Su un post di qualche giorno fa, scrivendo a proposito dei «cosiddetti economisti eterodossi, ossia di scuola keynesiana e di scuola “marxista”», facevo notare che «non sempre questa distinzione ha un senso». Carlo Formenti, bontà sua, ha voluto subito confermare la mia bizzarra tesi.
Lo ha fatto recensendo Marx & Keynes. Un romanzo economico (Jaca Book) di Pierangelo Dacrema. L’autore di questo «romanzo economico» fa incontrare «questi due giganti del pensiero moderno» nella dimensione del fantastico (anche troppo), per farli discutere intorno all’«economia finanziarizzata e marchiata da spaventosi tassi di disuguaglianza che caratterizza questo indigesto inizio di secolo». «In quale misura», si chiede quello che a giusta ragione è considerato uno dei maggiori teorici del Capitalismo cognitivo/digitale in Italia, «i due potrebbero utilizzare le categorie analitiche da loro inventate per capire cosa sta succedendo al nostro mondo? Penserebbero di avere sbagliato tutto o troverebbero una qualche conferma, ancorché parziale, alle loro diagnosi e previsioni? Infine, se fosse loro concesso di dialogare, come giudicherebbero le rispettive teorie: le riterrebbero almeno parzialmente confrontabili o del tutto alternative e incompatibili?» (MicroMega, 19 giugno 2014).
Ebbene, come finisce il dialogo fra i due Giganti, («i quali, malgrado le radicali differenze di carattere, esperienza ed estrazione sociale sembrano fatti per intendersi alla perfezione»)? È presto detto: «i due sembrano alla fine concordi nell’attribuire al denaro – a un denaro “impazzito” e sviato dalla sua originaria funzione di medium dello scambio – la colpa della catastrofe che stiamo vivendo, per cui la seconda vita della coppia sarà destinata alla elaborazione dei principi di una economia post monetaria».
Che delusione, il Marx rincitrullito dal Finanzcapitalismo fantasticato da Dacrema per il sollazzo dottrinario di Formenti e di tutti i tifosi dell’alleanza Marx-Keynes in funzione antiliberista. Personalmente preferisco di gran lunga l’avvinazzato di Treviri che, contro ogni concezione feticistica del meccanismo economico (ad esempio, quella proudhoniana da egli derisa nella Miseria della filosofia), individuò nel denaro non una cosa, una tecnologia economica basata sulla naturale socialità degli uomini, così inclini a scambiarsi ogni genere di cose per la reciproca soddisfazione, ma piuttosto l’espressione di un rapporto sociale di dominio e di sfruttamento il cui presupposto e il cui risultato è la produzione non di valori d’uso (beni) destinati alla mera soddisfazione di bisogni individuali e collettivi, ma di valori di scambio (merci) la cui ragion d’essere sta unicamente nella loro natura di contenitori di valore (valore e plusvalore), base materiale di ogni forma di profitto e di rendite. Senza la misura astratta del valore di scambio, radicata nell’altrettanto astratto (cioè sociale) lavoro vivo, il denaro non sarebbe nemmeno concepibile: altro che «originaria funzione di medium dello scambio»!
Come già avevano capito gli economisti “classici”, il segreto del denaro (e di tutto ciò che a esso fa in qualche modo capo, in modo diretto o mediato) è il lavoro sociale: tutto il resto non è che circolazione di ricchezza fittizia, teologica moltiplicazione dei pani e dei pesci (ad esempio sottoforma di derivati e sottoderivati), arricchimento dell’uno ai danni dell’altro, creazioni di bolle speculative che fanno il successo (o la disgrazia) degli investitori – e dei creatori di balle dottrinarie intorno al Capitalismo 2.0.
Insomma, anche nel XXI secolo il denaro presuppone il mondo capitalistico, a partire da quella cosiddetta “economia reale” fondata sul lavoro salariato (cioè sfruttato) che tanto piace ai miserabili cultori dell’etica del lavoro e del “giusto profitto” ottenuto attraverso il “duro ma dignitoso” lavoro che la società assegna ai detentori di capitale. È questo mondo, sussunto in maniera sempre più stringente e totalitaria alla bronzea legge del profitto, che ha reso storicamente possibile il dominio del capitale finanziario su ogni forma di attività economica e che rende possibile ogni “avventura speculativa” tutte le volte che al capitale monetario si presenta l’occasione di più alti, rapidi e comodi profitti che non quelli prospettati dalla “economia reale”. “Impazzito” non è il denaro, ma un regime sociale sequestrato nella dimensione dell’astratto valore di scambio, e quindi nella maligna dimensione del lavoro salariato, il quale presuppone e pone sempre di nuovo, con ossessiva coazione a ripetere, il rapporto sociale capitalistico della vigente epoca storica.
Uscire dalla dimensione dell’economia monetaria significa necessariamente superare la dimensione capitalistica, a cominciare dalla magagna suprema: il lavoro salariato, che poi è un altro modo di chiamare il Capitale. Puntare i riflettori sul “denaro impazzito” significa continuare ad alimentare il luogo comune del denaro come sterco del Demonio che da sempre ha facile presa sull’opinione pubblica, soprattutto su quella parte di essa più colpita dalle crisi economiche. I “populisti” e i “demagoghi” d’ogni tempo e tendenza politica hanno sempre trovato il modo di cavalcare quel luogo comune ai fini della conservazione sociale.
Secondo Formenti il Marx e il Keynes immaginati da Dacrema si sono «resi conto di essere stati resuscitati per compiere una missione precisa»: salvare il Capitalismo dalle sue stesse contraddizioni (come si evince anche dalle riflessioni di Formenti)? Una cosa del genere appare plausibile per un Keynes, il quale operò sempre ed esplicitamente in questo senso. La stessa cosa mi appare ridicola oltre ogni misura in rapporto al comunista tedesco, anche sul terreno della più fervida immaginazione. Ma naturalmente ognuno è libero di immaginare ciò che più gli aggrada, tanto più se il “cane morto” è morto davvero e non può più mordere chi lo chiama inopinatamente in causa. (La cosa ovviamente vale anche e soprattutto per chi scrive, che non a caso ricusa di definirsi col nome del Moro di Germania, pace all’anima sua).
Dimenticavo un dettaglio di una certa pregnanza: «Per compiere quest’ultima missione Marx e Keynes saranno trasformati in docenti di economia all’Università di Bangor, da dove inizieranno a diffondere il nuovo verbo». Una conclusione più “gramsciana” di questa difficilmente si sarebbe potuta concepire: la funzione egemonica dell’intellettuale ha dunque ancora qualcosa da dire! Perlomeno sul piano della fantasia…
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credo che una lettura del libro potrebbe dar luogo a commenti più incisivi
La ringrazio del consiglio. Avevo comunque deciso di leggere il suo libro, che si prospetta in ogni caso molto interessante. La saluto cordialmente.
grazie a lei, anch’io la saluto cordialmente