Mentre il presidente del Celeste Imperialismo* (o capitalismo con caratteristiche cinesi) Xi Jinping continua a lavorare alacremente per irrobustire «lo Stato di diritto socialista con caratteristiche cinesi» (in Cina ogni cosa ha naturalmente caratteri rigorosamente cinesi, e ciò anche in ossequio al vecchio e caro “internazionalismo proletario”…), pure non cessa la battaglia del Partito-Regime contro la corruzione che da sempre alligna nell’elefantiaca burocrazia “comunista” (al centro come alla periferia dell’Impero) e contro le sirene dell’occidentalismo. Quest’ultimo rivoluzionario impegno ha come oggetto la coscienza politica dei giovani, i quali sembrano pericolosamente attratti dai demoniaci «valori occidentali», anche in materia di preferenze politico-istituzionali.
Come informava qualche tempo fa il mensile di Partito Qiushi (Verità: quella del regime, inutile dirlo), le tre principali università cinesi (Pechino, Shanghai, Canton) stanno battendo sempre più ossessivamente il tasto sulla necessità di impegnarsi seriamente nella campagna di «raddrizzamento del pensiero» lanciata sempre dal compagno presidente Xi Jinping, il cui obiettivo appare oltremodo chiaro: dare un ennesimo giro di vite al controllo politico-ideologico soprattutto sui giovani. Tanto più dopo la “rivoluzione degli ombrelli” di Hong Kong.
Per il regime si tratta di capire «come portare avanti il lavoro ideologico nelle università date le nuove condizioni storiche», ossia di come formare e controllare la coscienza dei sudditi cinesi nell’epoca di Internet: «Negli ultimi anni alcune persone spinte da secondi fini hanno ravvivato le fiamme di Internet contro l’obiettivo finale del Partito comunista e del sistema socialista». I comportamenti “antisocialisti” di chi «versa olio sul fuoco con i propri pensieri hanno un forte impatto negativo sull’opinione pubblica». Non c’è dubbio. Urge dunque «difendere il pensiero marxista e consolidare il socialismo».
Piccola e quasi insignificante precisazione, che faccio solo a causa di una pignoleria congenita che non riesco proprio a superare (malgrado molti sforzi profusi in questo senso): quando i “comunisti” cinesi parlano di «pensiero marxista», essi alludono allo stalinismo con caratteristiche cinesi chiamato maoismo (ideologia che supportò la rivoluzione nazionale-borghese guidata dal PCC di Mao Tse-tung), un «pensiero» che all’avviso di chi scrive nulla ha a che fare con quello di Marx, nonostante le fumisterie terminologiche made in China, che molto piacciono agli intellettuali “comunisti” occidentali, possono far pensare il contrario. Quando invece parlano di «socialismo», i leader cinesi si riferiscono appunto al capitalismo con caratteristiche cinesi che dai tempi del Grande Timoniere ha fatto davvero dei passi da gigante, soprattutto a partire dalla prima metà degli anni Ottanta del secolo scorso, quando il processo di modernizzazione capitalistica subì una violentissima accelerazione. Si badi bene: tutto questo non in rottura sostanziale con la passata esperienza maoista, secondo la lettura mainstream di quegli eventi e come sostengono ancora oggi non pochi tardo-maoisti, ma in continuità storico-sociale con quella esperienza, la quale ebbe il merito di proiettare in qualche modo nella modernità la Cina nella sua attuale dimensione geopolitica.
Una volta Deng Xiaoping disse che «Il compagno Mao ha fatto il 70% di cose giuste e il 30% di cose sbagliate»; con quel 30% Deng intese alludere soprattutto alla cosiddetta Grande Rivoluzione Culturale, avviata da Mao nel 1966 per spazzare via i suoi avversari politici (i più vecchi tra i lettori ricorderanno sicuramente gli slogan allora in voga: Ribellarsi è giusto!, Sparate sul quartier generale!, ma prendete bene la mira, mi raccomando…), e osannata in Occidente come l’ultima parola in materia di emancipazione degli oppressi. Ebbene, pare che l’attuale Timoniere della Cina intenda ridurre, e di molto, la percentuale di errori attribuiti dalla leadership post-maoista alla lunga stagione di “radicalismo rivoluzionario”.
