LA SERVITÙ VOLONTARIA 2.0

uomopillIntroduzione a una difficile “problematica”

 

Non c’è per l’uomo preoccupazione più
ansiosa che di trovar qualcuno a cui affidare
al più presto quel dono della libertà, col quale
quest’essere infelice viene al mondo.
(Dostoevskij, I fratelli Karamazov).

Scriveva il filosofo e politico francese Etienne de la Boétie nel suo Discorso sulla servitù volontaria (1549): «Vorrei soltanto riuscire a comprendere come sia possibile che tanti uomini, tanti paesi, tante città e tante nazioni talvolta sopportino un tiranno solo, che non ha altro potere se non quello che essi stessi gli accordano, che ha la capacità di nuocere loro solo finché sono disposti a tollerarlo, e non potrebbe fare loro alcun male se essi non preferissero sopportarlo anziché opporglisi. Non c’è bisogno di combattere questo tiranno, né di toglierlo di mezzo; si sconfigge da solo, a patto che il popolo non acconsenta alla propria servitù. Non occorre sottrargli qualcosa, basta non dargli nulla. Sono dunque i popoli stessi che si lasciano incatenare, perché se smettessero di servire, sarebbero liberi. È il popolo che si fa servo, si taglia la gola da solo e, potendo scegliere tra servitù e libertà, rifiuta la sua indipendenza e si sottomette al giogo: acconsente al proprio male, anzi lo persegue». Mi permetto di aggiungere: lo persegue scientificamente, ossessivamente, con uno zelo che rasenta il masochismo e che personalmente trovo odioso e pauroso, tale da annichilire ogni speranza emancipativa e da suscitare in non pochi ex amici degli uomini un profondo disprezzo per l’umanità.

Boétie non negava affatto le cause coercitive “esterne” (la forza repressiva militare, ad esempio) connesse al fenomeno del servilismo da lui indagato, ma le relegava al momento di fondazione della tirannide, così da concentrarsi sulle cause “interne” che determinano il consenso del servo nei confronti del suo padrone, il cui potere non può reggersi a lungo proprio senza quel consenso. È dunque nel popolo dei servi, argomenta Boétie, che vanno ricercate le cause di fondo che rendono possibile la condizione servile: perché gli uomini non desiderano più la libertà? È la domanda che tormentava l’autore del Discorso, e che successivamente tormenterà molti altri umanisti, soprattutto dopo il “tradimento” degli ideali illuministici da parte della moderna società borghese.

Nella mia prospettiva “umanista”* il «tiranno» si declina, “materialisticamente”, in termini di rapporto sociale di dominio e di sfruttamento. Cosa che mi permette di azzardare un link tra la potente indicazione del filosofo francese del XVI secolo: «Non occorre sottrargli qualcosa, basta non dargli nulla»,  e il monito di Marx che segue: «Che sospendendo il lavoro, non dico per un anno, ma solo per un paio di settimane, ogni nazione creperebbe, è una cosa che ogni bambino sa» (Karl Marx, Lettere sul Capitale).

E questo andrebbe ricordato sempre, tanto più all’indomani di un Primo Maggio diventato ormai da molti decenni la festa che celebra il lavoro che rende servi (o salariati) gli individui. Ma questo è un altro (?) discorso.

Il servo del XXI secolo ha insomma nelle proprie mani una potenza sociale davvero eccezionale, tale da annientare senz’altro la vecchia Civiltà per fondarne una radicalmente nuova, o semplicemente umana. Per dirla con Carlo Cafiero, il servo ha fatto tutto, il servo può distruggere tutto, il servo può ricostruire tutto; peccato che oggi egli non sia in grado di averne la benché minima coscienza. Come spiegare, senza dar fondo a preconcetti (politici, filosofici, antropologici, ecc.) di sorta, quella che dal mio punto di vista appare come una enormità dai contorni tragici? È sufficiente gridare al servo «Il re è nudo!» per creare l’Evento emancipativo?

