La “proposta indecente” di Bashar el Assad agli odiati nemici americani ha fatto molto rumore. Molto rumore per nulla, a giudicare dalla freddezza con cui il Presidente Obama sembra aver accolto la “generosa” iniziativa politico-diplomatica del rais siriano. Ma la situazione è, come si dice, fluida, e scenari impensabili solo pochi giorni fa oggi possono concretizzarsi a dispetto di ogni logica nutrita a pane e ideologia – filo o anti-occidentale.
Frederic Hof, ex (dal 2009 al 2012) consigliere sulla Siria per il Dipartimento di Stato, supplica gli americani a non infilarsi nella «trappola mortale» in agguato in Siria: «Il capo della più grande famiglia criminale della Siria, il presidente Bashar el Assad, aspetta, come un coccodrillo, che il pescatore americano cada fuori dalla barca. Per Assad l’occasione è notevole. Se giocherà bene le sue carte, grazie all’assist dell’inazione americana, potrà tornare nella società civile mentre altri fanno il lavoro sporco contro lo Stato islamico al posto suo. […] La leadership americana deve creare meccanismi che permettano un giorno di processare Bashar el Assad e i suoi principali sostenitori per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Questi sono i passi necessari per smascherare le menzogne di Assad». (Il Foglio, 29 agosto 2014). E i passi necessari per mascherare le menzogne di Obama? Ci sarà, «un giorno», un tribunale che giudicherà i crimini di guerra perpetrati dagli americani? D’altra parte, la guerra imperialista in sé, soprattutto quella fatta passare, con suprema ipocrisia, come “umanitaria”, è un crimine contro tutto ciò che odora di umano. E quando parlo di Imperialismo e di guerra imperialista non alludo solo agli Stati Uniti, ma a tutti i protagonisti dell’attuale contesa capitalistica per la spartizione del mondo secondo le direttrici geopolitiche e geoeconomiche create negli ultimi tre decenni dal processo di globalizzazione.
«L’Amministrazione Obama ha risposto bene alla proposta, con un rifiuto sdegnato. Tuttavia, il pericolo rimane nascosto nelle acque dell’intrigo politico siriano». Reggerà il «rifiuto sdegnato» alla prova dei fatti che non mancheranno di prodursi nelle prossime ore nell’infuocato quadrante mediorientale? Vedremo. Intanto, come informa Mattia Ferraresi, «Il portavoce della Casa Bianca, Josh Earnest, è corso in televisione di prima mattina a cercare di correggere il messaggio uscito in modo maldestro dalla bocca del presidente il giorno prima. A quel punto però non c’era operazione di “damage control” che tenesse o rilievo semantico che potesse attutire gli effetti di una formula che è diventata il nuovo tormento del presidente: “We don’t have a strategy yet”, non abbiamo ancora una strategia. Earnest l’ha spiegata così: il presidente non ha “un piano in questo momento” per combattere lo Stato islamico in Siria, ma ha un “piano generale” contro lo Stato islamico in Iraq» (Il Foglio, 30 agosto 2014). Ma anche se lo avesse, un piano adeguato alla situazione siriana, pensate che il Presedente ne discuterebbe pubblicamente in una conferenza stampa (magari dando i dettagli delle operazioni militari)? È d’altra parte vero che gli americani non vogliono impegnarsi in un conflitto di largo respiro che si annuncia tutt’altro che semplice, sotto tutti punti di vista, senza aver prima esplorato strade meno impervie, e certamente essi non intendono accollarsi il lavoro sporco per conto del fantomatico Occidente, il cui risultato potrebbe risolversi in un rendere più agevoli gli affari economici e geopolitici dei kantiani amici europei. Detto en passant, solo una bella guerra “umanitaria” potrebbe risollevare nei sondaggi lo scialbo Hollande, come accadde a Sarkozy ai tempi dei raid aerei contro il regime di Gheddafi. La Grandeur è una merce che si vende ancora bene in Francia, soprattutto in tempi di deflazione…