«Lo studioso di Legge Zhang Xuezhong aveva scritto su Weibo, il Twitter cinese, che a lui e ad altri insegnati dell’università di Giurisprudenza di Shanghai era stato richiesto di evitare argomenti “scomodi” come la democrazia, i valori universali, la società civile, il liberismo, l’indipendenza dei media, gli errori commessi in passato dal Pcc (il cosiddetto “nichilismo storico”) e le contraddizioni tra le politiche di apertura e riforme e la natura socialista del regime. Per questo il tweet di Zhang Xuezhong era divenuto immediatamente virale ed era stato censurato. Tutt’oggi sulla Rete cinese non ce n’è traccia, ma gli internauti si riferiscono ai suoi contenuti con la parafrasi “i sette innominabili”, in cinese qibujiang (Lettera 43).
Insomma, il tanto propagandato Stato di diritto socialista con caratteristiche cinesi ha il significato che segue: il Partito-Regime deve continuare a dire l’ultima parola su tutto e su tutti anche nel XXI secolo. Ne ha il diritto, che gli deriva dalla sua forza materiale e ideologica. In questo senso diritto e “socialismo con caratteristiche cinesi” sono le facce della stessa capitalistica medaglia. D’altra parte è stato lo stesso Xi Jinping a chiarire come stanno le cose: «La leadership del partito e lo stato di diritto socialista sono una cosa sola». E per dissolvere ogni equivoco “occidentalista”, il Giornale del popolo, megafono del Partito-Regime, ha scritto qualche giorno fa che «È sbagliato dire che lo “stato di diritto” contraddice la legge del partito unico perché la legge in Cina è la codificazione delle direttive del partito». Detto, fatto: «Nella riunione del Quarto Plenum del Comitato centrale il viceministro del Dipartimento internazionale Guo Yezhou ha chiarito che la leadership del Partito comunista cinese è un requisito fondamentale per la costruzione dello stato di diritto» (ASCA, 30 ottobre 2014).
La corrente cosiddetta costituzionalista del PCC, propensa a una maggiore apertura politica del regime in senso “liberale”, è stata prima criminalizzata dai giornali ufficiali (in quanto sostenitrice di una «democrazia di tipo occidentale»), e poi isolata all’interno del Partito. Il lungo dibattito intorno alla necessità di una più netta divisione dei poteri (esecutivo, legislativo, giudiziario) e al rapporto tra il Partito e la legge (è il Partito che deve sottomettersi alla legge o viceversa?) sembra dunque essere approdato a una prima conclusione: il Partito-Regime è la legge. Detto in termini “cinesi”, il PCC si pone come garante supremo della legalità “socialista”. Come giustamente sostiene Wang Zhicheng, questa dialettica Partito-Legge «rafforza ancora di più il potere dei vertici, minacciando però i singoli membri a seguire la legge, per evitare la crisi del Partito soffocato dalla corruzione e dalle ingiustizie» (Asia News).
Chi in Occidente ha temuto una deriva “occidentalista” della Cina può insomma tirare un sospiro di sollievo: la dittatura del partito unico non è – per il momento – in discussione. La democrazia popolare con caratteristiche cinesi è viva e lotta insieme a noi. Mi correggo: lotta insieme ai sostenitori della costruzione di un forte polo imperialista da contrapporre al polo imperialista egemonizzato dagli Stati Uniti. Chi segue questo modesto blog conosce la posizione antimperialista “a 360 gradi” di chi scrive: contro l’imperialismo unitario (ma non unico), senza se e senza ma. E per evitare antipatici equivoci “costituzionalistici”, ribadisco la mia radicale avversione a ogni forma di Stato di diritto, a prescindere dalla sua caratteristica nazionale. Come testimonia ampiamente anche il post precedente dedicato all’italica dialettica democratica.
