TOGLIATTI: L’ITALIANISSIMO STALINISTA

1223728272548_fScrive Luigi Pandolfi: «Non c’è dubbio che il PCI sia stato, con una certa coerenza almeno fino ai primi anni settanta, parte integrante del movimento comunista internazionale, che aveva nell’Unione sovietica e nell’esperienza della Rivoluzione d’Ottobre, il suo punto di riferimento storico-politico e ideologico, la sua radice fondante. Un’ovvietà, si potrebbe dire». Non c’è dubbio. Certo, andrebbe aggiunta una quisquilia, una pinzillacchera, una robetta da niente, una sottigliezza, quasi. Questa: il «movimento comunista internazionale» cui Pandolfi fa riferimento non aveva nulla di comunista, ma del comunismo esso fu piuttosto l’esatto contrario, tanto nella teoria quanto, soprattutto, nella prassi.

Se invece per «comunismo» Pandolfi vuole intendere, alla stregua dell’italico pensiero “marxista” mainstream, l’ideologia stalinista elaborata nella Chiesa Moscovita (lo stalinismo è qui inteso come espressione della controrivoluzione antiproletaria e degli interessi della nazione, capitalista e imperialista, russa), beh allora taccio e mi scuso. E soprattutto ricuso di definirmi “comunista”, giusto per non essere confuso con una concezione del mondo e con una politica che ho sempre combattuto perché mi apparivano irriducibilmente ostili alla lotta di classe e al progetto di emancipazione rivoluzionaria delle classi subalterne e dell’intera umanità. Emancipando se stesso, il proletariato emancipa l’intera umanità, aveva detto il comunista di Treviri. Già, comunista, proprio come Stalin, Togliatti e Berlinguer…

imagesEcco un’altra sicurezza che ci offre, bontà sua, Pandolfi: «Altrettanto vero è che, già a partire dai primi anni quaranta, segnatamente con il ritorno di Togliatti in Italia nel 1944, il Partito Comunista Italiano abbia profondamente rinnovato la sua strategia di lungo periodo, ragionando sulla necessità di inserirsi pienamente nel sistema democratico in formazione, adeguandosi sia organizzativamente che culturalmente alla nuova evenienza. La “svolta di Salerno” non fu un espediente tattico per prendere tempo, in attesa del momento propizio per la rivoluzione, per l’instaurazione in Italia di un regime politico sul modello sovietico. No. Si trattò di una svolta vera, con implicazioni importanti sia sul piano teorico e programmatico che sul piano organizzativo». C’è da dire che, in primo luogo, la cosiddetta svolta fu determinata dallo scenario internazionale disegnato con bombe e carri armati dalle Potenze Alleate, le quali, com’è noto, si spartirono il mondo secondo le note «sfere di influenza» (Conferenze di Teheran, Yalta, San Francisco, Potsdam); questo spiega ampiamente «l’adesione del PCI al nuovo corso democratico italiano». Scriveva Ernesto Galli Della Loggia dopo la pubblicazione dei materiali inediti provenienti dagli archivi del PCUS e dal ministero degli Affari Esteri russo (ma anche dalle carte dell’ambasciatore sovietico nell’Italia del Sud Michail Kostylev): «È ormai inoppugnabilmente evidente che essa [la svolta di Salerno] fu voluta da Stalin addirittura contro l’opinione di un Togliatti ancora nel febbraio 1944 orientato in senso antibadogliano» (Togliatti fedelissimo di Stalin, Il Corriere della sera, 8 novembre 1997).

In secondo luogo, il PCI non attendeva più (né, men che meno, preparava) il «momento propizio per la rivoluzione» già dalla seconda metà degli anni Venti, e certamente da quando la controrivoluzione stalinista spazzò via radicalmente (in radice, contrariamente a quanto credette il grande Trotsky, teorico del Termidoro e della burocrazia come nuova classe dominante) le conquiste della Rivoluzione d’Ottobre. Qui rinvio al mio studio sulla Rivoluzione d’Ottobre (Lo scoglio e il mare).