Scriveva Lorenzo Cremonesi sul Corriere della Sera del 25 agosto: «Non va dimenticato che le prime manifestazioni contro la dittatura siriana nella primavera 2011 furono pacifiche e non armate. Fin da subito fu invece la gravissima repressione militare a gettare la popolazione nelle braccia dei primi gruppi armati. Assad non lasciò mai alcuno spazio all’opposizione politica interna. La tortura eletta a sistema, l’umiliazione sistematica dei prigionieri politici, i bombardamenti dei villaggi indifesi, gli assassinii dei medici e infermieri, il disprezzo per i diritti civili più elementari si manifestarono in un crescendo intollerante e brutale. Solo chi ha assistito alla repressione in Siria può non dubitare che Assad abbia utilizzato le armi chimiche contro la sua gente. E da violenza nasce violenza. Triste e paradossale che qualcuno possa prendere in seria considerazione l’offerta di Assad». Non so se il Presidente degli Stati Uniti stia prendendo in considerazione in queste travagliate ore (vedi anche il fronte occidentale, sempre più surriscaldato) l’inaspettata offerta del macellaio di Damasco, e probabilmente, anche in questo caso, non vedremo mai una conferenza stampa congiunta Obama-Assad che ci metterà a giorno dell’avvenuto accordo anti-Isis fra USA e Siria. Se esso è già operativo, come sostengono diverse fonti giornalistiche basate tanto a Occidente quanto a Oriente, soprattutto gli americani hanno interesse a non renderlo pubblico, anzi a negarlo senz’altro, mentre il regime siriano, sempre più con l’acqua alla gola, avrebbe piuttosto l’interesse contrario. Probabilmente Assad cerca di afferrare un’insperata occasione di rivincita sul piano politico-diplomatico che possa accreditarlo come un interlocutore credibile e indispensabile per arginare la minaccia del fondamentalismo islamico più aggressivo.
D’altra parte, «Solo l’apparato di proiezione di forza degli Stati Uniti è adatto a sterminare l’IS in tempo breve, in quanto la Russia non dispone dei sistemi d’arma necessari ad un rapido e risolutivo intervento, e non avrebbe neanche la capacità di schierare una forza militare efficiente in tempo breve. La tattica attendista della Russia in Ucraina, potrebbe aver inciso sulla scelta di al-Assad di rivolgersi all’Occidente, e questo si traduce in una Siria alle strette che per evitare di essere sconfitta, ha preferito chiedere aiuto ai suoi oppositori. Pertanto si sta configurando un’alleanza insolita, in quanto gli Stati Uniti hanno fornito armi alle truppe ribelli per rovesciare la dittatura di al-Assad, attività che prosegue tutt’ora, ma solo in favore degli insorti più moderati» (G. Caprara, Notizie geopolitiche, 28 agosto 2014). Come, nel sempre più intricato e insanguinato groviglio siriano, sia possibile distinguere fra insorti “buoni” e insorti “cattivi”, è cosa che esubera la mia modesta capacità di comprensione. Non c’è dubbio, ad esempio, che ai tempi dell’invasione sovietica dell’Afghanistan il futuro pianificatore dell’11 Settembre si presentasse con il volto misericordioso dell’amico più convinto e risoluto dell’imperialismo americano. Ma, si sa, il mondo è pragmatico.
Comunque sia, la “proposta indecente” di Assad a me non appare né triste né, tanto meno, paradossale, perché so da sempre che l’imperialismo, piccolo o grande che sia, non agisce sulla scorta di motivazioni etiche e ideali, secondo le fumisterie create scientificamente dall’Ufficio Propaganda (vedi Prima e Seconda carneficina mondiale), bensì perseguendo obiettivi di varia natura, tattici e strategici, che possano rafforzarlo ed espanderlo, o non intaccarlo in maniera irreparabile nelle avverse circostanze. La storia passata e recente è piena di questi “tristi paradossi”, e soprattutto gli americani si sono rivelati i più spregiudicati nella ricerca di alleanze tattiche. L’Afghanistan insegna. Per citare il solito Deng Xiaoping, non importa il colore del gatto, purché questo acchiappi il topo, secondo la vecchia logica che vuole il nemico del mio nemico essere mio amico, almeno tatticamente, a tempo determinato, per così dire. Tragico, più che triste, mi appare semmai un mondo ancora completamente immerso nella hobbesiana dimensione della violenza sistemica: militare, economica, psicologica, esistenziale.