Quanto potrà durare lo status quo politico-istituzionale cinese? Difficile dirlo; è tuttavia facilmente prevedibile che le pressioni sistemiche (economiche, sociali, etniche, demografiche, geopolitiche) cui esso è sottoposto non si allenteranno col tempo, tutt’altro. «Le cronache della Cina sono piene di petizioni, rivolte familiari, rivolte sociali a causa di casi giudiziari che danno ragione a priori ai governatori locali» (Asia News, 24 ottobre 2014). Rispondere alla vecchia maniera alle tensioni sociali diventa sempre più difficile e inefficace, e proprio l’esigenza di approntare un serio programma di “riforme istituzionali” in grado di mettere il regime in sintonia con i profondi mutamenti sociali (economici, culturali, psicologici) che hanno trasformato il grande Paese asiatico ha messo all’ordine del giorno la questione dello Sato di diritto, sebbene con “caratteristiche cinesi”.
Scrive Simone Pieranni (Il Manifesto, 24 ottobre 2014): «Il Plenum del Pcc, conclusosi il 23 ottobre, ha sancito il via libera “allo Stato di diritto socialista con caratteristiche cinesi”. In particolare nel comunicato si legge che “Solo con il governo secondo la legge, e con l’attuazione dello Stato di diritto sotto la guida del partito il popolo può essere veramente padrone della propria casa”. Poco? Forse, ma i tempi cinesi non sono i nostri: solo porre all’ordine del giorno di un incontro così importante la questione, costituisce un passo avanti». Nessuno mette in discussione i tempi necessariamente lunghi del celeste Imperialismo. La sindrome sovietica è sempre in agguato. Come l’incubo Tienanmen, peraltro.
Ma un dubbio subito mi assale: «un passo avanti» per chi? Non certo per le classi subalterne cinesi. Almeno così penso io. E ancora: cosa significa che «il popolo cinese è padrone della propria casa»? Soprattutto nel XXI secolo, nell’epoca della sussunzione totalitaria e planetaria degli individui al Capitale, parlare di «popolo» significa fare dell’ideologia ultrareazionaria: in Italia come in Cina, in Venezuela come negli Stati Uniti. Chi ha interesse a mistificare la natura classista della società cinese? Non sarà che anche Pieranni è un simpatizzante del «socialismo con caratteristiche cinesi»? Certo non me ne stupire, tutt’altro.
* Con Imperialismo intendo qui riferirmi all’ascesa della Cina a potenza economica di livello mondiale. Prim’ancora che un fenomeno di natura politico-militare, l’Imperialismo moderno (borghese) è un fenomeno squisitamente sociale al cui centro pulsa sempre più forte la prassi economica – tecno-scienza inclusa. Come scriveva Henryk Grossmann, «proprio il carattere aggressivo del capitalismo odierno gli imprime il marchio specifico che noi concepiamo sotto il nome di “imperialismo”» (Il crollo del capitalismo). Quanto a carattere aggressivo il capitalismo con caratteristiche cinesi non scherza. O no?
SORVEGLIARE E PUNIRE. ANCHE NELLA TOMBA! ANCHE OLTRE!
LA CINA E LA QUESTIONE DEL SOCIALISMO NEL 21° SECOLO
XI JINPING E IL SOGNO CON CARATTERISTICHE CINESI
LE RADICI DELLE PANZANE SULLA CINA “SOCIALISTA”
L’AFRICA SOTTO IL CELESTE IMPERIALISMO
quando si tratta di organizzare un imperio di dimensioni gigantesche ci si ispira sempre all’ eccellenza
http://archiviostorico.corriere.it/2005/ottobre/17/Cina_del_business_adotta_diritto_co_8_051017009.shtml
..una scelta sovrastrutturale da cui trarre un qualche significato storico e sociale: i paesi a diritto romano registrano una più invasiva mediazione politica nella sfera economica rispetto ad altre e diverse astrazioni giuridiche
Il fondamentale contributo del compagno Oliviero Diliberto all’edificazione dello Stato di diritto con caratteristiche cinesi. O romane?
ah! quello del fumus persecutionis
Da Facebook, 6 novembre 2014
IL RINASCIMENTO DEL CELESTE IMPERIALISMO
Nel post del 3 novembre dedicato al Celeste Imperialismo scrivevo:
«Con Imperialismo intendo qui riferirmi all’ascesa della Cina a potenza economica di livello mondiale. Prim’ancora che un fenomeno di natura politico-militare, l’Imperialismo moderno (borghese) è un fenomeno squisitamente sociale al cui centro pulsa sempre più forte la prassi economica – tecno-scienza inclusa. Come scriveva Henryk Grossmann, “proprio il carattere aggressivo del capitalismo odierno gli imprime il marchio specifico che noi concepiamo sotto il nome di imperialismo” (Il crollo del capitalismo). Quanto a carattere aggressivo il capitalismo con caratteristiche cinesi non scherza. O no?».
