Come avrebbe potuto l’artista, il soldato
nell’artista, non lodare Dio per la caduta di
un mondo di pace di cui era così sazio, così
nauseato! Guerra! Quale senso di purificazione,
di liberazione, d’immane speranza ci pervase allora!
(Thomas Mann, 1918) (1).
Di una energia come la sua noi abbiamo
bisogno ora, e più ne avremo bisogno dopo la
guerra per fronteggiare le insidiose manovre
dei neutralisti. Noi salviamo una spada, in lui,
una spada per l’Italia da maneggiare contro
i nemici interni (Leonardo Bissolati, 1917) (2).
1. Ernesto Galli della Loggia teme che la «minuzia dolorosa del ricordo» che si trova nei diari, nelle lettere e nelle cartoline scritte un secolo fa dai soldati europei fra un assalto alla baionetta e l’altro, e che soprattutto in questi anni di celebrazioni legate al Grande Evento bellico trovano grande spazio nella memorialistica d’ogni genere, «cancelli il significato politico dell’evento. Che la Prima guerra mondiale, cioè, sia ridotta soltanto alla dimensione dell’inutile strage. Intendiamoci: Benedetto XV era autorizzato a chiamarla così. E certamente lo fu anche, ma non solo. In realtà le memorie personali, ed è il loro gravissimo limite, non possono dirci nulla sul significato storico e politico complessivo. Ci parlano delle traversie dei singoli protagonisti ma non assorbono la qualità del fatto storico» (3). Ecco, nelle pagine che seguono cercherò di dire la mia sulla «qualità del fatto storico» chiamato Grande Guerra, o Prima guerra mondiale, e lo farò tirando solo uno fra i mille fili che si possono tirare cimentandosi con un tema così vasto e complesso. E, lo dico subito, probabilmente il filo che ho scelto di afferrare non è quello più importante fra quelli che avrei potuto scegliere.
Il professor Mario Isnenghi, un superspecialista della Grande Carneficina (suo è l’ormai “classico” Il Mito della Grande guerra, 1970), la pensa come della Loggia, e in più lamenta il prevalere di «una sorta di pensiero unico» su quel conflitto: «Intanto [si parte da] un’affermazione preliminare di carattere generale: ogni guerra è un male in sé. Questo è il punto di vista dei pacifisti, condiviso dai più. Poi interviene una considerazione specifica sulla Grande guerra, che appare ormai un ferrovecchio della storia, distante nel tempo, lontano negli scopi e nei moventi. E se non bastasse, s’aggiunge una ragione attualissima legata alla cittadinanza europea: appare incongruo oggi celebrare la rottura, l’essersi sparati addosso tra popoli bisognosi di una fraterna cittadinanza. Questo va bene sul piano della politica della memoria o dell’educazione civica. Ma non va bene sul piano della storiografia. Sa qual è la frase più ripetuta anche in ambito storico? Il non senso di quella guerra. L’assurdo di quella catastrofe, vana e sanguinosa apocalissi. […] Se posso dire una cosa da cittadino, rinunciando per un momento alla veste di storico: era meglio non farla la guerra? D’accordo. Ma se proprio si deve fare, è
meglio vincerla che perderla. Senza dovercene poi vergognare» (4). Se proprio si deve fare… Penso che questo modo di ragionare sia molto affine a quello del Mussolini interventista che vedremo tra poco.
In effetti, definire la Grande Guerra come «inutile strage» è quantomeno riduttivo: la strage, infatti, rispondeva a precisi interessi di Potenza che facevano capo a tutte le nazioni protagoniste del conflitto. Più che «inutile e vana», quella catastrofe fu innanzi tutto imperialista (esattamente come quella che la seguirà a breve): una tesi, questa, che ai professoroni di storia deve legittimamente suonare come estranea a una corretta, cioè «oggettiva e avalutativa», ricerca storiografica. Ma qui non si fa della scienza: qui si è alla ricerca di un punto di vista critico-radicale sul passato, sul presente e sul futuro.
«Per tutto il 1918 il Presidente Wilson continuò a ripetere, sotto forme diverse, che quella guerra era una crociata delle democrazie contro le autocrazie», e che «gli Stati Uniti facevano la guerra non per un qualsiasi vantaggio materiale, ma per la giustizia, e che la pace sarebbe stata una pace giusta» (5). Come si vede, gli statisti (di tutti i Paesi, ieri come oggi) hanno il vizio di ripetersi, guerra dopo guerra, «inutile strage» dopo «inutile strage».
A Giampiero Mughini l’ennesimo libro patriottico di Aldo Cazzullo non è piaciuto, anche perché «le possenti 400 pagine edite da Rizzoli e dedicate al “sangue” di chi tra settembre 1943 e aprile 1945 insorse contro la tragica combutta nazifascista» gli ricordano un’adolescenza politicamente infelice.
