LA GUERRA COME IGIENE DEL CAPITALE

col-sheet-music-rosie-the-riveter-1000pxMentre le altre ragazze frequentano i loro cocktail e i bar preferiti,
versando Martini secco e ruminando caviale,
c’è una ragazza che le fa vergognare. Rosie – è il suo nome.
Per tutto il giorno, che ci sia la pioggia o il sole,
lei fa parte della catena di montaggio.
Sta facendo la storia, lavorando per la vittoria.
(Rosie the Riveter, Redd Evans, John Jacob Loeb, 1942).

Lo strumento militare al servizio della «volontà di potenza» delle nazioni è cosa abbastanza agevole da comprendere. E con un lieve sforzo del pensiero siamo in grado di mettere in relazione la politica imperialista degli Stati con l’esigenza capitalistica di conquistare mercati, aree di approvvigionamento di materie prime e così via. Questo naturalmente al netto delle fumisterie ideologiche intorno a supposte guerre umanitarie o «di liberazione». Si tratta adesso di fare un passo avanti, e considerare la guerra come un prolungamento della crisi economica con altri mezzi, o come la manifestazione di una crisi economico-sociale particolarmente disastrosa. Così disastrosa, da apparire come un vero e proprio crollo del Capitalismo.

Considerata da questa prospettiva, la guerra mondiale appare in effetti come un crollo del Capitalismo, ma anche come un processo di ricostruzione dell’edificio capitalistico (diciamo che ne rappresenta il momento iniziale, la spinta d’avvio), in perfetta analogia con la crisi economica “convenzionale”, la quale è, al contempo, manifestazione massima delle contraddizioni interne al meccanismo che genera la ricchezza sociale nella sua forma capitalistica, e il più efficace processo di risanamento per un organismo che… scoppia di salute. Ciò premesso, svolgiamo il tema posto all’attenzione. Beninteso, sempre nella maniera disorganica, disordinata ed erratica che chi ha la bontà di leggere le mie modeste cose già conosce.

Come uscire dalla trappola della stagnazione (più o meno secolare)? Detto altrimenti: come ridare ossigeno a un’accumulazione capitalistica che nelle vecchie metropoli del Capitale (Stati Uniti, Europa e Giappone) continua a boccheggiare? Naturalmente anche se avessi la risposta in tasca non la darei nemmeno sotto tortura: il mio anticapitalismo non si discute! Sotto tortura magari no, ma sotto un buon contratto… D’altra parte, in regime capitalistico tutto ha un prezzo, per definizione, e dunque accettando di fornire dietro adeguato compenso la risposta a quella scottante domanda non cadrei in contraddizione con la teoria che ispira (almeno dovrebbe) la mia prassi. Un ragionamento più “gesuitico” che “marxista”? Può pure darsi; solo su pochissime cose posso mettere la mano sul fuoco in questi malsani e dubbiosi tempi. La cosa però non muta di una virgola i termini della questione: come dare ossigeno all’accumulazione capitalistica?

Intanto, girando scherzosamente intorno al grave problema mi pare di aver introdotto un concetto chiave: il prezzo (nella fattispecie il prezzo della mia presunta expertise economica) come espressione monetaria del valore di scambio. Perché della maledetta legge del valore, e di non altro, qui si parla, sebbene in maniera frivola, come d’altra parte conviene a chi scrive.

Altre volte ho fatto notare come sempre più spesso fior di economisti di statura internazionale evochino la guerra mondiale come possibile – e per alcuni addirittura unica – via di fuga da una crisi economica che non sembra più voler abbandonare quello che fu il Primo Mondo, e che oggi vive una triste condizione di decadimento sistemico (industriale, demografico, perfino morale), tanto più marcato se messo a confronto con la vitalità capitalistica dell’ex Secondo e Terzo Mondo. La triste constatazione vale soprattutto per il Vecchio Continente, il malato del capitalismo mondiale. È tuttavia anche vero che nei Paesi di più recente sviluppo industriale i ritmi di crescita del Pil non hanno più il giovanile vigore che si apprezzava solo qualche anno fa, e anzi appare nei loro edifici economici qualche crepa che non lascia del tutto tranquilli gli investitori internazionali, i quali già aprono gli ombrelli in attesa dei prossimi acquazzoni finanziari. Ma parlavo di uno spettro: quello della guerra mondiale.

Ebbene, l’ultimo caso di evocazione bellica, per così dire, mi è capitato di incrociarlo nel numero 66 di Aspenia appena pubblicato, e precisamente nella Conversazione con Michael Spence e Kemal Dervis ospitata dall’interessante rivista diretta da Marta Dassù – la quale nel suo editoriale di apertura rivendica un ritorno a un’economia politica più umana, più attenta ai reali processi sociali, e meno matematico-scientista, meno astratta e fredda: e anche questo mi pare un segno dei foschi tempi.

