Grande è la confusione sotto il cielo di Atene, ma nessuno può dire che essa sia anche eccellente. Dopo l’ennesimo “incontro decisivo” tra Alexis Tsipras e il Presidente dell’Ue Jean Claude Juncker, il poliziotto cattivo Wolfgang Schäuble ha tenuto a precisare che «la proposta greca non sarà la soluzione finale». Ora, sentire parlare un tedesco di «soluzione finale», sebbene per negarla, fa sempre un certo effetto. Rimane comunque il fatto che ancora una volta una soluzione finale per il caso greco non sembra alle viste. La melina ai bordi della catastrofe chiamata Grexit dunque continua. Almeno così sembra.
«Vorrei che la Grecia riprendesse la sua crescita», ha dichiarato Juncker alla fine dell’ultima cena (ahi!) con il leader greco; «ma per farlo governo e amministrazione devono adottare gli strumenti necessari [per gestire al meglio i 35 miliardi di fondi strutturali che la Commissione europea mette loro a disposizione per il periodo 2014-2020]. Non voglio che si dica che la Commissione Ue ha sottoposto la Grecia ad una cura di austerità. Sosteniamo l’economia reale con 35mld, a patto si doti di un’amministrazione in grado di usarli». Dal canto suo il Presidente dell’eurogruppo Jeroen Dijsselbloem fa sapere che quello di ieri «è stato un buon incontro, proseguiremo nei prossimi giorni». Tsipras, come al solito, è apparso ancora più fiducioso: «Sono ottimista, siamo molto vicini ad un accordo, abbiamo una base su cui discutere e nei prossimi giorni faremo ulteriori progressi, un accordo è in vista. Tra tutte le parti c’è accordo per mettere fine all’austerità e alle misure del passato, nessuno vuole più fare gli stessi errori». Chi segue il caso greco sa bene che almeno negli ultimi due mesi il Premier greco non ha fatto che ripetere, incontro “decisivo” dopo incontro “decisivo”, la stessa ottimistica filastrocca. Qualche giorno fa in un’intervista a Radio Vima il Ministro delle Finanze Varoufakis aveva anche detto che «La Grecia è molto vicina a un accordo con i creditori»; poi si è saputo che i creditori non ne sapevano niente…
La tattica seguita dagli ellenici nelle ultime settimane è abbastanza elementare (si tratta di vedere quanto efficace): mostrare all’opinione pubblica interna e internazionale tutta la buona volontà e la buonafede della leadership greca, far vedere che il governo di Atene è disposto all’accordo, di più: che esso lo vuole con tutte le sue forze, mentre sono i soliti cattivoni di Bruxelles, di Berlino e della Troika (pardon: dell’«ex Troica» o «Istituzioni» che dir si voglia) che alzano continuamente il prezzo dell’accordo, reiterando la «micidiale e assurda» politica dell’Austerity. Il possibile fallimento delle trattative in corso andrebbe dunque attribuito all’irresponsabilità dei “poteri forti”. Nelle ultime settimane Tsipras e Varoufakis hanno continuato a fare melina sull’orlo del precipizio, giocando di sponda con russi e cinesi per alzare anche la posta geopolitica della crisi.
Due competitori corrono l’uno contro l’altro in automobile a folle velocità: vince chi non cambia traiettoria, chi mostra fino all’ultimo secondo utile di non temere il botto. Game of chicken (pollo nella declinazione anglosassone, coniglio in quella latina): si tratta di un esempio elementare di quella Teoria dei Giochi che tanto piace al “marxista eccentrico” di Atene, il quale – insieme a Joseph Stiglitz, Thomas Piketty e molti altri economisti progressisti occidentali – è socio dell’esclusivo Club dei Salvatori del Capitalismo – da se stesso. Vedremo alla fine chi risulterà il pollo (o coniglio) della situazione. Ovviamente Tsipras non vuole finire nella padella dei “poteri forti”, e le sue ricorrenti minacce sono rivelatrici di una certa angoscia governativa: «Se alcuni pensano o vogliono credere che le decisioni che ci aspettano riguardano solo la Grecia si sbagliano. Rimando loro ad un capolavoro di Ernest Hemingway: Per chi suona la campana?». Detto più prosaicamente: chi è il pollo di turno da spennare?
Sembra comunque che la sabbia nella clessidra della crisi greca (che poi è parte della crisi del cosiddetto “sogno europeo”) si stia rapidamente esaurendo, e che difficilmente il vecchio arnese “temporale” potrà venir capovolto per l’ennesima volte. Siamo dunque alla resa dei conti finale? È finalmente giunto quel fatale redde rationem spostato di mese in mese negli ultimi due anni? D’altra parte Dimitris Belantis, componente del Comitato Centrale di Syriza e critico nei confronti della “svolta possibilista” di Tsipras, due settimane fa aveva parlato chiaro a tal riguardo: «Giugno è la scadenza ultima per reagire alle minacce del sistema capitalista internazionale». Nientemeno! Verrebbe voglia di trasferirsi all’istante in Grecia, per dare una mano ai compagni governativi. Male che vada, in qualità di turisti anticapitalisti potremmo sempre dare il nostro modesto obolo al «popolo che resiste».