Scrive Aldo Cazzullo, autore di un ennesimo libro patriottico (Possa il mio sangue servire: praticamente un invito a pranzo per i vampiri!), in risposta alle obiezioni di Giampaolo Mughini circa l’utilità di riproporre ai giovani di oggi i soliti luoghi comuni connessi alle due carneficine mondiali del XX secolo: «Caro Giampiero dissento da te, quando scrivi che nulla di quel tempo remotissimo può essere giocato nel presente. Non è solo questione di memoria da salvare. È che ogni generazione ha la sua guerra da combattere. I nostri nonni vinsero la Grande Guerra, lo spaventoso massacro in cui venivano gettati cent’anni fa, in questi stessi giorni. I nostri padri vinsero la guerra di liberazione. Oggi a noi e ai nostri giovani tocca la guerra contro la crisi, la rassegnazione, il degrado morale del nostro Paese (se vuoi, anche contro l’incertezza dell’Occidente nell’aspro confronto con l’Islam). È una guerra ancora tutta da vincere. Dobbiamo essere severi con il presente; ma anche trasmettere ai ragazzi le storie dei loro coetanei di poche generazioni fa, per cui l’Italia era una cosa seria, che valeva la vita. Neppure a te, Giampiero, è consentito abbandonarti alla sfiducia».
A me è invece consentito! Anche perché non sono mai stato un tipo particolarmente patriottico, diciamo.
Suo malgrado Cazzullo ci offre una perfetta sintesi di quello che potremmo chiamare la micidiale continuità del Dominio, dal maggio 1915 al maggio 2015. «Ogni generazione ha la sua guerra da combattere», egli scrive, e non importa di che tipo essa sia. Purché sia una cosa seria! Se fossi Lenin direi: «Trasformare la guerra esistenziale in guerra civile!».
2. Recentemente mi è capitato di rileggere il famoso articolo pubblicato da Benito Mussolini sull’Avanti! il 18 ottobre 1914: Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante. Uno scritto che, a modo suo, fece epoca, e che certamente contribuì a fare un po’ di luce sul bizzarro personaggio che fino a poco tempo prima aveva voluto indossare i panni del rivoluzionario senza macchia né paura, del socialista tanto mangiapreti quanto antimilitarista, e che da lì a poco sarebbe invece diventato il Duce degli italiani – gli stessi, detto en passant, che alla fine del noto Ventennio infieriranno persino sul suo cadavere, confermando con questo il pessimo giudizio mussoliniano sulla natura degli incorreggibili italiani, volubili in modo vergognoso. Fino al fatale ottobre del ’14 la carriera rivoluzionaria dell’uomo di Predappio aveva conosciuto un moto ascendente che in alcun modo lasciava presagire una sua imminente caduta nell’abisso della controrivoluzione, prima in guisa militarista e patriottarda e poi in quella fascista e dichiaratamente anticomunista – perché nel frattempo, mentre l’Italia s’imbatteva nella sciagura di Caporetto (6), la Russia conoscerà l’Ottobre Rosso lungamente preparato da Lenin. Lo stesso «infame» articolo del 18 ottobre è costruito con sapiente ambiguità, e difatti allora molti simpatizzanti del Mussolini massimalista non vi videro un suo definitivo addio al socialismo, e fino alla sua espulsione, ratificata dalla Direzione del Partito il 29 novembre, essi sperarono in una conclusione positiva del «caso Mussolini». Così non fu, e dopo l’ottobre tempestoso per Mussolini arriverà il Maggio Radioso, che metterà definitivamente fine a ogni pur residua ambiguità intorno al personaggio.
In clima di rievocazioni e celebrazioni storiche è forse di un qualche interesse dare un’occhiata all’interessante articolo mussoliniano, non da una prospettiva storiografica beninteso (anche per mancanza di competenze specifiche da parte di chi scrive), ma da un punto di vista squisitamente politico. Insomma, per dire qualcosa di politicamente orientato – e, si spera, di interessante – sul presente interpellando il passato. Insomma, invito il lettore a una seduta spiritica!
La tesi che intendo svolgere brevemente, e senza seguire un preciso itinerario cronologico e logico, è la seguente: il filo nero che lega gli scritti mussoliniani che precedono di qualche mese l’articolo “scandaloso” del 18 ottobre 1914 è da ricercarsi in primo luogo 1) nella sua prospettiva nazionale (e poi nazionalista/imperialista), e 2) nella sua incapacità di decifrare la natura della Grande Guerra. D’altra parte, questo filo nero non è qualcosa che inizia e finisce con la persona di Mussolini, tutt’altro: esso costituisce piuttosto il punto debole del socialismo italiano. Una debolezza dottrinaria e politica che si spiega in larga parte con la relativa arretratezza (7) della società italiana alla vigilia della Prima guerra mondiale, una società non ancora pienamente integrata nella modernità capitalistica. Sarà proprio la Grande Carneficina e per certi aspetti il Fascismo che consentiranno al Paese di entrare, non senza contraddizioni e negativi retaggi (alcuni dei quali sono ancora attivi: vedi gap Nord-Sud!), nel ristretto novero delle nazioni moderne, capitalisticamente avanzate. «È solo con l’anno 1915», dirà poi il Duce recitando dal noto Balcone a beneficio delle masse osannanti, «è solo col Radioso Maggio del 1915 che il popolo italiano irrompe sulla scena politica e diventa finalmente l’artefice del suo destino». Diciamo che con il Fascismo (8) il processo di moderna massificazione degli individui atomizzati avviato in epoca liberale conosce un’accelerazione.
