In che senso nelle mie analisi “geopolitiche” parlo di imperialismo unitario? Nel senso che la competizione interimperialistica si dà dentro una comune dimensione storico-sociale: il Capitalismo, naturalmente. Per essere più precisi: la società capitalistica nella fase totalitaria e mondiale del dominio del Capitale. In questo senso parlo anche di Società-Mondo, concetto che naturalmente non annulla lo scontro tra le Potenze (su questo punto ritornerò tra poco), che si sviluppa appunto in un mondo soggetto a un unico rapporto sociale di dominio e di sfruttamento. Perché il Capitale è, nella sua essenza, questo stesso rapporto sociale.
In altri termini, unica è la natura sociale dei diversi imperialismi. L’imperialismo è dunque unitario ma non unico, secondo una formula che uso spesso. Per dirla con la vecchia metafora “strutturalista”, il capitalismo mondiale giunto nella sua “fase imperialista” è certamente un edificio unico, ma non unitario; esso si compone infatti di interessi capitalistici individuali, sociali, nazionali e sovranazionali in concorrenza fra loro.
La stessa tesi è stata qui presentata in due differenti modi, a partire da due diversi ma complementari approcci.
Va da sé che i cultori del «socialismo con caratteristiche cinesi» (o magari cubane, o venezuelane) non possono concordare con quanto appena affermato, esattamente come ai “bei tempi” dell’Unione Sovietica gli stalinisti non condividevano le tesi di chi negava a quel Paese ogni pur minimo elemento di socialismo, ancorché “reale”, e quindi una sua funzione, anche meramente “oggettiva” (o addirittura obtorto collo), antimperialista.
Per quanto riguarda il concetto di totalitarismo, è appena il caso di ricordare qui che declino quel concetto in un’accezione storica, filosofica e sociale che non ha niente a che fare con l’accezione elaborata dalla scienza politica e giuridica borghese. Totalitari sono a mio avviso gli interessi e le esigenze che fanno capo all’economia basata sul profitto, interessi ed esigenze che stringono in una morsa sempre più stretta gli individui appartamenti a tutti i Paesi del mondo e a tutte le classi sociali. Ciò a prescindere dalla forma politico-istituzionale (democrazia parlamentare piuttosto che regime autoritario, e via di seguito) che il Dominio del capitale assume nei diversi Paesi e nelle differenti contingenze storiche. La riduzione degli individui a mero «capitale umano», a biomercato, a risorsa economica da sfruttare in modo sempre più scientifico in vista del profitto sempre più alto: questo maligno processo sociale illumina bene il concetto di totalitarismo sociale com’è concepito da chi scrive.
Prendere atto della dimensione universale del Dominio sociale non equivale a obliterare la distinzione classista fra gli individui, o semplicemente depotenziarla attraverso una sua relativizzazione di natura “esistenzialistica”: la lotta di classe rimane al centro della mia concezione storica e sociale come di quel poco di iniziativa politica che sono in grado di sviluppare.
Il concetto di imperialismo unitario, nella ristretta accezione sopra delineata, informa dunque la mia analisi della competizione interimperialistica. Naturalmente sono il primo a riconoscere l’assenza di originalità a quanto finora sostenuto, e il lettore può facilmente individuare il “filone di pensiero” che mi sono permesso di saccheggiare senza chiedere il permesso a nessuno. D’altra parte ho sempre pensato, con il conforto del grande dialettico di Stoccarda, che interpretare (ma anche solo citare) sia già un creare: molti che credono di essere dei meri megafoni di altrui concetti e posizioni politiche sono invece dei creativi loro malgrado, a loro insaputa, per così dire. Per questo preferisco attribuire alla mia modestissima persona la responsabilità dei concetti che uso, lasciando a chi desideri farlo l’incombenza di rubricare/etichettare la mia posizione.
Lungi dal postulare una pacifica spartizione del bottino mondiale fra i maggiori imperialismi del pianeta, come immaginava possibile, anche in linea puramente teorica, il superimperialismo evocato da Kautsky, il concetto di imperialismo unitario è radicato nella natura altamente contraddittoria e conflittuale del capitalismo. Al massimo di unità (storico-sociale) deve insomma corrispondere un massimo di divisione e di conflittualità sistemica (economica, scientifica, tecnologica, politica, militare) tra le maggiori Potenze mondiali. Nella mia concezione dell’imperialismo la pacifica convivenza tra le nazioni ai danni delle classi dominate non è possibile nemmeno in teoria.