Clark_Gable_8th-AF-Britain1943Argomenta Aspenia: «Nel contesto di uno scenario simile, se il passato può insegnare qualcosa, una tipica via d’uscita dalle precedenti crisi è stata la guerra. Vasti conflitti tra Stati, come le due guerre mondiali, hanno funzionato da acceleratori per grandi cambiamenti e innovazioni in ambito economico. È uno scenario plausibile, a fronte delle migliori conoscenze in campo economico di cui disponiamo oggi?» Vediamo la risposta di Michael Spence, premio Nobel nel 2001 e professore emerito alla Graduate School of Business di Stanford: «Alcuni studi indicano, effettivamente, che dopo le guerre si pos­sono verificare investimenti diffusi in grado di sostenere una crescita di lungo periodo». Mi sembra di leggere una tesi quantomeno possibilista. Veniamo adesso all’economista turco Kemal Dervis, già ministro dell’Economia nel suo Paese e oggi vicepresidente «per l’economia e lo sviluppo globale» alla Brookings Institution di Washington: «È vero che le guerre hanno stimolato l’innovazione in passato, ma hanno anche provocato distruzioni enormi. Ci sono modi di gran lunga migliori per stimolare l’innovazione». Qui si mette in conflitto, è proprio il caso di dirlo, il «lato buono» della guerra, ossia lo sviluppo tecno-scientifico che essa indubbiamente genera, con il suo «lato cattivo», cioè a dire con il suo altrettanto indiscutibile effetto distruttivo.

Ora, siamo proprio sicuri che per le sorti di un’economia in crisi profonda e apparentemente senza via d’uscita il «lato cattivo» di cui parla il politicamente corretto Dervis non sia altrettanto – e forse ancor di più – virtuoso del «lato buono»? Le «distruzioni enormi» provocate dalla guerra non possono essere, in quanto tali, un vero e proprio toccasana per un Capitale ammalato di bassa redditività? Detto in termini marxiani, la distruzione su vasta scala di capitale e di forza lavoro provocata dalla guerra non basta da sola a giustificare una bella carneficina mondiale old style? D’altra parte, il Manifesto futurista del 1909 proclamava la guerra essere la «sola igiene del mondo»: ho il sospetto che questa azione igienica ha un significato squisitamente economico – e quindi squisitamente sociale. Certo, l’esistenza delle armi di distruzione di massa basate sull’energia atomica getta molta acqua sul fuoco degli entusiasmi futuristici 2.0, e tuttavia: perché non sognare?

Per Paul Krugman, teorico dell’invasione aliena (in mancanza di nemici terrestri da distruggere!), «alla faccia degli scettici, il capitalismo sopravvisse alla Grande Depressione, anche se chi oggi si dichiara entusiasta del libero mercato fa fatica ad ammettere che la sopravvivenza la si deve in gran parte ai suggerimenti di Keynes. Infatti, la seconda guerra mondiale offrì l’occasione che Keynes stava aspettando da anni»(1). Secondo Krugman l’effetto fondamentale generato dalla preparazione della guerra e, soprattutto, dal suo effettivo dispiegarsi fu quello di costringere gli Stati Uniti «ad adottare politiche macroeconomiche – tagliare i tassi d’interesse o aumentare il deficit statale – tese a mantenere più o meno stabile un’economia di libero mercato in presenza di un tasso di quasi completa occupazione». In quello che sostiene il noto economista americano c’è molta leggenda metropolitana, per così dire. Questa mitologia di stampo interventista, assai gradevole all’orecchio dello statalista (non importa se di “destra” o di “sinistra”), intende suggerire all’opinione pubblica occidentale (e giapponese) che se solo volessero, i decisori politici che ci governano potrebbero attuare in tempo di pace la stessa «politica economica keynesiana» che in tempo di guerra adottarono gli americani – ma anche i tedeschi e gli italiani, e senza aspettare i consigli del grande economista inglese, il più devoto fra i sacerdoti del Moloch capitalistico. Questa tesi è smentita dai fatti, a cominciare da quelli relativi alla cosiddetta età dell’oro dello sviluppo capitalistico, i trent’anni che seguirono al secondo macello mondiale. Ebbene, il cosiddetto miracolo economico del dopoguerra non fu dovuto alle politiche keynesiane, ma piuttosto al terreno fertilizzato dall’immane catastrofe bellica. La svalutazione e la distruzione di capitale (compreso quello cosiddetto “umano”), e l’applicazione all’industria cosiddetta civile delle invenzioni e delle scoperte scientifiche rese possibili durante la guerra dal massiccio investimento statale furono fra le principali cause della ripresa economica internazionale. Ho scritto «fra le principali», non le sole cause.