L’instaurazione in Italia di un regime politico sul modello sovietico in ogni caso non avrebbe implicato una rivoluzione sociale di stampo “marxista”, come sostiene Pandolfi, proprio a causa della natura capitalistica (e imperialista) del regime sovietico stalinista.  In realtà «i due Togliatti», quello stalinista e quello democratico, il servitore scrupoloso dello Stato Russo e il geniale interprete degli interessi nazionali del Bel Paese, vanno considerati le due facce della stessa escrementizia medaglia. Tra il “comunista” Ercole e lo statista Togliatti ci fu assoluta e “organica” continuità.

Con la mitica svolta di Salerno il PCI di Togliatti non ruppe con «i fondamentali della teoria marxiana della storia», introducendo nel “comunismo” italiano massicce dosi di principi democratici e socialdemocratici («Strategicamente i comunisti non si danno come obiettivo l’abbattimento dello Stato borghese, ma la sua progressiva riforma»), come cerca di accreditare Pandolfi; semplicemente esso si adattò ai nuovi compiti che la situazione internazionale e la situazione interna assegnavano a un partito borghese con le caratteristiche che il PCI aveva assunto nel tempo. Detto en passant, dopo la caduta di Mussolini il centralismo politico e ideologico di matrice stalinista di quel partito funzionò come un’irresistibile calamita per molti ex militanti fascisti, ancora bisognosi di un partito forte e “antiborghese” – lo stesso Mussolini repubblicano riprese negli ultimi scampoli della sua esistenza la vecchia retorica “antiborghese” degli anni dell’ascesa al potere.

Diventando “democratico” e “socialdemocratico”, accettando cioè le regole democratiche di stampo occidentale, il PCI togliattiano non fece altro che adeguarsi a una situazione mondiale che vedeva l’Italia appartenere al “campo democratico” dominato dagli Stati Uniti, i quali imposero appunto la “democrazia” alle nazioni sconfitte finite nella sua potentissima forza gravitazionale imperialistica: Italia, Germania e Giappone. Dal canto suo, l’imperialismo russo impose il “socialismo” all’area imperialistica di sua competenza: l’Europa dell’Est.

«Sia la svolta di Salerno che gli strappi berlingueriani, non misero mai in discussione il profilo anticapitalistico del PCI, nonostante la continua ricerca, sul piano teorico, di spunti per l’elaborazione di una specifica via nazionale al socialismo». Sul «profilo anticapitalistico del PCI» da Togliatti a Berlinguer rimando ai miei post dedicati al tema.  Per quanto mi sforzi, non riesco proprio a capire dove Pandolfi possa trovare, non dico un «profilo anticapitalistico», ma singoli episodi di anticapitalismo nella storia del PCI dal Migliore Palmiro all’Onesto Enrico. Misteri della fede?

images280FLBYOIl fatto è che innamorarsi delle parole, soprattutto se roboanti,  e delle frasi fatte, soprattutto se “rivoluzionarie” e suggestive, è un vizio tipico dell’intellettuale in generale, e dell’intellettuale italiano in particolare. A suo tempo Antonio Labriola ebbe modo di picchiare duro contro il massimalismo parolaio dell’italico intellettuale socialista del suo tempo. Più tardi, gli intellettuali “organici” al cosiddetto movimento comunista devoto a Mosca (e poi anche/o a Pechino) andarono in visibilio per le parole e le frasi «violentemente rivoluzionarie» scritte e pronunciate dai capi, senza troppo indagare sulla loro reale pregnanza, sul loro concreto fondamento sociale, sull’aderenza alle cose cui quelle parole e quelle frasi rimandavano. Ciò spiega perché l’intellettuale “comunista” poteva discorrere nei convegni di alienazione capitalistica e, al contempo, sostenere la «storica necessità» del compromesso storico con la Democrazia Cristiana.

