Era dai gloriosi tempi dell’amicizia fraterna con l’Unione Sovietica che il “compagno” Fidel non respirava una simile aria di orgoglioso “antimperialismo”. Faccio della facile ironia, sperando di riuscirci.
Il mitico (o famigerato) Fidel Castro Ruz ha commentando con «vivo entusiasmo» il doppio tour politico-affaristico di Putin e Xi Jinping in America Latina, e non ha mancato di disturbare le anime di Marx e Lenin, le cui «utopie ispirarono la Russia e la Cina, i paesi chiamati a guidare un mondo nuovo che permetta la sopravvivenza umana, se l’imperialismo non scatena prima una guerra criminale e sterminatrice» (Granma internacional, 23 luglio 2014). Inutile precisare che quando il “compagno” Fidel parla di imperialismo allude al solo «campo occidentale» a guida statunitense.
«L’apporto che la Russia e la Cina possono dare alla scienza, alla tecnologia e allo sviluppo economico in Sudamerica e nei Caraibi, è decisivo», ha sostenuto Fidel. «I grandi avvenimenti della storia non si forgiano in un giorno. Enormi prove e sfide di crescente complessità s’intravedono all’orizzonte. È ora di conoscere un po’ di più la realtà». E la realtà parla di un crescente attivismo imperialista a cura della Cina e della Russia.
Reduci dallo “storico” evento di Fortaleza, che ha visto il lancio in grande stile della Nuova Banca di Sviluppo targata BRICS, i due leader internazionali non hanno perso l’occasione per rafforzare la presenza dei loro rispettivi Paesi in un’area geopoliticamente assai sensibile per gli interessi statunitensi. In realtà il parallelo, e in parte concorrente, attivismo della Russia e della Cina in America Latina ha messo in luce una volta di più le debolezze strutturali dell’imperialismo russo e la forza strutturale dell’imperialismo cinese.
Infatti, se la Russia ha condonato a Cuba un debito da 32 miliardi che con ogni evidenza non era più esigibile, ha venduto al Brasile un sistema di difesa anti-aerea e ha firmato con l’Argentina un’intesa per la cooperazione in campo nucleare, la Cina ha portato a casa ben più di questo. Basti pensare ai numerosi accordi sottoscritti da Xi Jinping e dalla Premier argentina Cristina Kirchner, i quali prevedono forti investimenti cinesi in un’Argentina costantemente sull’orlo del baratro economico, tanto più dopo la sentenza della Corte Suprema di Washington sui bond argentini “ristrutturati” dopo il default del 2001. Il viaggio del presidente cinese Xi Jinping in Argentina si è concluso con la firma di un accordo multimiliardario tra i due paesi che prevede finanziamenti per le infrastrutture e uno scambio valutario da 70 miliardi di yuan, che aiuterà il paese sudamericano a ripagare i propri creditori difendendo allo stesso tempo la valuta nazionale. Secondo l’accordo inoltre Pechino presterà 2,1 miliardi di dollari all’Argentina per la ristrutturazione del suo sistema ferroviario e 4,7 miliardi di dollari per la costruzione di dighe idroelettriche nel sud del paese (Il Sole 24 ore, 21 luglio 2014). Non bisogna dimenticare che la China National Offshore Oil è la seconda azienda petrolifera del Paese, alle spalle del gruppo nazionale Ypf. «Con il Venezuela, di cui la Cina è ormai il secondo partner commerciale dopo gli Usa, la Cina ha rinnovato una linea di credito per 4 miliardi di dollari, firmando 38 accordi. Ma il suo obiettivo locale è soprattutto il petrolio della Faja del Prinoco, cui ha destinato un investimento da 2,8 miliardi di dollari» (Libero, 22 luglio 2014).
La Russia esporta, perlopiù, armi e politica; la Cina esporta soprattutto capitali e merci, ma anche armi e politica. Il Celeste Imperialismo non si fa mancare niente, ed è sempre più vorace. Il suo appetito cresce soprattutto quando si dà l’occasione di “fare shopping” nei Paesi messi in ginocchio e svalorizzati dalla crisi economica: vedi la Grecia, solo per fare un esempio che ci riguarda direttamente come europei.