Se però allarghiamo la nostra prospettiva fino a includere la realtà del socialismo internazionale, ci accorgiamo che il «caso Mussolini» ha molto a che fare anche con le contraddizioni e i limiti della Seconda Internazionale, “gloriosa” organizzazione del Movimento operaio internazionale che non a caso andò a pezzi il 4 agosto 1914, destabilizzando la gran parte dei militanti socialisti del Vecchio Continente. Il fatto che tanto i socialisti interventisti degli Imperi Centrali quanto quelli delle Potenze occidentali chiamassero in causa lo schema rivoluzionario del 1848 (gli austro-tedeschi in chiave antizarista e i francesi, gli inglesi e gli italiani in chiave antiprussiana: tutti a difendere la Civiltà aggredita… dagli altri!); ebbene ciò testimonia dell’arretratezza del socialismo europeo, almeno delle sue componenti largamente maggioritarie.
Quello intestato a Mussolini è insomma un caso non solo nazionale ma anche internazionale.
3. Già nell’agosto del ’14 alcuni progressisti italiani (i cosiddetti “garibaldini”) si arruolarono come volontari nella Legione straniera per difendere la Civiltà Occidentale dal barbaro teutonico, dimentico dell’eredità dei lumi e tutto concentrato in pensieri di superiorità e di conquista, secondo la famigerata e mai domata Wille zur Macht. «Tutto il pensiero tedesco mi è apparso fasciato di acciaio e pronto all’incendio», scriveva nel 1916 Ernesto Bertarelli; «L’antipatico sciovinismo francese, che offende più di quanto non nuoccia, pare ben dolce miele nei confronti col testardo e violento nazionalismo scientifico tedesco» (9). Per l’interventista Mussolini, che ancora rivendicava la sua appartenenza al socialismo (anzi: al vero socialismo!), difendere il sacro suolo francese significava difendere gli immortali e universali valori della Rivoluzione Francese attaccati dalla cricca imperialista e militarista radicata in Prussia (10).
Nulla di tutto questo, obiettarono allora gli autentici rivoluzionari europei: si tratta di una guerra imperialista spiegabile con lo sviluppo del capitalismo e con gli interessi degli Stati moderni. La difesa della patria (borghese) e la difesa della Civiltà (borghese) non sono che menzogne inoculate nel corpo del proletariato per stordirlo e condurlo “civilmente” al macello. «Causa di questa prima guerra mondiale è il capitalismo. Il capitalismo mondiale, che cerca di espandersi», scrisse Herman Gorter nell’ottobre del ’14. Il rivoluzionario olandese ridicolizzava soprattutto i socialisti tedeschi che tiravano la barba di Marx nel miserabile tentativo di giustificare il loro socialnazionalismo: «Voi citate Marx e dite che egli, a suo tempo, voleva vincere la Russia, affinché fossero emancipati gli operai russi. Questo che voi dite rivela la misera debolezza della vostra politica. Marx non ha mai voluto combattere la Russia indebolendo gli operai francesi e inglesi. La vera ragione della vostra partecipazione alla guerra non è la lotta contro la Russia, ma il desiderio di collaborare nella politica coloniale, nell’imperialismo, in unione colla borghesia. Voi volete salvare la cultura tedesca dai barbari russi? Quale cultura intendete voi? Quella del passato? Ma essa è al sicuro, vive dappertutto nel mondo. Voi non avete bisogno di preoccuparvene» (11). Come si difende, e in vista di che cosa, la cultura occidentale generata dalla borghesia nel corso della sua ascesa rivoluzionaria contro l’ancien régime? Allora i marxisti risposero, riprendendo il filo rosso tessuto da Marx ed Engels, che solo il proletariato, in quanto nuova classe rivoluzionaria, poteva essere l’erede “naturale” di quel grande patrimonio di pensiero e di arte, il quale dentro le Università si degradava a tal segno, da diventare un grigio materiale ideologico al servizio della classe dominante. Solo se innestato nel corpo della nuova classe storicamente rivoluzionaria l’Illuminismo poteva ancora dire qualcosa di fecondo all’umanità, mentre se lasciato nelle mani degli intellettuali borghesi esso doveva necessariamente deperire, rinsecchire, esaurire la propria spinta propulsiva, per usare una celebre locuzione.
«Se il concetto di “nazione” è superato», scriveva Mussolini il 18 ottobre, «se la difesa nazionale è un assurdo per i proletari che non avrebbero niente da difendere, noi dobbiamo avere il coraggio di sconfessare i socialisti del Belgio e di Francia che dinnanzi all’invasione tedesca hanno confuso – temporaneamente, si capisce! [si capisce, eccome!] – nella nazione la classe e dedurre di conseguenza che un solo socialismo v’è al mondo, genuino, autentico, purissimo: il socialismo italiano… Ma è un atto di superbia, che per molte ragioni non ci conviene!». L’astuta retorica mussoliniana (12) non sortì apprezzabili effetti, nonostante essa mettesse il dito su una ferita sanguinante: il tracollo del socialismo europeo.