Citando la «specifica via nazionale al socialismo» come prova della soluzione di continuità fra vecchio e nuovo partito, Pandolfi si muove in realtà nell’ambito concettuale dello stalinismo (e del maoismo, che del primo fu appunto un’applicazione nazionale).

Il PCI fu certamente «un partito di massa», come sostiene Pandolfi in chiave apologetica; ma non fu, nella maniera più assoluta, un «partito di classe», nell’accezione marxiana – e quindi non sociologica – del concetto. D’altra parte, solo un partito borghese può essere “di massa” (come lo fu anche la Democrazia Cristiana) anche quando il dominio capitalistico non è minacciato da alcun pericolo proveniente dalle classi sfruttate e oppresse, ossia nei lunghi periodo di bonaccia e di riflusso. Il carattere fortemente minoritario degli autentici «partiti di classe» non risponde a una scelta politico-ideologica, ma registra sul piano politico una realtà sociale ostile all’iniziativa dei rivoluzionari.

D’altra parte, è lo stesso concetto di partito di massa così com’è venuto fuori dall’elaborazione teorica e dalla prassi politica della socialdemocrazia e dello stalinismo che deve mettere in discussione chi ha a cuore il superamento di questa società, che tutto massifica e mercifica. Solo se la “massa” diventa classe in senso marxiano, cioè a dire se essa conquista la capacità di un’autonoma iniziativa anticapitalistica, possiamo parlare di un passo in avanti sul terreno della lotta di emancipazione.

«Vien da chiedersi, a questo punto, cosa rimanesse di “comunista”, proprio da un punto di vista semantico, nell’identità e nella strategia dei comunisti italiani. Se in politica, come nella vita in genere, le parole traggono il proprio significato sia dalla loro capacità di indicare oggettivamente una realtà, sia dall’uso che storicamente se n’è fatto, nel caso del PCI potremmo affermare che l’aggettivo “comunista” risulterebbe inappropriato per definirne la vera identità o, comunque, a riassumerne la sua storia complessa ed originale». Ed io che ho detto?

imagesLBF428G5Passiamo, per concludere, a un tipo che di “comunismo italiano” se ne intende. «Dice Emanuele Macaluso che è qui, al Verano, dov’è sepolto Togliatti: “Ho lavorato cinque anni con Togliatti, e fu decisivo per la mia crescita politica e culturale. […]  È un padre della nostra democrazia, insieme con Alcide De Gasperi, con Pietro Nenni, con Ugo La Malfa, uomini che ci hanno insegnato come si stabiliscono le regole della convivenza politica. Ma sono tempre che oggi, purtroppo, non ci sono più» (La Stampa, 22 agosto 2014). E già, come dice il vecchio migliorista nostalgico del Migliore, non ci sono più i padri della patria di una volta!

Leggi:

RENZI E TOGLIATTI

IL REALISMO STORICO E POLITICO DI ENRICO BERLINGUER

IO E LA SINISTRA

4 pensieri su “TOGLIATTI: L’ITALIANISSIMO STALINISTA

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  4. il ruolo di togliatti nel secondo dopoguerra è innegabile,la sua vittoria è stata quella di ottenere un predominio culturale,senza uNA GRANDE VITTORIA POLITICA,il suo asso nella manica è stato GRAMSCCI,DA NOTARE Che i grandi scrittori italiani da Levi a Calvino,passarono per il pci per poi allontanarsi dopo i fatti di Ungheria,la demonizzaZIONE DEL FASCISMO Si TRASFORMO IN ESALTAZIONE DELLO STALINISMO,TOGLIATTI PIù STALINISTA DI STALIN,CHE SAPEVA CHE DOPO AVER OTTENUTO TUTTO L’EST EUROPEO NON POTEva ANDARE OLTRe ,SE LA SVOLTA DI SAlerno fu voluta da Stalin significa che la storia italiana deve essere riiscritta,

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