«Nonostante i molti appelli internazionali e la battaglia di Amnesty International, è stata “giustiziata” e quindi impiccata in Iran Reyhaneh Jabbari, la ragazza 26enne condannata a morte per aver ucciso nel 2007 il suo stupratore Morteza Abdolali Sarbandi, il quale era un ex dipendente del ministero iraniano per l’Intelligence» (Notizie Geopolitiche, 25 ottobre 2014).
La parola non è sufficiente a farci afferrare il reale significato della cosa? Per capirne il senso profondo abbiamo bisogno di un segno concreto, tangibile, indiscutibile e soprattutto visibile? Non credo.
«La parola penetra lentamente: sulle prime è incomprensibile, non se ne afferra il senso, non si riesce a darle una realtà. Per un po’ di tempo tu puoi rigettare sul messaggero la rovina e lo sconvolgimento che egli vuol produrre nella tua mente e nel tuo cuore, puoi dirgli che è pazzo, e così prolungare un poco la tua ignoranza della verità, la tua vita. Puoi domandargli: “Che cosa dici? Non ti senti bene?”. Il messaggero ti lascia fare e non risponde, a poco a poco però il suo sguardo pensosamente pietoso ti rende incerto. Tu non reggi a quello sguardo, tu comprendi che lo scambio di parti che vorresti imporre non è possibile e che invece tocca a te di accettare da lui un sorso che ti rinfranchi….».
«La parola permette questa lotta temporeggiatrice contro la verità. Ma nulla di simile è possibile quando ti viene mostrato il segno. La crudeltà che in esso si concentra non permette alcuna illusione o finzione ritardatrice. Il suo significato è chiaro, inequivocabile, e non ha bisogno di diventare realtà, perché è già reale. Il segno si può toccare con mano e disdegna di essere incomprensibile per pietoso riguardo. Non lascia aperta nessuna momentanea via di scampo, ti costringe a riconoscere per tuo, nato nel tuo cervello, un pensiero che, se l’udissi in parole, respingeresti come pazzia; e così, o devi considerarti pazzo o accettare la verità. Il segno è muto, ma non per clemenza o pietà, bensì perché è la cosa stessa, e non ha bisogno di parlare per essere “compresa”. Tacendo ti getta a terra, ti fa cadere sul dorso» (T. Mann, Il giovane Giuseppe).
Ma Giacobbe in trepida attesa di notizie sul figliolo prediletto, Dumuzi, il figlio vero, ha nel frattempo perso la facoltà di vedere. Ai suoi occhi, il segno è diventato oscuro esattamente come la parola.
Thomas Mann scrisse quella magnifica pagina nel 1934. Nel 1945 non avrebbe potuto più scriverla. Figuriamoci oggi! Non Giacobbe, ma il messaggero che reca con sé il segno «è caduto sul dorso», e attende parole pietose di conforto.