4. Nella riunione del 4 agosto 1914 la Direzione del PSI adottò la formula della neutralità assoluta, centrata su una rigida equidistanza dalle alleanze imperialiste in conflitto. Ora, la neutralità, comunque declinata (assoluta, attiva, operante), è un concetto del tutto estraneo a una posizione autenticamente anticapitalista, la quale si costituisce in assoluto antagonismo con il dominio sociale vigente a prescindere dalle forme politiche, istituzionali e ideologiche che esso assume nella situazione contingente. E questo tanto sul terreno degli equilibri geopolitici, della competizione interimperialistica, quanto su quello del conflitto sociale: due facce della stessa medaglia. Di più: proprio la Grande Guerra distrusse completamente la residuale distinzione tra fronte interno (nazionale) e fronte esterno (internazionale). «I tempi si sono mutati. Il capitalismo si è tanto sviluppato, che può continuare il suo sviluppo soltanto massacrando il proletariato di tutti i paesi. È nato un capitalismo mondiale, che si rivolge contro il proletariato mondiale» (13).
Per la sinistra del Partito socialista, la quale si era fatta le ossa nella lunga e dura campagna antimilitarista e anticolonialista che aveva avuto nell’avventura libica il suo principale oggetto polemico, si trattava invece di opporre all’interventismo bellico deciso dai governi borghesi l’interventismo (o disfattismo) rivoluzionario internazionalista, il quale postulava nell’immediato la denuncia del carattere imperialista, appunto, della guerra e l’elaborazione di una politica orientata a trasformare la carneficina in una guerra di classe rivoluzionaria che mettesse all’ordine del giorno la questione del Potere. Come scrisse Lenin, bisognava trasformare la guerra imperialista in una guerra civile rivoluzionaria. Altro che «né aderire né sabotare», secondo il celebre motto coniato da Costantino Lazzari. Si trattava invece di non aderire al clima di Unione Patriottica che la classe dirigente del Paese si sforzava di creare e di sabotare lo sforzo bellico già nella sua preparazione tutte le volte che se ne offriva l’occasione e la possibilità. «Noi – scriverà Amadeo Bordiga agli inizi degli anni Sessanta – deploravamo il disarmo della lotta di classe, della guerra di classe, per far largo alla guerra nazionale. La nostra alternativa non era: non sospendere la lotta di classe legalitaria, ma: combattere nella direzione della guerra rivoluzionaria proletaria. […] Noi eravamo i veri interventisti di classe, interventisti della rivoluzione» (14).
Questa, in estrema sintesi, fu la posizione che la sinistra socialista, ancora ignara della posizione disfattista leniniana (ripresa dall’eroico Karl Liebknecht al Reichstag tedesco il 4 agosto 1914), offrì alle classi subalterne del Paese in alternativa tanto all’imbelle e ambigua formula neutralista, che peraltro servì da comodo ponte per quei socialisti che vollero raggiungere rapidamente la sponda interventista, quanto, ovviamente, al volontarismo e all’attivismo di chi, partendo da posizioni “rivoluzionarie”, volle prendere le armi hic et nunc nell’illusione, tipica delle mosche cocchiere, di non rimanere ai margini della Big History ma piuttosto di esserne alla guida, o comunque viverla da attori e non da semplici comparse. A proposito di mosche cocchiere! «Né rivoluzionaria mosca cocchiera del cocchio della guerra, in combutta con i re e i generali, né pulce anarchica come quella che nella favola di Trilussa si caccia nell’ingranaggio dell’orologio col vanitoso proposito di arrestarlo e ne è schiacciata» (15). Così scriveva Claudio Treves nel 1915, irritato tanto dalla «psicosi bellicista» quanto dalla «psicosi dello sciopero generale». La “terza via” non stava tuttavia in un assurdo neutralismo (assurdo per l’avanguardia rivoluzionaria, non certo per alcune importanti fazioni della borghesia italiana, soprattutto in vista del noto voltafaccia del Paese nel sistema delle alleanze), ma in una realistica preparazione della rivoluzione sociale in Italia. Come anche il fattaccio mussoliniano rese evidente, la «psicosi» massimalista celava un reale vuoto di radicalità rivoluzionaria.
In ogni caso, la drammatica defezione di Mussolini ebbe almeno il merito di accelerare il processo di chiarificazione fra le diverse anime (riformisti di destra, riformisti di sinistra, centristi, meridionalisti, massimalisti) che da sempre abitavano nel Partito in una convivenza pagata troppo spesso in modo assai caro in termini di linearità, di coerenza programmatica e di efficacia politica. Com’è noto, quel processo di decantazione culminerà nel 1921 con la famosa scissione che portò alla formazione del Partito Comunista d’Italia da parte dell’estrema sinistra socialista.
Segue qui.