Sarà banale dirlo, ma in tempo di – cosiddetta – pace non è possibile applicare politiche economiche che si giustificano solo con le condizioni sociali realizzate dal tempo di guerra. Di livello bellico è tuttavia il rapporto debito-Pil in tutti i Paesi capitalisticamente avanzati. Per il 2014 l’OCSE ha previsto per i Paesi del G20 un rapporto pari al 119,7%. Oggi il debito statunitense supera i 17 trilioni di dollari, ben oltre la “soglia psicologica” del 100% del Pil, e cresce al ritmo di 3,5-3,8 miliardi al giorno. Il debito pubblico USA totale, incluso quello dei suoi enti locali, ammonta a oltre il 126% del pil.

Se l’ipotesi dei keynesiani avesse un qualche fondamento, non si spiegherebbe la progressiva discesa del debito federale USA in rapporto al Pil dal 121,20% del 1946 al 35,90% del 1970. Nel 1981 questo rapporto conosce il suo minimo (31,39%), mentre esso cresce per tutti gli anni della Presidenza “liberista selvaggia” di Reagan (nel fatale 1989 quel rapporto è pari al 51,65%). Nel periodo 1982-86 la spesa militare raggiunge l’astronomica (keynesiana…) cifra di 1600 miliardi di dollari. Di qui, l’ironica osservazione di Felice Mortillaro (1986): «Pure Ronald Reagan, dopo la fase neo-liberista, si sta rivelando un inaspettato neo-keynesiano»(2).

Scriveva Henryk Grossmann alla vigilia della Grande Depressione: «Le forme nelle quali si esprime la svalutazione del capitale accumulato, all’interno di una data economia, sono molteplici. 1. Marx tratta inizialmente il caso normale, la svalutazione periodica in conseguenza del miglioramento della tecnica, dove subentra dunque la diminuzione di valore del vecchio capitale, mentre la massa dei mezzi di produzione rimane la stessa. 2. Si otterrà pure il medesimo effetto sulla tendenza al crollo, se con le guerre […] l’uso prolungato senza temporanea riproduzione, ecc., l’apparato di riproduzione viene consumato o distrutto, non soltanto come valore ma anche come valore d’uso. Per una data economia la svalutazione agisce come se l’accumulazione di capitale si trovasse a un grado più basso dello sviluppo. In questo modo, lo spazio di estensione per l’accumulazione di capitale diviene più grande. Solo partendo da questo punto di vista teorico possiamo concepire la funzione reale delle distruzioni di guerra all’interno del capitalismo. Ben lontane dall’essere un impedimento per lo sviluppo del capitalismo o una circostanza che accelera il crollo dello stesso, come Kautsky e numerosi altri teorici del marxismo affermavano e attendevano, le distruzioni e le svalutazioni di guerra sono piuttosto un mezzo per attenuare il crollo che si fa minaccioso, per dare aria fresca all’accumulazione di capitale. Ognuna delle perdite di capitale, conseguenti alle spese di guerra, alleggerisce la situazione di tensione e apre lo spazio per una nuova espansione»(3).

Marx mise al centro della crisi capitalistica tipica (peculiare) del modo di produzione capitalistico il «conflitto fra l’estensione della produzione e la valorizzazione»(4). Ogni altra forma di contraddizione economica (autonomizzazione della sfera finanziaria da quella produttiva, capacità di consumo ristretta rispetto alle capacità produttive, ecc.) è potenzialmente in grado di innescare delle crisi, ma delle crisi di breve momento, sempre recuperabili attraverso normali aggiustamenti strutturali e monetari che costituiscono la fisiologia di un modo di produzione che fa dell’incessante trasformazione la sua stessa regola di vita – il profitto ne è invece la ragione, il cuore pulsante. Solo quando entra in sofferenza il saggio del profitto, anche la più piccola magagna è in grado di innescare la “bomba fine di mondo”, come accade per gli organismi debilitati, ai quali è sufficiente un raffreddore per rischiare il collasso.

La stessa crisi finanziaria di vaste dimensioni (vedi: 1929, 1974, 1987,1997, 2007) si spiega in ultima analisi con la crisi che si sviluppa dentro il processo di accumulazione, per poi naturalmente diventare essa stessa benzina che alimenta l’incendio. Prima l’uovo o la gallina? Prima la caduta del saggio del profitto, che innesca una reazione a catena che investe tutte le sfere dell’economia capitalistica, così da mettere a nudo l’organica – ma sempre contraddittoria, mai, nemmeno in linea puramente teorica, armonica – unità dei suoi momenti: produzione di valore (valore e plusvalore), realizzo (trasformazione del valore-lavoro in denaro), circolazione (del capitale-merce e del capitale monetario), tesaurizzazione di una parte del profitto, credito, consumo (produttivo e improduttivo) delle merci, e così via.