Più volte mi è capitato di citare i passi di Max Horkheimer sulla «smisurata dimensione del potere» capitalistico che «diventa l’unico ostacolo che proibisce la veduta della sua superfluità», per ricavarne insieme al lettore la necessità di conquistare un punto di vista che ci permetta di vedere la potenziale superfluità del Moloch a partire proprio dalla sua mostruosa capacità di dominio. E qui il Discorso sulla servitù volontaria di de la Boétie si carica di un’inaspettata attualità. Come attualissime, a me pare, suonano i seguenti passi marxiani: «La società odierna non è un solido cristallo, ma un organismo capace di trasformarsi in un costante processo di trasformazione» (Il Capitale, I). Non solo le crisi economico-sociali che sempre di nuovo investono l’edificio capitalistico non sono sufficienti, da sole, a mandarlo in frantumi, ma alla fine esse sortiscono l’effetto contrario: lo irrobustiscono, lo ringiovaniscono, lo espandono. Ecco perché è la metafora marxiana dell’organismo vivente, e non quella dell’edificio, che rimanda a qualcosa di statico, di rigido, che ci restituisce almeno una parte della verità circa il vigente regime sociale. La bestia muta continuamente per reagire all’ambiente che essa stessa crea: la bestia copre tutta la dimensione sociale, è la dimensione sociale, e noi ovviamente ne facciamo parte, siamo parte organica della Cosa, perché niente può stare fuori di essa – salvo la morte, forse…

CalotIeri ho scritto che una malintesa radicalità può mettere la teoria e la prassi dei benintenzionati amanti dell’umanità su piste che portano al centro del Dominio, generando indicibili sofferenze a quegli stessi individui che si vorrebbero liberare dal Tiranno – comunque “declinato”.

A suo tempo i giacobini pensarono che fosse possibile cambiare la «cattiva natura dell’uomo» attraverso un mero sforzo di volontà, mediante una illuministica rivoluzione culturale, senza cioè modificare radicalmente le cause storico-sociali di quella natura. «Essi stavano sul filo d’una grande contraddizione, e chiamarono in loro aiuto il filo della ghigliottina. […] Essi credevano nella forza assoluta dell’idea, della “verité”. E ritenevano che nessuna ecatombe umana sarebbe stata troppo grande per costruire il piedistallo a questa “verité”» (L. Trotsky, Giacobinismo e socialdemocrazia). Raddrizzare l’«albero storto» dell’individuo, anche a costo di spezzarlo, è stato da sempre il sogno degli idealisti eticamente motivati di tutte le tendenze politiche e filosofiche. Ma la «rivoluzione antropologica» a rapporti sociali invariati è la classica via per l’inferno lastricata di eccellenti intenzioni.

Per questo, ad esempio, quando sento parlare molti fautori particolarmente zelanti della «decrescita felice» circa l’urgenza di «cambiare radicalmente i nostri pessimi valori, i nostri cattivi stili di vita, le nostre cattive abitudini», non posso fare a meno di inquietarmi, e di portare la mano istintivamente al collo, in un gesto di scaramantica rassicurazione.

Per il filosofo tedesco-sud coreano Byung-Chul Han, autore del saggio “tecno-apocalittico”  Nello sciame, nel contesto sociale creato dalle nuove tecnologie digitali «il lavoro diventa totalizzante. E, visto che siamo sempre raggiungibili, esso esclude assolutamente l’ozio e il tempo libero. Contempla solo una pausa. Che però è un prodotto stesso del lavoro. Il tempo libero è ben altra cosa. […] Il potere alla base del neoliberismo non è repressivo, ma ammaliante. E soprattutto, a differenza del passato, invisibile. Quindi non c’è un nemico concreto che limita la nostra libertà. […] La società della prestazione prepone la produttività alla repressione proprio grazie a un eccesso di libertà, che viene sfruttata in tutte le sue forme ed espressioni, dalle emozioni alla comunicazione. Oggi la libertà è una costrizione. Il compito del futuro sarà proprio quello di trovare una nuova libertà»  (intervista a La Repubblica del 22 aprile). Han chiama «neoliberismo» ciò che io definisco Capitalismo, senza aggiungere altro. Egli ci dice, in sostanza, che il totalitarismo sociale oggi si dà – è avvertito dallo «sciame» – come «eccesso di libertà»: mi sembra che siamo al cuore del problema evocato in questa breve riflessione. A mio avviso è su questo terreno che va posta la vasta e complessa “problematica” rubricata come crisi della democrazia e crisi dei valori occidentali. Alla prossima puntata. Sempre che ce ne sia un’altra: anch’io voglio concedermi un «eccesso di libertà»!