(1) Nelle Considerazioni di un impolitico (De Donato, 1967) Thomas Mann approcciò la Grande Guerra dalla prospettiva dello scontro di civiltà. Più correttamente, egli contrappose la Civiltà occidentale, centrata sulla Francia borghese e illuminista, alla Cultura tedesca. Più tardi il grande scrittore tedesco svolgerà una severa critica a quel punto di vista, elaborato in aspra polemica con le posizioni pacifiste e progressiste del fratello Heinrich. Ecco alcuni passi tratti dalle Considerazioni: «Sono col cuore dalla parte della Germania non in quanto essa è concorrente dell’Inghilterra nella politica di potenza, ma in quanto è sua antagonista spirituale. Quando al tedesco assertore della “umana civilizzazione”, quel che ben presto mi preoccupò, suscitando in me paura, odio e spirito di resistenza, non fu tanto la sua ostilità politica alla Germania, quanto piuttosto la non-germanicità del suo animo. […] Quello su cui l’assertore della civilizzazione continuava a riporre le sue speranze con una forte parvenza di diritto, era l’invasione spirituale, l’invasione politica dall’occidente, la più forte di tutte e di gran lunga la più travolgente che mai avesse segnato il destino della Germania. […] Mai avevamo, noi, immaginato che, sotto la parvenza del pacifico rapporto internazionale in questo vasto mondo di Dio, l’odio inestinguibile, mortale, della democrazia politica bourgeois-retore, repubblicano e massone del 1789, svolgesse la sua opera nefanda contro di noi, contro le nostre strutture statali, il nostro militarismo spirituale, il nostro spirito dell’ordine, dell’autorità e del dovere. […] Perché una cosa è certa: che in una fusione delle democrazie nazionali in una democrazia europea e mondiale non rimarrebbe più nulla della sostanza tedesca». Sulla natura e sul destino della «sostanza tedesca» sono stati scritti un’infinità di libri, e il tema continua a esercitare un certo fascino nell’intellighentia europea. E anche una certa inquietudine.
(2) La «spada» è naturalmente Mussolini, che Bissolati vuole allontanare dal fronte perché ne teme la morte in battaglia. Il “destro” del riformismo italiano aveva capito prima degli altri che l’ex compagno di Partito era una eccellente “riserva” della Patria. «Tra parentesi: appena quattro anni prima, al congresso socialista di Reggio Emilia [7-10 luglio 1912], il massimalista Mussolini era riuscito a cacciare dal partito il riformista Bissolati. Come si vede, in politica non sono eterni né le gratitudini né i rancori» (Sergio Romano, Il Corriere della Sera, 3 aprile 2008). «Mussolini lesse infine tra applausi frenetici la mozione che espelleva dal partito Bissolati, Bonomi e Cabrini, ma nella fretta scordò una parte delle decisioni di frazione della notte: fu necessario gridargli: e Podrecca? e allora afferrò il lapis e scrisse sul foglietto che tendeva al presidente: “la stessa misura colpisce il deputato Podrecca per i suoi atteggiamenti nazionalisti e guerrafondai ”, sollevando tra lo sbigottimento dei destri e dei centristi alte acclamazioni» (A. Bordiga, Storia della sinistra comunista, I, p. 54, Ed. programma, 1964). Appena due anni dopo le parti, tra osannanti e sbigottiti, si rovesceranno. È il Belpaese, bellezza!
(3) Avvenire, 21 giugno 2014. Ecco un saggio di “cruda memorialistica”: «Non si creda agli atti di valore dei soldati, non si dia retta alle altre fandonie del giornale, sono menzogne. Non combattono, no, con orgoglio, né con ardore; essi vanno al macello perché sono guidati e perché temono la fucilazione. Se avessi per le mani il capo del governo, o meglio dei briganti, lo strozzerei». Così scriveva nel 1916 «B. N., anni 25, soldato, condannato a 4 anni di reclusione per lettera denigratoria» (da www.storiaXXIsecolo.it). Luigi Cadorna conferma: «Il superiore ha il sacro potere di passare immediatamente per le armi i recalcitranti ed i vigliacchi» (ivi). «Ma i comandi sembravano impazziti. Avanti! Non si può! Che importa? Avanti lo stesso. Ma ci sono i reticolati intatti! Che ragione! I reticolati si sfondano coi petti o coi denti o con le vanghette. Avanti! Era un’ubriacatura. Coloro che confezionavano gli ordini li spedivano da lontano; e lo spettacolo della fanteria che avanzava, visto al binocolo, doveva essere esaltante. Non erano con noi, i generali; il reticolato non l’avevano mai veduto se non negli angoli dei loro uffici territoriali, e non si capacitavano che potesse essere un ostacolo. Arrangiatevi, ma andate avanti, perdio! Che si fa, si scherza? (tenente Carlo Salsa, tratto da Trincee. Confidenze di un fante). Non c’è dubbio: lo spirito patriottico dei soldati italiani non esce bene dalla rognosa memorialistica della Grande Carneficina.
(4) Non dobbiamo vergognarci di aver vinto, La Repubblica, 10 marzo 2014.
(5) André Maurois, Storia degli Stati Uniti, pp. 483-484, Arnaldo Mondatori, 1966.