Il fatto che la sofferenza del processo di accumulazione debba manifestarsi come crisi finanziaria è una contraddizione che mette in luce la funzione del denaro in regime capitalistico, che svela al pensiero che ha (o almeno si sforza di avere) profondità il più intimo segreto del denaro: il lavoro sociale – o «astratto», nella terminologia “hegeliana” di Marx indigesta a molti “marxisti” inclini a una concezione scientista della cosiddetta economia marxista. Quel segreto deve naturalmente rimanere tale agli occhi della scienza economica borghese, la quale rimane alla superficie dei fenomeni economici – che poi sono fenomeni sociali tout court. È tipico di quella scienza non riuscire a mettere nella giusta correlazione il rallentamento nel ritmo dell’accumulazione (accumulare significa investire una parte del profitto d’impresa in un nuovo ciclo produttivo), dovuto al declino del saggio di profitto, e l’espansione delle attività speculative, fenomeno che ha molto a che fare anche con quell’esportazione di capitale su larga scala che alla fine del XIX secolo segnò l’avvento del moderno imperialismo. Come scriveva Henryk Grossmann, «L’esportazione di capitale verso l’estero e la speculazione all’interno sono fenomeni paralleli e scaturiscono da una radice comune»(5). La radice comune è il «conflitto fra l’estensione della produzione e la valorizzazione» già preso in considerazione, o, detto in altri termini, una fame di profitto che non trova soddisfazione là dove viene generata la materia prima (il plusvalore o profitto primario) che dà corpo a ogni forma di profitto secondario o derivato (rendite, interesse, ecc.). Sulla base di questa materia prima, sempre troppo ristretta in rapporto agli appetiti sempre crescenti del Moloch, si erge quel gigantesco edificio di capitale fittizio che nei momenti di febbre speculativa fa nascere nella nostra testa la metafisica idea della creazione della ricchezza sociale a mezzo di denaro, e non di sfruttamento del lavoro vivo. Dalla miracolosa moltiplicazione dei pani e dei pesci alla «fantasmagorica» moltiplicazione dei derivati di ogni specie il passo il breve, e anche l’ateo più incallito è disposto a compierlo, se la sua tasca ha modo di gonfiarsi. A scapito di un’altra tasca, beninteso.

La crisi ristabilisce – ma solo momentaneamente – l’unità organica della totalità economica, e avvia il processo di risanamento dell’organismo capitalistico, ammalatosi per eccesso di vitalità, per così dire. Quando Marx scrive che l’estensione della produzione entra in conflitto con la valorizzazione, egli intende affermare che la corsa sempre più spinta al profitto costringe gli investitori industriali a superare la soglia oltre la quale l’aumentato saggio del plusvalore, causato dalla crescita della produttività del lavoro, non riesce più a compensare la tendenza alla caduta del saggio del profitto. Ciò significa, in poche parole, che per battere la concorrenza, o solo per tenere il passo dei concorrenti più agguerriti, il funzionario del capitale (che spesse volte lavora per conto del capitalista monetario che gli ha concesso il credito) deve mettere in piedi una struttura produttiva (un rapporto tra macchine, materie prime e lavoro vivo) tale da non poter più garantire un adeguato saggio del profitto.

Per comprendere questa dialettica occorre mettere in stretta correlazione il saggio del plusvalore (Spv), che indica il grado di sfruttamento del lavoro, ossia la produttività del capitale investito in salari (V), con il saggio del profitto, che indica la produttività (la resa, il rendimento) dell’intero capitale investito (in mezzi di produzione, in materie prime e appunto in lavoro: C + V). È appena il caso di ricordare che Marx chiama profitto il plusvalore nel suo rapporto con il capitale totale investito (pv : [C + V]), che poi è il solo rapporto che sta al centro dell’interesse del capitalista e della riflessione dell’economia politica borghese. In questo senso egli parlò del profitto come della più verace delle categorie elaborate dall’economia politica nel suo momento più fecondo. Il profitto definito in questi termini è la fenomenologia del plusvalore, è la forma del plusvalore che occulta la fonte della ricchezza sociale in regime capitalistico: lo sfruttamento del lavoro vivo da parte del capitale. Sfruttamento – o uso, ovvero impiego – mediato dal «lavoro morto» o passato, ossia dai mezzi di produzione (materie prime comprese), da “cose” incapaci di generare valore ex novo, come invece è nella – maligna – prerogativa della capacità lavorativa. Per questo l’esistenzialista di Treviri definisce il Moloch capitalistico come il lavoro morto che afferra il lavoro vivo per suggerne la linfa vitale. Il lettore mi scuserà per la poco scientifica confessione che segue: quando leggo molte pagine del Capitale non posso fare a meno di pensare al genere cinematografico horror, tipo La notte dei morti viventi. Ma anche a quello demoniaco, tipo L’esorcista: infatti, la cosa capitalistica sembra avere il diavolo in corpo.

