Arrivano i lacrimogeni, gli spray al peperoncino e gli idranti. Chi protesta si porta l’ombrello. L’ombrello è diventato il simbolo della protesta a Hong Kong.
Nel luglio del 1989, a massacro di giovani studenti e operai cinesi ancora caldo, io e pochi altri amici scrivemmo un modesto opuscolo dedicato a quel drammatico evento. Lo intitolammo Tienanmen! Semplicemente.
Per noi si trattava per un verso di negare, nel modo più assoluto, l’esistenza in Cina, da Mao in poi, di un regime comunista, o quantomeno di un «socialismo con caratteristiche cinesi» (va ricordato che la «via nazionale al socialismo» fu il concetto chiave dello stalinismo russo e internazionale: togliattismo compreso); e per altro verso di attribuire le cause della sanguinosa repressione di quei giorni al regime totalitario posto al servizio di un possente processo capitalistico di accumulazione che proprio alla fine degli anni Ottanta subì un’impressionante accelerazione, scuotendo le fondamenta stesse dell’immenso paese asiatico. Per la leadership cinese allora in gioco non c’era solo l’assetto istituzionale del Paese, o il ritmo di accumulazione del capitale, ma la stessa esistenza di una Cina unitaria come era venuta fuori dalla rivoluzione nazionale-borghese diretta dal Partito cosiddetto “comunista” di Mao.
Per un maggiore approfondimento della storia cinese (sul processo storico-sociale cinese, sulla natura sociale del regime maoista e sul significato della cosiddetta Grande Rivoluzione Culturale Proletaria) rimando al mio studio Tutto sotto il cielo (del Capitalismo).
Ligi all’insegnamento del Mandarino di Treviri, cercammo di osservare in profondità il caotico movimento politico-sociale di quei caldi giorni cinesi, per non lasciarci irretire nella sua complessa fenomenologia e, soprattutto, per non lasciarci sviare dalla coscienza che i suoi protagonisti avevano della loro esperienza. La materialistica analisi del profondo ci permise di non schifare il movimento di Pechino e Shangai in quanto espressione di giovani soggiogati dalla demoniaca cultura occidentale, nonché servi sciocchi dell’Imperialismo americano: a un certo punto era apparsa in Piazza Tienanmen una copia della statua della libertà! La pistola fumante!
Inutile dire che molti interlocutori fedeli al culto di Mao (e, in modo più esoterico, al culto di Stalin), ancora sotto shock a causa della catastrofe “socialista” in Europa, ci accusarono di ingenuità piccolo-borghese (quantomeno!): «Ma quelli vogliano la democrazia borghese e il consumismo occidentale!» Ma va? E noi che avevamo creduto che la grande Cina fosse alle prese con una Rivoluzione Proletaria dura e pura!
Naturalmente allora io e i miei amici non coltivammo nessuna illusione di “primavere rivoluzionarie”, così come non ne coltiviamo oggi a proposito del processo sociale che scuote il Medio Oriente e il Nord’Africa. Scrivevo qualche giorno fa a proposito della Sindrome di Tienanmen che ha preso corpo la settimana scorsa a Hong Kong: «Va ricordato che nel giugno 1989 la decisione di reprimere nel sangue il movimento ebbe come non ultima causa l’apparizione accanto alle organizzazioni studentesche di primi embrioni di un associazionismo proletario indipendente da quello “patriottico” offerto dal Regime-Partito cosiddetto “comunista”». Ciò che terrorizzava (e terrorizza) quel Regime-Partito nutriva (e nutre) il mio impegno (che parola grossa!) anticapitalista.
Dell’opuscoletto scritto venticinque anni fa (come passa il tempo!) cito solo un brano tratto dall’introduzione, come ricordo di quei caldissimi giorni e, soprattutto, come contributo alla riflessione – di chi vuol riflettere, si capisce.
«Noi non abbiamo mai creduto nell’esistenza di un “comunismo” in Cina (né in qualche altro Paese: Russia, Cuba, Vietnam, ecc.); è per questo motivo che dopo Tienanmen non ci sentiamo in imbarazzo, né avvertiamo sensi di colpa, né ci sentiamo in crisi sul piano politico-ideologico. Ma non vogliamo attestarci, per questo, su una posizione, politicamente infruttuosa quanto ridicola, di autocompiacimento o di irrisione nei confronti delle altrui certezze e ragioni, oggi assai mortificate dai fatti. Per questo siamo disposti ad affrontare, insieme ad altri, uno studio “spregiudicato” e non settario sulla storia del movimento operaio internazionale nel suo complesso».
Inutile dire che l’appello cadde nel vuoto, anche perché proprio quando i fatti ci mettono in crisi avvertiamo l’irresistibile bisogno di tenerci ancora più saldamente stretti alle nostre “certezze”, anche quando esse appaiano appiccicate alla realtà con lo sputo. O con il sangue.
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