(6) Condivido la tesi esposta da Leo Valiani nel 1963 sulla Rivista storica italiana, secondo la quale la rotta di Caporetto fu «il solo istante in cui, durante la guerra, un moto rivoluzionario sarebbe stato obbiettivamente possibile, in Italia» (Il PSI dal 1900 al 1918). Come scrive Renzo de felice caporetto funge da scintilla che fa esplodere un malessere sociale cresciuto durante tutto il ’17: indubbiamente nella prima metà del 1917 e sino alla vigilia di caporetto in Italia le masse popolari attraversarono un po’ ovunque e soprattutto nelle regioni settentrionali un periodo di tensioni e di agitazioni contro la guerra che, prendendo di mira alcune circostanze di ordine economico ed annonario, furono sul punto di assumere intonazioni di tipo rivoluzionario; altrettanto indubbiamente, però, al partito socialista mancò la capacità di canalizzare e guidare politicamente l’agitazione spontanea delle masse. In questo il partito socialista mancò quasi completamente in tutti i suoi gruppi e tutte le sue correnti (Ordine pubblico e orientamento delle masse popolari italiane nella prima metà del 1917, in Rivista storica del socialismo, 1963). Da tenere in considerazione anche quanto scrive il già citato Mario Isnenghi: «È vero che anche io presi sul serio quel che dicevano Cadorna e Mussolini sui ribelli di Caporetto. Sono andato a vedere se c’era stata la rivoluzione. Se l’avessi trovata, ne sarei stato contento. Ma non l’ho trovata, così mi sono messo a studiare come si arriva a Vittorio Veneto, dove e come termina la guerra. Bisogna farsene una ragione e pronunciare quella parola indicibile: vittoria» (Avvenire).
Un altro, e probabilmente ultimo, momento “oggettivamente rivoluzionario” si presentò in Italia alla fine della guerra, quando ai soldati (alla data dell’armistizio il regio esercito contava 2.274.000 uomini in armi) fu ordinato di smobilitare. Scriveva in un rapporto riservato del 5 gennaio 1919 il Prefetto di Bologna al Ministero degli Interni: «Il ritorno dei soldati dal fronte è, come prevedevo, elemento di nuova preoccupazione, in quanto tali militari congedati tornando in famiglia e si trovano alle prese con le più crude necessità per gli approvvigionamenti e per ottenere lavoro. Essi non vedono nulla di predisposto per accoglierli e la disoccupazione si sovrappone a quella delle masse operaie che a poco a poco vengono licenziate dagli stabilimenti già adibiti alla produzione di materiale bellico. Ora, conviene tener presente come specialmente coloro che vengono dal fronte, furono continuamente incoraggiati ed animati da una propaganda morale fatta a base di promesse… Da ciò eccitazione sempre maggiore che si esplica in due tendenze serie: volontà che chi durante la guerra ha guadagnato provveda ora all’avvenire dei combattenti e determinazione ad ottenere ciò anche con mezzi violenti che fanno precisamente il gioco dei partiti sovversivi» (Citazione tratta da R. Vivarelli, Il dopoguerra in Italia e l’avvento del fascismo, pp. 400-402, 1967).
Col tempo, vale a dire con lo studio, ho maturato l’idea, ma non l’assoluta convinzione, che allora non latitarono, in Italia, in Germania e altrove, solo le condizioni soggettive della rivoluzione (mi riferisco in primo luogo all’assenza di un soggetto politico autenticamente rivoluzionario), ma che anche le condizioni oggettive non furono mai tali da poter essere definite rivoluzionarie in senso stretto, e non a caso la presa del riformismo socialista, anche nella sua variante cosiddetta centrista (o “ortodossa”: vedi Kautsky), sul proletariato fu forte anche nei momenti di più acuta crisi sociale. Forse potremmo parlare, con Paul Mattick, di una «debole ondata di rivoluzione mondiale causata dalla prima guerra mondiale e dalla rivoluzione russa» (Il nuovo capitalismo e la vecchia lotta di classe, in AA VV, Sviluppo economico e rivoluzione, p. 143, De Donato, 1969).
(7) I caratteri di questa arretratezza, che va considerata appunto in termini solo relativi, ossia in rapporto al processo capitalistico mondiale, saranno declinati da molti intellettuali socialisti, e poi “comunisti”, in termini assoluti. Ciò ha portato i teorici della rivoluzione borghese incompiuta a mettere in risalto residui feudali che in realtà già negli anni Ottanta del XIX secolo erano del tutto marginali, se non inesistenti, rispetto alla dinamica sociale complessiva del Paese. È vero che l’Italia si affaccia in grave ritardo sulla scena capitalistica del pianeta, ma è altresì vero che essa può bruciare le tappe del proprio sviluppo economico avvantaggiandosi dell’ormai ultrasecolare prassi capitalistica internazionale. Il porre l’enfasi su veri o – più spesso – presunti retaggi feudali in Italia ha avuto soprattutto il significato di giustificare politiche di collaborazione fra le “classi moderne” del Paese tese a lasciarci “definitivamente” alle spalle un triste passato che non vuole passare mai. Appunto!