imagesPIZ2B6MTCiò che occulta in sommo grado il rapporto sociale capitalistico come rapporto di dominio e sfruttamento è però la compravendita della forza-lavoro, che in effetti il capitalista acquista sul libero mercato al suo giusto prezzo. Denaro (salario) in cambio di capacità lavorativa: il velo monetario neutralizza la relazione capitale-lavoro in quanto transazione mercantile. Infatti, la magagna non sta in uno scambio ineguale in sede di compravendita della merce-lavoro (sul mercato, alla fine, si scambiano fra loro solo equivalenti, perché nessun possessore di merce, lavoratore incluso, è fesso), ma nel suo uso – o consumo produttivo. Intanto rimane inteso che il prezzo della capacità lavorativa non è fissato, fondamentalmente, dal lavoro particolare che il lavoratore è chiamato a svolgere dietro compenso, ma dalla sua stessa vita: quante merci e quanti servizi occorrono per vivere un’esistenza di lavoratore (famigliola inclusa)? Ma sto divagando! E di ciò mi scuso con il lettore.

C dunque sta per capitale costante, nel senso che il valore «cristallizzato» nei mezzi tecnici di produzione attraversa il ciclo lavorativo non aggiungendo al prodotto finito un plus di valore ma nient’altro che se stesso; V sta invece per capitale variabile: valore che crea nuovo valore, valore che si valorizza nel processo produttivo.

Se (ipotesi marxiana) il capitalista industriale paga al proprietario terriero una rendita fondiaria (r), un profitto commerciale (pc) a chi “movimenta” e vende le sue merci (realizzandone il valore di mercato pari a C + V + il profitto medio sociale)(6), e un interesse (i) a chi gli fornisce capitali da investire, ebbene ciò che rimane allo sfruttatore diretto dalla capacità lavorativa è il plusvalore diminuito di r, di pc e i. In questo caso il profitto industriale, o guadagno dell’imprenditore, non corrisponderà più al plusvalore, ma al plusvalore ridotto della somma r + pc + i. Il tutto ancora al lordo delle tasse. C’è da dire che il profitto commerciale modernamente inteso nasce con l’esternalizzazione delle funzioni commerciali (trasporto e vendita delle merci) che un tempo “cadevano” nella sfera del capitale industriale. Nel corso del tempo il capitale industriale si è liberato di altre funzioni (amministrative ecc.) non direttamente produttive, delegando ad altri (i capitalisti dei servizi) queste incombenze che lo distraevano dall’attività principale: sfruttare sempre più razionalmente (scientificamente) la capacità lavorativa immediatamente produttiva, la sola fonte di quello che ho chiamato profitto primario e che Marx chiama appunto plusvalore (7).

Marx notò che al crescere di quella che chiamò composizione organica del capitale, data dal rapporto in valore tra i mezzi di produzione (MDP → C) e il lavoro (L → V), il saggio del profitto tende a diminuire. In effetti, l’andamento dell’accumulazione è strettamente connesso alle tre grandezze qui considerate, e solo empiricamente è possibile verificare quando il delicato equilibrio fra produttività del lavoro (saggio del plusvalore: pv : V), produttività del capitale totale investito (pv : [C + V]) e struttura tecnologica dell’impresa (MDP : L, ossia, in valore,  C : V) viene meno. Quando ciò avviene, l’impresa reagisce innescando quei processi di razionalizzazione e di ristrutturazione organizzativa/tecnologica che costituiscono la fisiologia del processo di valorizzazione. Ovviamente la “messa in libertà” della forza-lavoro risultata eccedente grazie all’aumentata produttività del lavoro è parte integrante e fondamentale di questa fisiologia, e solo i teorici del “capitalismo dal volto umano” (una contraddizione in termini e una miseria ideologica) possono affermare il contrario, creando con ciò stesso illusioni che indeboliscono la capacità di resistenza dei lavoratori e, soprattutto, il loro potenziale rivoluzionario. Ecco perché al politicamente corretto dei “riformatori” preferisco di gran lunga il cinico linguaggio dei difensori dichiarati del Capitale. Per gli avversari del dominio sociale capitalistico è diventato un vero problema il fatto che i “cattivisti” siano in netta minoranza rispetto ai “buonisti”.

