di cogliere la radice sociale delle disgrazie.
Scrive M. Borghi: Con la sua ricerca completa e puntuale “Tombstone”, pubblicato a Hong Kong nel 2008 e subito vietato nel resto della Cina per ovvie ragioni, ha il merito di fare chiarezza sulla vera causa che portò alla morte di ben 36 milioni di persone (fra cui il padre adottivo dell’autore): l’economia pianificata. Quella gestione statale e burocratica che ancora oggi molti, dall’estrema sinistra all’estrema destra, sognano ancora, pur con accenti e modalità diverse. Speriamo che la lettura del saggio di Jisheng (che a breve verrà pubblicato in traduzione italiana da Adelphi) possa contribuire a far cambiare loro idea» (L’intraprendente, 12 maggio 2014).
Personalmente non ho avuto mai una grande simpatia, se mi si concede l’ironico eufemismo, per il Capitalismo di Stato, soprattutto per quello venduto al mondo (per la gioia degli anticomunisti) come «socialismo», ancorché «reale».
* Shí shì qiú shì: cercare la verità attraverso i fatti.
** «Nel caso dei Paesi arretrati che hanno bevuto l’amaro calice del colonialismo e dell’imperialismo, la rivoluzione contadina assume necessariamente anche una valenza nazionale, cioè a dire anticoloniale e antimperialista, senza che ciò esuberi minimamente dal quadro borghese. «Non vi può essere il minimo dubbio – scriveva Lenin – che ogni movimento nazionale può essere soltanto un movimento democratico-borghese, perché la massa fondamentale della popolazione dei Paesi arretrati consiste di contadini, che sono rappresentanti di rapporti borghesi capitalistici»1. Certo, il sincero rivoluzionario contadino di una volta si sarebbe ribellato dinanzi a questa impostazione “dottrinaria”, e avrebbe sostenuto che a lui il borghese e il capitalista piacevano più da morti che da vivi. Ma egli, proprio come Mao, non conosceva né la dialettica storica né il concetto marxiano di ideologia: non sempre – per usare un eufemismo – chi parla sa esattamente quale tendenza storica gli sta, per così dire, suggerendo il discorso, e per questo Marx invitava a studiare la storia al netto di quel che i suoi protagonisti pensano di se stessi.
[…]
L’unificazione economica e politica della Cina deve perciò diventare l’assoluta priorità di una forza sociale autenticamente nazionale, cioè borghese, nel senso storico, non puramente sociologico, della parola. E questo però in un contesto che non vede agire una forte classe borghese, e dove per giunta lo spirito nazionalistico di questa classe è assai indebolito in grazie dei profondi legami che fin da subito si sono instaurati tra capitale interno e internazionale. Pure forti sono i legami che legano la borghesia delle città ai proprietari terrieri. Come in India, anche in Cina la borghesia urbana parla una lingua internazionale, la lingua del capitale. Stando così le cose, la forza sociale che appare in grado di portare a termine l’unificazione della Cina nella nuova epoca storica abita nelle campagne cinesi: sono i contadini che non hanno nulla a che spartire con i grandi proprietari terrieri. Si tratta di mobilitare, disciplinare e organizzare questa immensa risorsa rivoluzionaria, della quale la borghesia cinese ha giustamente paura, anche perché la comparsa del proletariato sulla scena mondiale getta una inquietante ombra sui movimenti sociali a carattere democratico-nazionale che giungono in ritardo all’appuntamento con quello che, scomodando Hegel, possiamo chiamare Processo Storico Universale. È precisamente in questa complicata dialettica storica che viene a inserirsi il maoismo, che diventa il catalizzatore della rivoluzione nazionale-borghese, in parte per una consapevole scelta del PCC, in parte in virtù di tendenze oggettive che passarono largamente sopra la sua testa» (Tutto sotto il cielo – del Capitalismo).
Leggi anche (vedi altri post nella categoria Cina):
XI JINPING E IL SOGNO CON CARATTERISTICHE CINESI
LE RADICI DELLE PANZANE SULLA CINA “SOCIALISTA”
L’AFRICA SOTTO IL CELESTE IMPERIALISMO
Da Facebook
M. scrive:
«Perdonate questo veloce e sicuramente banale spostamento del tema. Premesso che valuto solidissimo l’argomento di Sebastiano e che per il post in questione non si sarebbe forse potuto fare altrimenti, mi chiedo (problematicamente) se per caso, in generale, non possa essere più efficace condurre una critica del capitalismo di stato spacciato per socialismo utilizzando gli strumenti acquisiti negli anni, senza necessariamente riferirsi con insistenza alle battaglie del passato, come quella contro lo stalinismo. Il mio sospetto è che gli avversari – che sappiamo appartenere alle più svariate scuole di pensiero politico di destra e di sinistra – non riconoscendosi nella macrocategoria dello ‘stalinismo’, si traggano fuori dal bersaglio della critica o liquidino sbrigativamente queste preziosissime analisi confinandole tra i frutti tardivi di fantasmi del passato in cerca di una rivincita fuori tempo massimo».
La mia “risposta”:
È una “problematica” che condivido. Lo sforzo va fatto, superando la linea di minor resistenza critica offerta dal rodato antistalinismo praticato nel corso di decenni. D’altra parte, come sempre, la mia critica cerca di chiarire alcuni concetti a beneficio del potenziale lettore che intenda approcciarsi al mondo con curiosità. Dare dello stalinista allo stalinista non è in cima ai miei pensieri. Per questo quando lo prendo di mira in modo strumentale solo per cercare di veicolare alcuni concetti fondamentali il dubbio di alimentare una contesa con la testa rivolta all’indietro mi viene. Ti ringrazio per avermi permesso di esplicitarlo. Ciao!
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