Anche Leonardo Mazzei non si stupisce neanche un po’ dinanzi alla ventilata possibilità di un’alleanza di fatto USA-Siria in funzione anti-ISIS. Scrive Mazzei criticando «certuni che, pur dichiarandosi “antimperialisti” sono soltanto dei “geopoliticisti”» (bravo!): «Secondo costoro la rivolta scoppiata in Siria nel marzo 2011 è stata solo una manovra pilotata dagli americani. Ed una creatura americana sarebbe l’ISIS, mentre il governo Assad sarebbe stato in questi anni il faro della resistenza antimperialista in Medio Oriente. Uno schema messo a dura prova dai recenti avvenimenti. Di più: semplicemente ridicolizzato dai fatti. […] Nessuno stupore dunque – ed al tempo stesso nessuna certezza – sulla possibile alleanza Obama-Assad. Un’alleanza per altro ben vista da Israele. Se alleanza sarà, noi non ci stupiremo. Ma che diranno i sostenitori della visione “geopoliticista”, quella che ritiene che la rivolta siriana sia solo un complotto americano contro Assad?». Probabilmente inventeranno qualcosa di estremamente “antimperialista” e “dialettica”, non c’è da dubitarne. A tal riguardo, aspetto con ansia di leggere cosa scriverà il grande filosofo dei processi sociali Diego Fusaro.
Dopo aver sviluppato un’analisi della situazione mediorientale, soprattutto in rapporto agli interessi statunitensi, che in gran parte condivido, Mazzei conclude: «L’imperialismo americano rimane il nostro principale nemico. Guai a dimenticarlo anche per un solo attimo». Qui non concordo affatto. A mio avviso «il nostro principale nemico» è l’Imperialismo colto nella sua totalità necessariamente contraddittoria e conflittuale. Di più, come proletario sfruttato in Italia io riconosco come mio nemico principale l’imperialismo italiano, e poi quello europeo, se proprio mi vedo costretto a gerarchizzare la mia inimicizia politico-sociale. Come si traduce, ad esempio, la tesi di Mazzei nel caso della crisi ucraina? Personalmente sono contro tutti gli attori in campo, mentre sostengo la (oggi remota) possibilità di un movimento disfattista (ossia ostile alla guerra) in Ucraina e in Russia sulla base della parola d’ordine: Non morire né per Kiev né per Mosca, né per Bruxelles né per Washington*. Vasto programma? Vasto, in tutti i sensi, è il dominio sociale capitalistico, e non è immaginando scorciatoie che esistono solo nelle nostre anticapitalistiche teste che possiamo sperare di prenderne le giuste misure.
Occorre a mio avviso superare la vecchia logica “antimperialista” (di stampo tanto “fascista” quanto “comunista”) che considera la lotta antimilitarista in Italia (e in Sicilia: vedi il movimento di lotta anti-MUOS) in chiave puramente antiamericana, e che continua a trascurare il peso assunto dal militarismo Made in Italy nei processi di militarizzazione del Paese. Riconoscere il nemico più insidioso e immediato nella classe dominante “casalinga” implica anche la lotta contro la Nato, nel cui seno il nostro Paese è stato inserito in seguito alle note vicende occorse ormai sette decenni fa; allo stesso tempo, una lotta contro la Nato coerente e soprattutto non viziata da ideologie nazionaliste presuppone in primo luogo la lotta contro il nemico interno di classe, il quale anche all’ombra di quella Alleanza politico-militare ha perseguito dal secondo dopoguerra in poi i suoi (peraltro legittimi sul terreno capitalistico) interessi nei Balcani, in Medio oriente, nell’Africa del Nord e così via.
Sostengo questo non per un settario e inane scrupolo di coscienza (seppure “di classe”), ma perché non intendo rafforzare in alcun modo la posizione dell’imperialismo italiano e/o dell’imperialismo europeo nel mondo. Basta ricordare gli entusiastici applausi indirizzati a Craxi e Andreotti da moltissimi “antimperialisti” (di “destra” e di “sinistra”) dopo la mitica Notte di Sigonella (ottobre 1985), per capire come una lotta alla NATO non informata dal punto di vista ostile a ogni forma di dominio sociale assai facilmente si presta come formidabile strumento di lotta interimperialistica.