Una tendenza storica fondamentale in atto nel capitalismo già ai tempi di Marx (e infatti essa si trova problematizzata e spiegata almeno nelle linee essenziali nel Capitale) va nel senso di una sempre crescente produttività del lavoro, che si ottiene inserendo nel processo produttivo tecnologie in grado di espandere la parte della giornata lavorativa durante la quale il lavoratore crea plusvalore (lavora gratuitamente), e di contrarre quella parte che invece risulta remunerata dal salario. Questo senza mutare la lunghezza della giornata lavorativa (ad esempio, 7 ore di lavoro), e al limite anche accorciandola (da 7 a 6 ore). Si tratta dell’estorsione di quello che Marx definì plusvalore relativo, per distinguerlo da quello assoluto legato a un capitalismo ancora scarsamente sviluppato dal punto di vista tecno-scientifico che tendeva ad allargare in termini assoluti la giornata lavorativa per estrarre più plusvalore a parità d’ogni altra condizione. Il passaggio dal plusvalore assoluto al plusvalore relativo segna anche il passaggio definitivo dalla sussunzione formale del lavoro al capitale alla sussunzione reale del primo al secondo. Formale, si badi bene, nel senso che la sussunzione del lavoro al capitale «è la forma generale di ogni processo di produzione capitalistico», ossia nel senso che «il rapporto capitalistico è un rapporto di coercizione. […] Chiamo sottomissione formale del lavoro al capitale la forma che poggia sul plusvalore assoluto, perché essa si distingue solo formalmente dai modi di produzione più antichi »(8). La peculiarità del modo di produzione capitalistico appare infatti in tutta la sua rivoluzionaria evidenza (in tutta la sua realtà) nel momento in cui le forze produttive sociali del lavoro usano la tecnica e la scienza come forze produttive del capitale.

Quando non si poté più allargare in termini assoluti la giornata lavorativa, il capitale si servì dunque della scienza e della tecnica per prolungare in termini relativi la parte della giornata lavorativa dedicata al pluslavoro, ossia al lavoro gratuito erogato inconsapevolmente dal lavoratore. Ma rendere più produttivo il lavoro significa anche abbassare il prezzo di ogni singola merce, e si comprende bene cosa ciò significhi dal punto di vista concorrenziale. E siccome il profitto che il capitalista industriale attivo in un determinato settore produttivo incamera vendendo la sua merce si forma attraverso la media sociale dei profitti basati sull’estorsione di plusvalore in quel particolare ramo d’industria, si realizza la condizione per cui l’impresa tecnologicamente più avanzata, e perciò più produttiva, può intascare anche una parte del plusvalore prodotto nelle imprese tecnologicamente meno avanzate. Addirittura questa impresa capitalisticamente virtuosa può incamerare un sovrapprofitto anche vendendo la propria merce a un prezzo inferiore rispetto alla media di mercato, spiazzando totalmente la concorrenza. Nel capitalismo tutto è relativo, tranne la bronzea legge del massimo profitto, la quale invece si dà (deve darsi, posto il vigente regime sociale) con assoluta necessità.

A questo punto è forse buona cosa affermare che la marxiana legge della caduta tendenziale del saggio del profitto va recepita non in termini dogmatici, e va integrata sulla scorta dei fenomeni economici che sempre di nuovo il Capitale ha generato nella sua insaziabile bramosia di profitto dai tempi di Marx fino ai nostri giorni. Questi fenomeni (ad esempio l’irrigidimento dei prezzi nell’epoca del capitalismo monopolistico e, in generale, tutto ciò che è legato al passaggio dalla forma ottocentesca di concorrenza a quella del XX e XXI secolo) in parte sembrano confermare e in parte sembrano smentire quella legge, la quale peraltro ha un carattere tendenziale (non assoluto) e altamente contraddittorio, e non a caso Marx parlò di tendenze e controtendenze. In ogni caso, a me pare che il problema posto a suo tempo da Marx continui a essere il migliore punto di partenza per impostare una corretta analisi del Capitale nel XXI secolo.