La melina del governo greco, peraltro in qualche misura assecondata dalla controparte europea e dallo stesso Obama (e certamente salutata con favore da Putin), ha fatto saltare i nervi a più di un decisionista. Un solo esempio: «Non si può volere tutto», scriveva sul Foglio (29 maggio) Giuliano Ferrara; «l’euro i mercati aperti e l’autarchia, i prestiti dei capitalisti senza le riforme capitalistiche, non si può avere una popolazione di impiegati superiore alla media europea, un salario minimo superiore, la pretesa di ricominciare ad assumere con l’acqua del deficit alla gola, il rifiuto di serie privatizzazioni, pensioni fuori controllo, e il tutto con le casse svuotate da decenni di bugie, di clientelismo fattosi sistema, di tasse in esenzione per i comparti decisivi dell’economia, non si può volere sovranità per i propri elettori e sudditanza per gli elettori degli altri. […] Il debito greco è già stato in parte condonato tre anni fa, dice Schäuble, e in parte ristrutturato, il servizio sul debito pesa meno per i greci che per i tedeschi, e alla fine gli economisti possono dire quello che vogliono, perché parlano di soldi che non sono i loro, ma chi governa ha altri problemi. […] Schäuble che dice sconsolato: non sono spaventato da certi metodi, ho trattato anche con i ministri di Honecker all’epoca della riunificazione, uno deve parlare con gli altri per come sono e non per come vorrebbe che fossero. […] Gli antagonisti del Partenone sono i veri impresentabili, in tutta questa faccenda di podemos, di possibili, di antipolitici, di sparafucile a sinistra e a destra e per ogni dove. Gli americani fanno finta di niente, e non vogliono altre grane. Bisognerà tirare somme politiche, alla fine: è compatibile con l’Europa un governo socialista e populista, barricadero e social-nazionalista? Si può allungare il brodo, gli stati possono delegare ai tecnici i concordati e le ristrutturazioni del debito, ma alla fine: è compatibile? La risposta è probabilmente un lungo, tortuoso e pericoloso: no». Alla fine, che Grexit sia! L’importante è mettere un punto a questa snervante partita a scacchi, a questa agonia offerta al mondo in stillicidio. Come diceva quello, meglio una rapida fine nell’orrore, piuttosto che un orrore senza fine!
Per Ferrara la «crisi umanitaria» di cui tanto parlano i socialnazionalisti greci «non è che la nuova versione ideologica della crisi economico-sociale». Finalmente un po’ di pulizia “semantica”, un po’ di sano materialismo! In effetti, la «crisi umanitaria» è un dato strutturale e permanente della società capitalistica. Nel senso che c’è sempre crisi di umanità, che l’indigenza in fatto di umanità è la regola, ovunque nel mondo. Ma questo non è che il dozzinale esistenzialismo che il sottoscritto cerca puntualmente di propinare, con scarso successo, al lettore, e che in ogni caso non aiuta a rispondere alla cruciale e forse financo epocale domanda posta dall’Elefantino: «è compatibile con l’Europa un governo socialista e populista, barricadero e social-nazionalista?».
Io rilancio e formulo una domanda ancora più scabrosa e solo apparentemente fuori luogo (almeno lo spero): è compatibile il Mezzogiorno italiano con il Nord’Italia? Un tempo la Lega Nord avrebbe formulato all’istante la giusta risposta a questa domanda che tanto irrita la coscienza di ogni onesto italiano, soprattutto di quello “stanziato” a Sud e foraggiato dallo Stato attraverso la fiscalità generale. La coesistenza in uno stesso spazio politico-istituzionale di aree capitalistiche fra loro troppo disomogenee deve necessariamente produrre, presto o tardi, delle conseguenze sistemiche. Quel che è certo è che l’Unione Europea non è ancora «un’area monetaria ottimale», per dirla con la scienza economica. Secondo il Guardian «La medicina imposta alla Grecia dai creditori si è dimostrata veleno. Si vuole una moneta permanente che invece inizia a disintegrarsi». Pare che il Marco Tedesco si stia riscaldando a bordo campo: meglio non lasciarsi cogliere di sorpresa da esiti sfavorevoli (per chi?) oggi non prevedibili. «La cancelliera tedesca Angela Merkel, in un’intervista alla corrispondente Rai, sottolinea: “Sulla crisi greca sono fiduciosa: penso che tutti dobbiamo esserlo. La Grecia vuole rimanere parte dell’Euro, anche la Germania lo vuole, tutti gli stati Ue vogliono questo» (Rai News, 5 giugno 2015). Però il riscaldamento del bomber tedesco continua…
Come ho già ricordato in un vecchio post, alla fine degli anni Ottanta Jacques Delors, allora Presidente della Comunità Europea e teorico del post-nazionale, accusava la Thatcher, che remava contro l’asse “europeista” Parigi-Bonn, di esagerare la reale importanza dello Stato-nazione e la portata delle differenze sociali fra i diversi Paesi europei: «lo sciovinismo può essere un bel paravento per nascondere venti anni di declino» – inglese. Richiamandosi alla tesi di Harmut Kaeble, storico dell’Università Libera di Berlino, secondo la quale l’Europa presentava al suo interno meno differenze sociali rispetto all’Unione Sovietica e agli stessi Stati Uniti, Delors sosteneva che ormai ci fossero tutte le condizioni strutturali per poter parlare di una completa integrazione europea post-nazionale, e che gli ostacoli da superare in vista degli Stati Uniti d’Europa avessero una natura squisitamente politica, più che sociale in senso stretto. Com’è noto, la Lady di Ferro non si fece convincere dall’ideologia europeista, e con qualche ragione a quanto pare. Oggi si parla addirittura di Brexit, ma questo è un altro discorso. Ma fino a un certo punto!