Scrive Leonardo Paggi: «L’ultraimperialismo di kautskiana memoria è diventato realtà dopo il 1945. Il mondo del capitalismo avanzato si presenta ora, per la prima volta nella storia, politicamente unificato» (Un secolo spezzato. La politica e le guerre, in Novecento, autori vari, p. 114, Donzelli, 1997). Questo poteva sembrare vero negli anni immediatamente successivi alla fine della Seconda guerra mondiale, nel contesto di un’Europa completamente distrutta e sottoposta al dominio pressoché assoluto delle due maggiori potenze imperialiste (USA e URSS), le quali si spartirono il Vecchio Continente nel modo a tutti noto. Ma non appena i Paesi «del capitalismo avanzato» (Germania e Giappone in primis) ricostruiranno le loro economie, anche con il sostegno finanziario degli Stati Uniti, apparirà sempre più chiaro come accanto alla polarizzazione politico-militare Est-Ovest chiamata Guerra Fredda si sviluppasse una competizione sistemica tutta interna al «mondo del capitalismo avanzato». Il capitalismo relativamente arretrato dell’Unione Sovietica, basato perlopiù sulla vendita di materie prime (come nella Russia di Putin), restò ai margini di quella competizione, e continuò a dipendere per molti e importanti aspetti dal capitale europeo (soprattutto tedesco) e dal capitale americano – che già sostenne l’industrializzazione a tappe forzate della Russia stalinista. Mosca cercò di surrogare la debolezza strutturale dell’imperialismo russo ricorrendo a diversi espedienti, non raramente in contraddizione gli uni con gli altri, ma ciò non impedì che alla fine i nodi venissero al pettine.
Essendo l’imperialismo moderno, per la sua essenza, un fenomeno di natura economico-sociale (esportazione di capitali, investimenti diretti esteri, spartizione dei mercati e delle fonti di approvvigionamento delle materie prime, confronto tecno-scientifico, ecc.), ne discende che proprio nel cosiddetto “mondo libero” esso fece registrare durante la Guerra Fredda i suoi massimi picchi. Il contrasto politico-ideologico Est-Ovest (“socialismo reale” versus “economia di mercato”), se riuscì a nascondere questo dato di fatto agli occhi della cosiddetta opinione pubblica internazionale, non ingannò invece gli analisti di politica internazionale avvezzi a dare il giusto peso ai discorsi dei politici e dei diplomatici; a essi non sfuggì la reale portata della competizione sistemica tra gli Stati Uniti e i loro alleati.
Insomma, all’avviso di chi scrive la tesi del superimperialismo ha trovato la più netta delle smentite durante la Guerra Fredda e nel «mondo del capitalismo avanzato», che proprio a ragione della sua maturità capitalistica ha offerto al fenomeno-imperialismo il terreno più fertile e “naturale” sul quale svilupparsi. Naturalmente anche l’esito di quella guerra sistemica, con la dissoluzione dell’Unione Sovietica e la vittoria degli Stati Uniti e (soprattutto) della Germania, conferma la natura essenzialmente economico-sociale dell’imperialismo.
Il pensiero deve cogliere la distinzione – “dialettica”, è il caso di ricordarlo? – tra l’imperialismo colto nella sua astrazione (essenza) e l’imperialismo colto nella sua concreta fenomenologia (come diceva Hegel, l’essenza deve apparire). In quanto essenza l’imperialismo non è altro che il capitalismo giunto a un certo grado di sviluppo (dominio del capitale finanziario); in quanto esistenza l’imperialismo è la prassi dei Paesi capitalistici. In questa prassi il momento politico gioca naturalmente un ruolo fondamentale, perché per un verso la politica deve supportare al meglio gli interessi del capitale, e per altro verso essa deve gestire la complessità sociale, la quale se lasciata al suo spontaneo sviluppo probabilmente provocherebbe la rapida esplosione del meccanismo sociale. Questa doppia funzione mostra la radicale subordinazione del politico all’economico, la cui continuità è appunto assicurata dal primo.
Che poi i politici e gli intellettuali borghesi pensino che le cose stiano, o dovrebbero e potrebbero stare, esattamente al contrario, ebbene ciò occorre darlo per scontato: dopo tutto, anche la frivola e insolente mosca della favola pensava di poter impartire ordini alla mula di Fedro.
In conclusione o, meglio, come prima approssimazione, possiamo dire che il concetto di imperialismo unitario qui esposto non giustifica alcuna negazione o sottovalutazione delle differenze che necessariamente, in virtù dell’ineguale sviluppo capitalistico nei diversi nodi della rete mondiale, insistono tra le potenze che si disputano l’egemonia sul mondo. Ho cercato piuttosto di negare nel modo più radicale a quelle differenze lo status di contraddizioni suscettibili di venir utilizzati in chiave antimperialista. Credere che in qualche modo si possano usare strumentalmente (“tatticamente”) le nazioni e le potenze contingentemente più deboli contro le nazioni e le potenze più forti del momento, così da indebolire e possibilmente sconfiggere l’imperialismo mondiale nel suo complesso, significa non aver compreso né la natura del processo sociale considerato alla scala mondiale, né la sua dialettica interna, né le lezioni della storia, la quale non a caso è un cimitero di aspiranti “grandi strateghi”. L’autonomia di classe è un concetto che va praticato a “360 gradi”, tanto sul terreno della politica interna quanto su quello della politica estera – e sempre avendo ben chiari i limiti di questa stessa distinzione:«La politica estera inizia in patria», come sanno gli esperti di geopolitica.
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