images7FTDWWF9Da questo abborracciato argomentare forse emerge l’essenziale, e cioè il ruolo fondamentale che gioca la tecno-scienza nel processo di valorizzazione del capitale. Ma il processo volto a forzare sempre di nuovo i limiti oggettivi che si parano dinanzi al capitale è costoso, e non sempre i successi che si ottengono in termini di accresciuta massa del plusvalore riescono a compensare i costi affrontati per ottenerli. Anche perché la rivoluzione tecnologica è un gioco a cui tutti i concorrenti vogliono partecipare, e la corsa al rialzo non si arresta mai: chi si ferma è perduto! Basta riflettere su ciò che accade nell’industria siderurgica, o nel settore automobilistico o in altre attività industriali cosiddette “mature”, per comprendere di cosa stiamo parlando. Qui i giganteschi processi di concentrazione capitalistica, attraverso fallimenti, fusioni e alleanze, ci mostrano la realtà del capitale nella sua radicale tensione dialettica: il massimo dello sfruttamento può sempre capovolgersi in una catastrofe in termini di redditività. Teniamo sempre in mente la formula elementare che ci dà il rendimento del capitale investito: pv : (C + V). Storicamente siamo passati, come paradigma industriale, dall’industria labour intensive all’industria che risparmia lavoro, ossia che moltiplica la produttività dello stesso lavoro mediante l’introduzione di nuove tecnologiche: ciò che ieri veniva prodotto da 10 lavoratori oggi è prodotto da 5 lavoratori. «Ogni nuova invenzione che permetta di produrre in un’ora ciò che finora si produce in due ore, deprezza tutti i prodotti dello stesso genere che si trovino sul mercato. […] Servendo di misura al valore di scambio, il tempo di lavoro diviene in tal modo la legge di un deprezzamento continuo del lavoro. Diciamo di più. Si avrà un deprezzamento non solo per le merci portate sul mercato, ma anche per gli strumenti di produzione e per la fabbrica, in tutto il suo complesso»(9).

La svalutazione del capitale a mezzo innovazione tecnologica è un fenomeno di grande importanza, e il fatto che Marx lo abbia colto già nel 1847, testimonia certo della sua genialità, ma significa soprattutto che questo fenomeno è immanente al concetto stesso di capitale, la cui essenza è altamente contraddittoria. Difatti, tanti capitali spesi in ricerca e sviluppo alla fine sortiscono l’effetto di una relativa svalorizzazione dell’impresa: com’è possibile? Ciò è dovuto alla natura capitalistica della produzione, ossia al fatto che il tempo di lavoro costituisce la misura del valore di scambio.

L’estorsione di plusvalore dalla capacità lavorativa nella giusta quantità (impossibile da determinare), ossia tale da contrastare la tendenza a cadere del saggio del profitto, incontra limiti oggettivi all’interno del meccanismo produttivo (per Marx «Il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso»); limiti che il capitale cerca di superare sempre di nuovo, anche per mezzo della crisi. L’esportazione di capitali, la speculazione, la svalorizzazione e la distruzione di valori già creati (merci e forza-lavoro) e di capitali resi pletorici dal basso rendimento dell’investimento (è il marxiano concetto di sovraccumulazione): tutti questi fenomeni «scaturiscono da una radice comune», come abbiamo visto sopra, e ci parlano della vera natura del capitalismo.

La guerra 1940-45 realizzò una caduta della composizione organica anche perché invece di introdurre su larga scala nuovi mezzi di produzione, il capitale industriale americano riattivò perlopiù le macchine che durante la depressione erano rimaste ferme. Fu su questa vecchia base tecnica che si realizzò in larga misura la riconversione industriale da civile a militare. La svalorizzazione (o «logorio morale», per usare la delicata prosa marxiana) di questi mezzi di produzione naturalmente non ne aveva intaccato per l’essenziale il valore d’uso, che poté esercitarsi su una massa operaia che non aspettava altro che di essere spremuta a dovere dopo anni di disoccupazione e di precarietà. Questa è una fra le più importanti condizioni che permettono all’accumulazione capitalistica di invertire la curva discendente. Anche l’«esercito industriale di riserva» trovò dunque un impiego produttivo, e la disoccupazione tornò praticamente a livelli fisiologici. I maggiori salari che derivarono dal pieno impiego della forza-lavoro non ebbero però modo di ampliare più di tanto il paniere dei beni-salario, visto che la produzione di “beni militari” superava di gran lunga quella di “beni civili”, e ciò contribuì a non innescare problematici fenomeni inflattivi sul versante delle merci di largo consumo. Parte del risparmio forzato dei lavoratori venne drenato dallo Stato attraverso tasse e vendita di titoli di guerra – reclamizzati come merce altamente patriottica dai più celebri artisti americani dell’epoca.