(8) «In Italia», scriveva Otto Bauer nel 1936, «Giolitti ritenne di potersi servire del fascismo per intimorire, frenare, pacificare la classe operaia ribelle. Il fascismo si giustificava volentieri di fronte alla borghesia affermando di averla salvata dalla rivoluzione proletaria, dal “bolscevismo”. […] Ma in realtà esso non riportò la vittoria in un momento in cui la borghesia era minacciata dalla rivoluzione proletaria: il fascismo trionfò nel momento in cui il proletariato ormai era da tempo indebolito e ridotto sulla difensiva, nel momento in cui l’ondata rivoluzionaria era già defluita» (Tra due guerre mondiali? pp. 116, 117, Einaudi, 1979). Se in Italia si realizzarono momenti di acuta crisi sociale, tale da poter innescare un reale processo rivoluzionario, questi momenti bisogna cercarli negli anni che vanno dall’ottobre 1917 (disfatta di Caporetto, come abbiamo visto) all’estate del 1920 (occupazione delle fabbriche del Nord). In questo periodo il malcontento delle masse proletarie urbane e rurali, il movimento ascendente delle lotte operaie del Centro-Nord e la radicalizzazione del conflitto sociale generalizzato (che coinvolse anche vasti strati di piccola e media borghesia rovinati dalla guerra); tutta questa complessa insorgenza della “questione sociale” fu tenuta a bada con gli strumenti tradizionali dello Stato liberale e con una più accentuata apertura ai partiti di masse d’ogni tendenza politica. Il manganello fascista arriverà dopo, in una fase di quasi completo disarmo politico e sociale del proletariato. Scriveva Giolitti a proposito del movimento di occupazione delle fabbriche del ‘20: «L’operaio, il quale conosce i rapporti reali, confermerà infatti le sue esigenze a questi rapporti effettivi; scomparirà in tal modo quella pericolosa sfiducia dell’operaio nei confronti del padrone della fabbrica. D’altro canto, questa promozione morale dell’operaio influirà favorevolmente sulla produzione perché sprona al lavoro, il quale – lo ripeto ancora una volta – costituisce l’unica via di salvezza». Con ciò il politico piemontese mostrava di essere uno statista di razza, dalla pasta politica assai fini. Il rozzo bastone di Mussolini si adagerà, per così dire, sulla testa di una classe operaia già fiaccata dal riformismo socialista e disgustata dal retorico quanto impotente «rivoluzionarismo dei massimalisti» – un “materiale umano” quanto mai adatto per il progetto mussoliniano.
(9) «La spiegazione data da Antonio Labriola sulla permanenza al potere in Germania dei Junker e del kaiserismo nonostante il grande sviluppo capitalistico, adombra la giusta spiegazione: il rapporto di classi creato dallo sviluppo industriale col raggiungimento del limite dell’egemonia borghese e il rovesciamento della posizione delle classi progressive, ha indotto la borghesia a non lottare a fondo contro il vecchio regime, ma a lasciare sussistere una parte della facciata dietro cui velare il proprio dominio reale» (A. Gramsci, Il Risorgimento, p. 116, Editori Riuniti, 1971).
(10) E. Bertarelli, Il pensiero scientifico tedesco, la civiltà e la guerra, pp. 3-11 Treves, 1916.
(11) H. Gorter, L’imperialismo, la guerra mondiale e la socialdemocrazia, pp. 51-52, S. E. Avanti!, 1920.
(12) Per pura curiosità, ecco cosa scriveva Lenin nel 1915 a proposito di Mussolini: «Gli opportunisti (e i transfughi del partito operaio, del genere di Mussolini) si esercitavano nel socialsciovinismo esaltando (come Plekhanov) l’”eroico Belgio” per mascherare la politica dell’Italia non eroica ma borghese che aspirava al saccheggio dell’Ucraina e della Galizia… Scusate, volevo dire dell’Albania, della Tunisia ecc. ecc.» (E adesso?, Opere, XXI, pp. 98, 99, Editori Riuniti, 1966). Per «i pretesi revisionisti nazionali del socialismo […] le cause del militarismo non sono economiche, cioè comuni a tutte le borghesie in genere, ma politiche, ossia limitate ad alcuni Stati nei quali sopravvivano forme sociali preborghesi, come l’influenza delle dinastie, delle caste feudali e militari, ecc. […] Ordunque, dato che il militarismo oggi è quello che è, e nulla ha a che fare con sopravvivenze del militarismo barbarico o feudale, risulta che esso alligna più felicemente nei paesi più modernamente industriali, più capitalisticamente ricchi, più politicamente democratici» (Avanti!, 17 settembre 1915). Gli Stati Uniti d’America dell’ultimo secolo mi sembra che offrano il modello più riuscito della tesi appena esposta. Analogamente, per Kautsky l’Imperialismo non sorge necessariamente sulla base dello sviluppo capitalistico (in rapporto soprattutto con la conseguita supremazia del capitale finanziario su ogni altra forma di capitale), ma rappresenta una delle modalità possibili della politica internazionale adottata dagli Stati borghesi. In realtà la lettura kautskiana dell’Imperialismo non è univoca, nel senso che a volte vi prevale il determinismo economico tipico della Seconda Internazionale: «Kautsky dice che gli operai non devono combattere l’imperialismo, perché esso è storicamente necessario. […] Kautsky vuole girare indietro la ruota della storia. Il capitalismo deve ritornare alle sue antiche forme dell’epoca pre-imperialistica: alle alleanze politiche e ai trattati commerciali. Kautsky è anche utopista: l’imperialismo deve passare a mezzi mansueti: a tribunali arbitrari e disarmo» (H. Gorter, L’imperialismo, la guerra mondiale e la socialdemocrazia, p. 93).