hippocrate2* Per i dominati l’eliminazione delle classi sociali non rappresenta un astratto ideale, ma corrisponde a un loro concreto e peculiare interesse: cessare di appartenere alla classe degli sfruttati e dei dominati – «perché dominazione e sfruttamento sono una cosa sola» (K. Marx). In questo preciso senso il comunista di Treviri sostenne che «il proletariato non ha ideali da realizzare», ma una condizione sociale da combattere e da superare. È questa la tesi che sintetizzo nella locuzione punto di vista di classe, o coscienza di classe. D’altra parte l’eliminazione della struttura classista della società determina necessariamente l’emancipazione dell’intera umanità. Come sostenne sempre Marx, la soppressione delle classi è la conditio sine qua non  dell’umanizzazione di tutte le relazioni sociali, di tutta la prassi sociale degli individui diventati semplicemente uomini – mentre oggi siamo cittadini, utenti, contribuenti, lavoratori, pensionati, padroni, artisti, intellettuali e via di seguito. In questo senso parlo di punto di vista umano, il quale presuppone e al contempo “ingloba” il punto di vista di classe. Allo stesso modo il concetto di umanità, declinato nel significato critico-radicale («la radice, per l’uomo, è l’uomo stesso») che mi sforzo – vanamente? – di precisare e argomentare, presuppone e ingloba il concetto di comunismo.

3 pensieri su “LA SERVITÙ VOLONTARIA 2.0

  1. che dici Sebastià, La Cosa interagisce bene con alcuni aspetti sociali della natura e/o essenza umana. ma esiste poi una natura umana al netto della contingenza ? per me sì, e per te?

    • Una volta Arthur Schopenhauer disse che solo la morte ci mette al riparo dalla cieca volontà di potenza della vita, dal suo volere a tutti i costi vivere, perpetuarsi il più a lungo possibile, mettere solide radici nella contingenza, qualunque essa sia: quella determinata da una buona posizione sociale, oppure da un lager. La sopravvivenza come assoluto imperativo categorico: la vita vuole vivere! Questo principio fa certamente il gioco della Cosa, non c’è dubbio. Di più: è fatto della stessa materia della Cosa. La Cosa di questo mondo.
      Per quanto riguardo la «natura umana» ci sarebbe da scrivere un libro che non è nelle mie capacità scrivere. Si tratterebbe intanto di capire i termini del problema, in che senso cioè “decliniamo” quel concetto. In linea generale, mi riesce impossibile pensare una «natura umana» che non sia sempre e in qualche modo radicalmente impigliata nella dimensione sociale dell’uomo, la sola dimensione adeguata al concetto e alla prassi della nostra “specie”. L’uomo è la specie che pone la mediazione fra sé e ciò che lo circonda: se dovessi scrivere un’ontologia sociale probabilmente è intorno a quella tesi che svilupperei la mia ragnatela concettuale. Magari per finirci dentro, come capita ai ragni che difettano di dialettica. Ciao, e scusa se sono stato abbastanza evasivo.

  2. il rischio che “la natura umana” (che senza determinazioni, per altro, significa niente) sia un arnese vecchio, così vecchio da far parte della vecchia merda, è forte
    l’umanesimo ha per lo più difeso posizioni di sostegno al meno peggio, fino a che ha avuto il suo compimento universalista in veste di natura proprietaria
    da capire che prospettiva ha voluto suggerire Marx con il concetto di gattungswesen e della sua intrinseca possibiltà sia ontologica che pratica -il comunismo-

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