Ecco un esempio di quanto sopra affermato, tanto più significativo perché riguarda anche il Belpaese. Scrive Elisabetta Esposito Martino, sinologa costituzionalista:
«”Gli artigiani cinesi non si sforzano tanto di produrre manufatti perfetti quanto di farlo con poca spesa ed in un tempo limitato, al fine di vendere la propria merce ad un prezzo ridotto; spesso falsificando molti prodotti, dando loro solo una bella apparenza”. Queste righe non riportano i soliti stereotipi sulla Cina, ma sono state scritte, agli inizi del 1600, dall’unico occidentale presente nelle storie dinastiche cinesi, autore di un capolavoro dell’etnografia premoderna, Matteo Ricci.
Queste parole, che rivelano in fondo la concezione occidentale del sistema economico cinese, ci permettono di comprendere le motivazioni delle scelte politiche dello Stato di Mezzo, frutto di tradizionali strategie geopolitiche, ma soprattutto dell’intenzione di ottenere il definitivo sdoganamento quale grande potenza, per un nuovo Rinascimento, preconizzato in questi mesi di intensi scambi culturali e diplomatici.
Questa strategia complessiva è stata implementata con scelte tattiche finalizzate a dirigere i flussi d’investimenti diretti esteri non solo verso i paradisi fiscali, ma anche verso l’occidente in generale e l’Italia in particolare, probabilmente per l’attrattività del suo territorio e per il ruolo di eccellenza, che vede l’innovazione tecnologica e l’elevato livello di progettazione raccordarsi armoniosamente a conoscenze scientifiche modulate con creatività.
Secondo i dati del Centro studi per l’impresa della Fondazione Italia-Cina, sono in costante aumento sia gli investimenti greenfield, con società create ex novo da investitori cinesi sia le acquisizioni dirette da parte di imprenditori cinesi di società italiane preesistenti. Nel 2014 sono presenti in Italia circa 272 imprese, di cui 187 partecipate da investitori della Cina Popolare e 85 della zona amministrativa speciale di Hong Kong, che impiegano 12mila lavoratori; circa il 90% del totale delle imprese, localizzate per il 75% al nord ed il 15% nel Lazio.
I settori interessati sono estremamente diversificati, con una leggera prevalenza delle imprese commerciali sul settore dei macchinari, chimico e farmaceutico, degli elettrodomestici, delle imbarcazioni, delle auto. Molto interesse suscitano poi i settori delle infrastrutture, del fotovoltaico, delle tecnologie industriali, dei personal computer, delle reti per le telecomunicazioni e dell’energia.
Questo avviene soprattutto nella Repubblica popolare cinese dove la realizzazione della via cinese al socialismo è passata dal rifiuto di ogni bene superfluo e differenziato durante la rivoluzione culturale, allo sfrenato consumismo dei nuovi ricchi nel primo decennio del ventunesimo secolo, per approdare, ai giorni nostri, nel più sicuro porto della sobrietà, grazie alle proficue campagne di massa contro gli sprechi e la corruzione.
I timori di un’eccessiva ingerenza cinese nell’economia italiana sono molteplici, come già acca-duto in Grecia nel 2008. Ora come allora, la Cina cerca di guadagnare terreno laddove morde la crisi e l’Italia può approfittare della necessità cinese di investire in Europa ma, d’altro canto, deve mantenere alti i suoi valori e non venderli al miglior offerente: la democrazia, le radici cristiane, lo stato di diritto.
La sfida è quindi aperta. La speranza per la quale si lavora è quella enunciata dal capo del governo cinese, di “dare una vita migliore a tutti”: in Italia recuperando gli immensi patrimoni dalle poliedriche sfaccettature e in Cina attingendo alla millenaria cultura che ha prodotto l’armonia del Celeste Impero e il socialismo con caratteristiche cinesi, declinando il tutto con la libertà» (I capitalisti cinesi investono in Italia, AffarInternazionali, 4 novembre 2014).