(13) Ibidem, p. 42.
(14) A. Bordiga, Storia della sinistra comunista, I, p. 97.
(15) C. Treves, Dopo un’accademia, Cit. tratta da M. Isnenghi, Convertirsi alla guerra, p. 70, Donzelli, 2015.
Leggi anche: 1914-2014. NIENTE DI NUOVO SUL FRONTE OCCIDENTALE. IERI COME OGGI.
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Ringrazio Altrecorrispondenze per il generoso “cappello” introduttivo. Davvero grazie. Un saluto!
Caro profeta, se la lunga pausa è servita per redigere l’ottimo pamphlet, ben vengano le pause. Butto lì due osservazioni e mi scuso se non sono brevi e chiare quanto vorrei.
Che cosa avrebbe dovuto fare il Belgio aggredito e saccheggiato, quale atteggiamento avrebbe dovuto assumere la Francia? È facile dire “sabotare”, ma quando si riceve una cartolina precetto, le anime comuni fanno una sola cosa: partono, entusiaste o no. Disobbedire e sabotare significa mettersi davanti a un plotone di esecuzione. Che cosa significa “combattere nella direzione della guerra rivoluzionaria proletaria”? Sono vuote parole se non sono accompagnate dai fatti. Combattere una guerra rivoluzionaria proletaria quando il governo e il capo dell’esercito hanno i pieni poteri è velleitario. La proclamazione di uno sciopero generale, ad onta delle manifestazioni patriottarde e di gioia nazionale, con l’immediata possibilità che venisse dichiarata la legge marziale, è vana e pericolosa speranza (realpolitik, come anche lei la chiama). Ed infatti la GCIL si guardò bene dal proclamare lo sciopero dopo il voto parlamentare del 20 maggio e le scene di entusiasmo popolare ben orchestrate cui partecipavano ovviamente anche i socialisti di Bissolati e i repubblicani. Peraltro la situazione che si venne a determinare in Russia, ma solo nel 17, fu un unicum per molti motivi, ben lo sappiamo, credo.
Se dopo Caporetto si fosse passati a una guerra rivoluzionaria proletaria, gli austro-tedeschi avrebbero invaso l’Italia settentrionale, preso alle spalle i francesi e con la caduta della Francia avrebbe avuto termine la guerra nel continente e i rivoluzionari italiani avrebbero fatto la fine degli spartachisti. Bisognava disobbedire e sabotare prima d’allora, non farsi eleggere in parlamento e collaborare con la borghesia, pur in una posizione di opposizione. E dunque si torna alle questioni del necessario e del possibile, secondo le note leggi, alla dialettica del processo sociale.
Non penso che M. difettasse di radicalità di pensiero, tutt’altro come dimostrano i suoi interventi. Difettava, come lei ravvisa, di gracile costituzione marxista, che però è altra cosa ed era pressoché a fattor comune. Né la posizione di M., a mio parere, è debole sul piano teorico-politico borghese (vedi la posizione di Gramsci). Scavalcò poi la barricata e issò la bandiera dell’interventismo, e la sua posizione è conseguenza. Assunse cioè il punto di vista, che noi non possiamo condividere ma non per questo giudicare politicamente debole e inefficace (visti i risultati), di chi voleva e si batteva per la guerra. Debole e inefficace si rivelò, come giustamente lei rileva, la posizione di chi non voleva prenderne posizione. Concordo sul ritratto psicologico di M. che lei traccia.
Complimenti ancora.
Intanto ringrazio davvero per l’attenzione e per il complimento. Significa che non ho scritto solo – anche, certo – per il gusto di scrivere. Sintetizzo qualche concetto, per ritornare sulla questione in modo più approfondito un’altra volta.
Per sabotaggio non intendevo riferirmi, fondamentalmente, a una parola d’ordine da spendere immediatamente nei confronti delle «anime comuni», a prescindere, cioè, dal loro reale “grado” di maturità rivoluzionaria, ma piuttosto a una strategia politica informata dalla posizione disfattista, ossia rivoluzionaria, secondo la nota parola d’ordine leniniana della “trasformazione”. Occorreva lavorare in quello spirito, per dirla “materialisticamente”, ma sempre sulla base delle contraddizioni reali del momento, e non su quelle sperate o agitate solo per vendere fumo rivoluzionario – peraltro quasi sempre in buona fede. Io stesso, ad esempio, pur essendo già un disfattista e un antipatriottico “senza se e senza ma” a suo tempo (1983) mi comportai esattamente come un’«anima comune», e feci il mio bravo servizio militare (18 mesi in Marina, col grado di sergente: vedi il mio grado di realpolitik!). Anche perché noi proletari di solito non godiamo né di utili conoscenze (per tentare l’esonero o per altro, nella fattispecie) né di buoni avvocati (come certi miei coetanei anarchici che invece disubbidirono: la loro coscienza è forse più pulita della mia? Vallo a sapere!). Mi scuso per la breve digressione biografica.
Quando parlo di “difettosa” radicalità di pensiero alludo proprio alla gracile «costituzione marxista» del futuro Duce.
Rinnovo i ringraziamenti e, per adesso, saluto.