Se una strategia volta al regime change non funziona, e se la cosa è testimoniata da una lunga pratica, non è forse il caso di sostituirla al più presto con un’altra strategia anche solo in teoria migliore, ossia più intelligente e più in sintonia con l’epoca, di quella fallimentare sperimentata lungamente nel passato? È la domanda, abbastanza suggestiva (nel senso che suggerisce la risposta), che oggi il pragmatico Sergio Romano rivolge ai suoi lettori dalle colonne del Corriere della Sera. La risposta è quella che ognuno può immaginare senza dar fondo alla propria fantasia “geopolitica”: certo che sì!
Tanto più, osserva sempre l’ex ambasciatore, che «Se la politica di Obama favorirà i viaggi e gli scambi, i cubani della Florida potrebbero avere, all’interno della società cubana, il ruolo di provvidenziale quinta colonna». Ma c’è di più, molto di più: «Per molti anni l’embargo è stato l’arma di cui i Castro potevano servirsi per mobilitare il patriottismo latino-americano contro l’arroganza dell’impero del Nord. Oggi, per merito di Obama, quell’arma è spuntata». Invasione economica e culturale (nel gergo geopolitico si chiama soft power) più indebolimento politico ideologico del regime castrista: e il gioco, dice Romano, è subito fatto. Solo degli sciocchi potrebbero opporsi a una siffatta geniale strategia. Qui il Nostro sembra sottovalutare i cospicui interessi economico-finanziari e politici di chi per decenni ha lucrato sulla precedente strategia americana di “contenimento”.
Non bisogna tuttavia dimenticare il convitato di pietra che sta al centro del ragionamento fin qui stilizzato: la Cina. La presenza del Celeste Capitalismo in America Latina è un fatto che certo non lascia indifferente gli USA.
Quando Cuba faceva parte dell’«Impero del Male» centrato sull’Unione Sovietica il «contenimento militare» e la politica dell’embargo e delle sanzioni economiche potevano soddisfare gli interessi imperialistici degli Stati Uniti in quello che è sempre stato il suo cortile di casa. Finita la Guerra Fredda, crollata miseramente la Superpotenza rivale, mutato, anzi sconvolto il quadro della competizione capitalistica globale con l’ascesa della Cina ai vertici dell’Imperialismo mondiale, si è dunque resa necessaria da parte degli USA l’implementazione di una nuova strategia, il cui obiettivo è sempre lo stesso: conquistare, mantenere e rafforzare l’egemonia sistemica, se non un vero e proprio dominio, su tutto l’emisfero occidentale chiamato America. Todos somos americanos, come continua a ripetere il Presidente Obama. Mutatis mutandis, lo stesso schema interpretativo può essere esteso alle relazioni USA-Iran dopo il noto e sempre più controverso accordo sul nucleare iraniano.
Naturalmente non è affatto detto che la nuova strategia imposta agli Stati Uniti dai tempi si affermerà nel breve periodo e senza incontrare contrasti, tutt’altro, e basta seguire i media americani per capire quanto sia immangiabile la minestra geopolitica cucinata in questi anni da Obama presso una parte consistente della cosiddetta opinione pubblica e dell’establishment del Paese. Ma nessun pasto è gratis in regime capitalistico, nemmeno ai piani alti del Sistema.
A differenza dell’Imperialismo Russo (da Stalin a Putin), quello cinese fonda la sua capacità di espansione e di radicamento non sulla potenza politico-militare, bensì sulla potenza economica – industriale e finanziaria, ma in prospettiva anche tecnologica e scientifica. Come ho altre volte sostenuto, è proprio nel cosiddetto soft power che bisogna individuare il cuore pulsante del moderno Imperialismo: a suo tempo Hitler non lo capì e pensò bene di dichiarare guerra agli Stati Uniti, seguito a ruota del noto statista di Predappio.
Fin quando si è trattato di mostrare i muscoli, Washington ha sempre avuto facile gioco (vedi lo Scudo Spaziale di Reagan, ad esempio, o le guerre dei Bush), mentre i grattacapi sono insorti quando la potenza americana ha dovuto fare i conti con strategie competitive che si beffavano bellamente di quei muscoli: sto alludendo agli “amici” europei (tedeschi in primis) e giapponesi. Anzi, quegli amici si giovavano, e in parte si giovano ancora, del logorio materiale e “morale” connesso a quella virile esibizione. Contenere la capacità espansiva della Cina con la strategia usata ai bei (lineari, prevedibili fino alla noia) tempi della Guerra Fredda per Washington è qualcosa di impensabile.
«È evidente a tutti», scrive Mimmo Candido sul Corriere della Sera, «che un tempo si era consumato, e che la storia dell’isola – pur bloccata sempre dalle rigidità ufficiali che la Guerra fredda aveva dimenticato nelle acque del Caribe – scivolava ormai inesorabilmente verso un tempo nuovo, dove il “dovere rivoluzionario” era una sovrastruttura che valeva nelle manifestazioni liturgiche del regime ma non inglobava più i sentimenti reali di gran parte della società, se non di tutta la società». La società cubana è stata vittima della Guerra Fredda, e non bisogna dimenticare che il regime castrista si è schierato al fianco di uno dei due maggiori protagonisti di quella Guerra, che agli occhi di chi scrive aveva anche il torto di chiamarsi “comunista”. Quel regime avrebbe potuto fare altre scelte per difendersi dalle mire imperialistiche a stelle e strisce? Non saprei dire. La scienza del poi è poco istruttiva per chi intende capire il processo sociale colto nella sua dimensione mondiale. Ciò che però mi sento di affermare con una certa convinzione è che allora il novero delle scelte si restringeva al campo capitalista, anche a causa della natura borghese della tanto mitizzata rivoluzione cubana. A piangere le conseguenze di quel confronto interimperialistico sono stati i nullatenenti cubani, sacrificati anche sull’altera della difesa di una patria che col socialismo non aveva nulla a che spartire, nemmeno alla lontanissima, se così si può dire.
Ecco perché il «rosso» oggi evocato dal Manifesto (Il rosso e il nero, come recita il titolo dell’editoriale che apre il cosiddetto «giornale comunista») mi suona odiosamente retorico, oltre che prevedibile e di una banalità che sconfina nell’insulsaggine.
Ouch! Qui tocchiamo corde molto delicate. Va a finire che l’etica classe dominante Italiota, soprattutto quella sinistrorsa e cattolica, ti scomunicherà per sempre caro Sebastiano!! Comunque, ho fatto una riflessione. Non trovi che Castro Brothers suoni grandioso come nome di una corporation? Castro Brothers Motion Pictures, e lo slogan è: “Voi Popolo scrivete la sceneggiatura, noi prendiamo tutte le decisioni.” Beh, questa è proprio il tipo di azienda di cui ogni rappresentante della classe dominante è azionista. Ho fatto questa riflessione leggendo il tuo post mentre il registratore di cassa di “Money” trillava ossessivamente. Scusami, sono spesso sconveniente, devo assolutamente recidere una buona volta queste ingombranti radici Britanniche!!
Tu però continua a scrivere, mi raccomando.
Much obliged.
Ciao.
Per mille Pink Floyd, non recidere quelle radici! Il marketing politico da te stilizzato è perfetto. Sempre grazie per i tuoi preziosi e ironici commenti. Ciao!!