Sulla vera natura sociale del «socialismo con caratteristiche cinesi» rinvio sempre al post già citato.
Intanto il capitalismo cinese deve fare i conti con i problemi “strutturali” e “sovrastrutturali” generati dal suo stesso possente sviluppo:
«Finora la Cina – come anche gli altri “miracoli economici asiatici” – è cresciuta molto velocemente utilizzando tecnologia straniera e producendo prodotti per l’esportazione utilizzante l’abbondante manodopera non specializzata e a basso costo. Seguendo l’opinione di molti economisti – secondo i quali la Cina sta raggiungendo il “punto di svolta di Lewis”, il momento, cioè, in cui, finito il surplus di lavoratori a basso costo provenienti dalle campagne, l’economia, per continuare a crescere, deve puntare a settori a più forte intensità di capitale – il premier Li Keqiang è convinto che l’economia cinese non si deve più basare sull’esportazione, ma sui consumi interni; le riforme che stimoleranno il consumo interno inevitabilmente porteranno ad un aumento dei salari e questo non può che essere ritenuto un bene per lo sviluppo cinese» (ISPI, 30 settembre 2014).
Più facile a dirsi…
Da Facebook, 7 novembre 2014
A QUALCUNO PIACE BRICS
Nei miei ultimi post dedicati alla Russia di Putin e al Celeste Imperialismo di Xi Jinping ho scritto che anche in Italia ci sono i sostenitori, in chiave rigorosamente “antimperialista”, di un grande polo imperialista alternativo a quello egemonizzato dagli Stati Uniti. Un mio amico, evidentemente non avvezzo a compulsare il Web, mi ha detto che la mia tesi è quantomeno bizzarra: «Non credo che possano esistere su questo pianeta mentecatti di tal fatta».
Detto che l’antipatico epiteto è suo, non mio, faccio presente al mio amico dubbioso e agli altri amici quanto segue:
«Il compagno Blade Nzimande, Segretario generale del Partito comunista sudafricano (SACP), si è incontrato nei giorni scorsi con Fausto Sorini (segreteria nazionale PdCI) e Francesco Maringiò (direzione nazionale), rispettivamente responsabile e vice-responsabile esteri del partito. Nell’incontro, che si è svolto in una atmosfera di grande e consolidata amicizia e solidarietà militante, sono stati affrontati una serie di temi relativi alla situazione interna dei due Paesi, alla politica dei rispettivi Partiti, al ruolo del Sudafrica e dei BRICS nell’attuale contesto internazionale, come elemento fondamentale di contrappeso all’imperialismo e alla sua politica di guerra».
«Il segretario del SACP ha sottolineato il ruolo strategico della Nuova banca mondiale per lo sviluppo promossa recentemente dai BRICS, su proposta sudafricana, quale embrione di una politica economica e finanziaria su scala globale, alternativa a quella delle grandi potenze imperialiste. Nel corso dell’incontro sono state consolidate e approfondite le iniziative e le ulteriori possibilità di cooperazione in ogni campo tra i due Partiti e Paesi».
«Questo incontro si inserisce in una serie di iniziative coordinate e continuative che il PdCI sta promuovendo in particolare coi Partiti comunisti dei BRICS (con cui esistono da tempo rapporti consolidati); e che ha visto la settimana scorsa un importante incontro-seminario col responsabile del Partito comunista cinese dell’Accademia delle Scienze di Pechino ed una delegazione di studiosi, e nel mese di settembre incontri al massimo livello a Mosca con esponenti del PC della Federazione Russa e di altre forze antimperialiste».
«Consideriamo di importanza strategica i rapporti coi principali partiti comunisti dell’Europa e del mondo: in particolare con quelli dell’area BRICS, architrave di un nuovo equilibrio mondiale volto a sconfiggere le politiche di guerra e i settori più oltranzisti dell’imperialismo» (http://www.marx21.it/).
A qualcuno l’imperialismo piace Brics? Bene! Chi sono io per discutere i gusti geopolitici degli altri?
Pingback: LA COMPETIZIONE IMPERIALISTICA DOPO IL SUMMIT APEC | Sebastiano Isaia