(1) P. Krugman, Il ritorno dell’economia della depressione, p. 128, Garzanti, 2001.
(2) Mortillaro, Aspettando il robot, p. 88, Il Sole 24 Editore. Mortillaro è stato Direttore Generale di Finmeccanica.
(3) H. Grossmann, Il crollo del capitalismo, p. 346, Jaca Book, 1977.
(4) K. Marx Il Capitale, III, p. 299, Editori Riuniti, 1980.
(5) H. Grossmann, Il crollo del capitalismo, p. 495.
(6) «Al prezzo di costo [C + V] di una merce viene aggiunto non il plusvalore che essa contiene, ma il profitto medio» (K. Marx, Il Capitale, III. p. 253). Sul fondamentale concetto di profitto medio, o «saggio generale del profitto», che tiene conto della produttività del lavoro colto nella sua dimensione sociale, si basa la marxiana trasformazione del valore della singola merce (C + V + pv) nel suo prezzo di produzione. In effetti, è nel mercato che si mostra il carattere pienamente sociale del Capitale, perché in esso hanno modo di confrontarsi tutti i singoli («individuali») capitali, ossia le concrete condizioni produttive (base tecnologica, produttività del lavoro ecc.) delle imprese che concorrono alla spartizione del plusvalore sociale. La concorrenza ripartisce tra i capitali la massa del plusvalore sociale (che ha una dimensione mondiale) secondo la loro grandezza e secondo la loro composizione organica, la quale determina in ultima analisi il grado di produttività del lavoro sfruttato in ogni singola impresa.
(7) Come Marx dimostra nel Secondo libro del Capitale, questa esternalizzazione ha molto giovato al capitalista industriale, che viceversa non si sarebbe mai mosso in quel senso.  Ma al contempo ha reso più complessa la questione che ruota intorno alla natura produttiva/improduttiva dei lavori “erogati” al di là della immediata sfera produttiva. «La divisione del lavoro, il rendersi autonoma di una funzione, non la rende genitrice di prodotto di valore se essa non lo è in sé, quindi prima che si sia resa autonoma. […] Il lavoratore del commercio svolge una funzione necessaria, in quanto lo stesso processo produttivo include funzioni im­produttive. Lavora bene come un altro, ma il contenuto del suo lavoro non genera né valore né prodotto. Egli stesso fa parte delle faux frais della produzione. La sua utilità non sta nel rendere produttiva una funzione improduttiva, ossia nel rendere produttivo un lavoro improduttivo. Sarebbe una cosa prodigiosa se tale trasformazione fosse possibile a mezzo d’un simile trasferimento della funzione» (K. Marx, Il Capitale, II, pp. 135-136, Editori Riuniti, 1980). Adesso accontentiamoci di questa citazione. Chi intendesse approfondire l’interessante problema sa a quale porta bussare.
(8) K. Marx, Il Capitale, capitolo VI inedito, pp. 47-49-53, Newton, 1976.
(9) K. Marx, Miseria della filosofia, p. 57, Editori Riuniti, 1969.Mentre le altre ragazze frequentano i loro cocktail e i bar preferiti, versando Martini secco e ruminando caviale, c’è una ragazza che le fa vergognare. Rosie – è il suo nome. Per tutto il giorno, che ci sia la pioggia o il sole, lei fa parte della catena di montaggio. Sta facendo la storia, lavorando per la vittoria. (Rosie the Riveter, Redd Evans, John Jacob Loeb, 1942).

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Un pensiero su “LA GUERRA COME IGIENE DEL CAPITALE

  1. “Una volta entrato in crisi, il capitalismo non ha altro mezzo per ricominciare la sua espansione che operare nella sfera di produzione dei cambiamenti che aumentano il plusvalore relativamente al valore del capitale totale. Simili cambiamenti esigono
    un “punto di partenza” differente da quello che costituisce il “punto finale” della fase di espansione precedente —e che si è rivelato un momento di crisi. In altri termini, il nuovo movimento ascendente presuppone la crisi, e porta nella sua scia la distruzione e la svalutazione del capitale.” (Mattick). Tra punto finale e punto di partenza c’è un intervallo, sta ai dominati disvelarne l’ inusitata intrinseca possibilità.

    Pare che siamo ancora intricati in una tradizione politica (vedi post successivo) foggiata su una sostanzialmente ininfluente resistenza ontologica ad un capitalismo colto nella sua transitoria fase di sussunzione formale dell’ uomo al Capitale, fase per altro mai chiusa e continuamente riproposta all’ aprirsi di nuovi aree di sfruttamento e di nuove branche produttive.

    Il conseguente, preparato, avvento della produzione incentrata sul plusvalore relativo, che Marx individua come lo specifico rapporto chiave della civiltà capitalistica – rapporto che pone e presuppone un adeguato livello di sussunzione sociale (tramite la logica strumentale indotta e materializzata dalla scienza e dalla tecnica applicate all’ intensificazione della produzione a tutti i livelli, iniziando da quello esistenziale) e che porta e comporta la conseguente eliminazione “di tutte le incrostazioni patriarcali, politiche o anche religiose del passato”- dicevo in questa mutata situazione storica la stessa opposizione politica più che fungere da radicale alternativa sembra l’ ultimo rifugio della borghesia dal suo stesso degenere figlio, con tutte le sbandate ideologiche del caso

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