Per la Cina adesso non solo l’Africa*, ma anche l’America Latina è molto vicina. A portata di Capitale, se così posso esprimermi.
* Sul Foglio del 18 luglio è apparso un interessante articolo, a firma Alessia Amighini, che mette in relazione i cambiamenti che stanno intervenendo nella struttura sociale della Cina, quantomeno nelle sue aree capitalisticamente più dinamiche, con l’espansione in Africa del capitale cinese. Ne cito alcuni passi:
«Finora la Cina è cresciuta grazie alla enorme disponibilità di manodopera, soprattutto giovane e a buon mercato, ma le cose stanno cambiando rapidamente. Anche nel paese più popolato del mondo, la manodopera inizia a scarseggiare. E i salari a crescere. L’introduzione di tecnologie avanzate di produzione nella manifattura è uno degli ingredienti principali del cambiamento strutturale che sta interessando l’economia cinese, insieme agli investimenti in infrastrutture tecnologiche, di comunicazione e di trasporto, all’aumento della produttività del settore agricolo grazie alla meccanizzazione di semine e raccolti, e alla progressiva urbanizzazione che permette a milioni di lavoratori rurali di passare dall’agricoltura alla manifattura e ai servizi e di trovare occupazioni meglio retribuite in città. […]
È proprio in molti paesi africani che le imprese cinesi stanno trasferendo la produzione di alcuni settori ad alta intensità di manodopera, come il tessile-abbigliamento e la lavorazione di metalli e minerali. Il cambiamento strutturale in Cina potrebbe oggi avere un ruolo propulsivo sullo sviluppo africano, anche se finora, quantomeno in occidente, sono stati più dibattuti i potenziali effetti negativi: gli investimenti cinesi in Africa – uniti alle importazioni africane di beni dalla Cina – potrebbero spingere le più deboli e meno competitive imprese africane fuori dal mercato.
Tuttavia, sono molti i canali attraverso i quali la presenza cinese in Africa può favorire il cambiamento strutturale. Quelli di cui si parla più spesso sono: creazione d’infrastrutture – che concentrano l’attenzione cinese, dopo vari decenni di sotto-investimento da parte del l’aiuto allo sviluppo tradizionale – aumento della capacità produttiva e dell’occupazione, trasferimento tecnologico e sviluppo del capitale umano».
Altri dati interessanti sull’avanzata del Celeste Imperialismo in Africa:
«Con l’eccezione dell’immediato vicinato asiatico, l’Africa è per molti versi il teatro geopolitico e lo spazio economico in cui più percepibile è la proiezione cinese verso l’estero.
Pechino sta sviluppando una sofisticata public diplomacy, che mira ad accreditare la cooperazione sino- africana come mutualmente vantaggiosa, e non paravento di mire neo-coloniali. In questo quadro assumono una particolare rilevanza le Zone economiche speciali (Zes) su cui la Repubblica popolare cinese (Rpc) investe capitali e energie politiche notevoli. Pur nel quadro di una ripresa dell’economia mondiale ancora debole, la crescita dello scambio commerciale tra la Rpc e il continente africano continua a ritmi sostenuti. Secondo fondi ufficiali, nel 2012 il valore dell’interscambio commerciale ha raggiunto 198 miliardi di dollari USA. Secondo Xinhua, nel 2013 tale valore ha superato i 200 miliardi di dollari. Allo stesso modo il flusso d’investimenti diretti esteri (Ide) da Pechino verso l’Africa – nonostante le statistiche non siano del tutto attendibili – si è moltiplicato nel corso dell’ultimo decennio: nel 2012, a circa 2.000 società cinesi operanti nel continente africano – quasi la metà rispetto alle 5.090 disseminate nel mondo – è corrisposto un flusso di Ide netto pari a 2,5 miliardi di dollari. Nel 2005 l’ammontare era di 390 milioni» (A. P. Quaglia, L’avanzata della Cina in Africa, Orizzonte Cina, maggio 2014).
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