Che un indebolimento dell’imperialismo americano e «il passaggio ad un’epoca multipolare» possano, eo ipso, risolversi in un progresso per l’auspicata «iniziativa di classe» ovunque nel mondo, o solo in Italia, questo non l’ho mai creduto, o capito, faccia il lettore. Mazzei ha comunque ragione quando sostiene che è sbagliato fare dell’America «un avversario invincibile ed onnipotente. Non lo è, e lo scenario mediorientale ce lo dimostra».
Come scrisse una volta Karl Kraus, «Il nazionalismo è un fiotto di sangue in cui ogni altro pensiero annega». Il mio nemico principale è il nazionalismo (oggi soprattutto nella sua variante cosiddetta sovranista), e il fatto che questa posizione oggi appaia – e sia in realtà – eccezionalmente difficile da sostenere, al limite dell’impossibile, ebbene ciò non mi suggerisce alcuna alternativa più facilmente praticabile sul terreno dell’antagonismo di classe. Altri terreni non mi riguardano.
A proposito di altri – e certamente oggi più fecondi di successi – terreni! Scrive Matteo Zola su East Journal (28 luglio: «Se non si è dei tifosi sfegatati delle stelle e strisce, si è sempre contenti quando il mondo unipolare sorto dalle rovine del Muro di Berlino viene messo in discussione». Personalmente sono contento, politicamente parlando, solo quando coloro che per campare sono costretti a vendersi come merce hanno modo di assestare un colpo ai padroni. Ahimè, cosa assai rara di questi critici tempi. Questo fa di me un tifoso sfegatato, o quantomeno un oggettivo (mai mettere limiti all’astuzia dell’Imperialismo Americano!) servo sciocco «delle stelle e strisce»? Non credo. Ma, per dirla col santissimo Padre, chi sono io per dirlo? Continuiamo piuttosto la citazione senza interromperla con personalistiche chiose: «L’emergere di nuove potenze regionali e il (fin qui lieve) declino americano potrebbero portare a una situazione per la quale, nel mondo, a decidere i destini di popoli e dittatori, a disegnare i confini di nuovi stati, a scegliere dove stanno i buoni e i cattivi, non siano solo i signori di Washington. Chissà, magari anche l’Onu – ormai obsoleto strumento di ricomposizione dei conflitti – potrebbe venire ridisegnato in un’ottica più inclusiva. E soprattutto il suo Consiglio di Sicurezza, che comprende i paesi usciti vincitori dalla Seconda guerra mondiale, potrebbe essere reso più rispondente al mondo di oggi».
A questo punto di vista rigorosamente geopolitico va a mio avviso contrapposto il punto di vista critico-radicale che intende mettere in discussione non il vigente status quo geopolitico, ma il ben più essenziale status quo sociale. Una breve autocitazione: «A molti miei interlocutori rigorosamente “antimperialisti”, quelli che amo rubricare come mosche cocchiere, sfugge l’abissale differenza che corre, soprattutto nell’attuale epoca di dominio planetario e totalitario (oserei dire terroristico) dei rapporti sociali capitalistici, fra il concetto di status quo sociale e quello di status quo geopolitico, e così essi affettano di lanciare solidi ponti politico-concettuali fra le opposte sponde dell’abisso che esistono solo nella loro testa. Se le mosche cocchiere avessero avuto ragione contro i «”rivoluzionari” che non vogliono sporcarsi le mani col mondo reale», saremmo già da un pezzo nel migliore dei mondi possibili, magari in guisa “sovietica”, o “comunarda” – qui alludo al Grande Timoniere cinese, non a quello padovano che di nome fa Antonio. I realisti hanno bensì avuto ragione, ma come inconsapevoli strumenti del processo sociale capitalistico» (Riflessioni agostane intorno al bellicoso mondo).
* Scrive oggi Anna Zafesova (La Stampa): «Mosca continuerà ad accrescere il suo arsenale nucleare e ricorda a tutto il mondo che “è meglio non avere a che fare con la Russia”. È il monito che Vladimir Putin lancia il giorno dopo che Kiev ha denunciato l’inizio dell’invasione russa: “Grazie a Dio, penso che a nessuno oggi venga in mente un conflitto su larga scala con noi”». E se il buon Dio non esistesse davvero, come azzardano certi loschi individui? Meglio fare gli scongiuri e agire come se Dio esistesse!
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