Scriveva Lucio Caracciolo il 26 maggio scorso, dopo aver versato qualche lacrima sulle macerie del Muro di Berlino (i nostalgici della Guerra Fredda sono sempre più numerosi) e aver per l’ennesima volta elencato i limiti della «vecchia Europa svuotata di senso»: «Le giornate degli europei non sono tutte eguali. Quelle tedesche sono ben più luminose delle nostre, non diciamo delle greche. Grazie al geniale euromeccanismo che i germanofobi vollero architettare per imbrigliare la Germania. Imbrigliando se stessi. E imbrogliandoci tutti» (Limes). È la dialettica del processo sociale capitalistico, bellezza! Alla fine, la potenza sistemica dei Paesi, o di singole aree (regioni) dello stesso Paese, deve trovare un’adeguata configurazione “sovrastrutturale”. (In realtà la stessa “sovrastruttura” è sempre più a tutti gli effetti una infrastruttura economica).
L’impressione è che l’Unione Europea si sia ficcata in un cul de sac realizzato dall’alternativa fra i due tradizionali modelli politico-istituzionali presenti nel dibattito politico europeo dagli anni Cinquanta in poi: Europa delle Patrie o Federazione di Stati? Stare in mezzo al guado genera una crescente instabilità che potrebbe superare il punto critico di non ritorno. Si tratta di capire in quale direzione la crisi spingerà il Progetto Europeo.
Il citato Dimitris Belantis è favorevole alla Grexit, all’uscita volontaria, e possibilmente “vellutata”, del Paese dall’euro: «Il default ci renderebbe automaticamente una colonia tedesca, governata dalla Troika con politiche neoliberali. Ecco perché, davanti a queste possibilità, forse la Grexit – per quanto comporterebbe un bagno di sangue nel breve termine – ci renderebbe alla fine liberi nel lungo periodo. È chiaro che misure di controllo dei capitali e delle banche sarebbero poi necessarie, ma è un rischio di cui i greci devono essere consapevoli e sul quale devono scegliere» (Linkiesta, 14 maggio 2015). Com’è noto, anche il Ministro tedesco Schäuble si è pronunciato in termini positivi circa la possibilità di sottoporre il piano di riforme che sarà concordato tra Atene e l’ex Troika a un referendum popolare: «Se il governo greco pensa di dover tenere un referendum, allora lasciamogli tenere un referendum – ha dichiarato Schäuble –. Potrebbe essere una misura perfino utile per il popolo greco per decidere se è pronto ad accettare quello che è necessario o se vuole qualcosa di diverso» (Corriere della Sera, 12 maggio 2015). Come scrivevo su un post, «della serie: Decidi tu, oh popolo sovrano, l’albero a cui desideri impiccarti. I funerali democratici del “popolo sovrano” saranno celebrati tra qualche mese?». E il «bagno di sangue nel breve termine» dove lo mettiamo? «Per la Sacra Patria questo e altro!». Almeno così la pensa il nazionalsocialista duro e puro, in Grecia come altrove.
Secondo la Goldman Sachs un default tecnico della Grecia e un blocco dei depositi ellenici «non solo è possibile [ma] potrebbe essere necessario allo scopo di rompere l’impasse in cui versano i negoziati con i creditori». In un report di qualche giorno fa la banca americana rilevava come le trattative siano ormai in uno stallo praticamente insormontabile e che la situazione delle casse di Atene, ormai quasi vuote, potrebbe costringere il governo greco a disattendere i suoi impegni con pensionati e lavoratori, a cui, com’è noto, è stato promessa la priorità nel pagamento di salari e pensioni rispetto alle obbligazioni con i creditori. Le mitiche linee rosse tracciate nel Programma elettorale di Syriza rischiano insomma di evaporare, e ciò spiega la crisi che scuote quel partito: «Il premier greco Alexis Tsipras si trova a fronteggiare un difficile risiko sul fronte interno ed esterno. Da una parte le lunghe trattative sul piano di salvataggio con il Fondo Monetario Internazionale, la Commissione europea e la Banca centrale europea, dall’altro, un terreno ancora più turbolento, l’aperta ribellione dell’ala più oltranzista di Syriza che ha lanciato un avvertimento al premier greco: se superi la nostra linea rossa di impegni con gli elettori si va alle urne» (askanews, 1 giugno 2015). Elettori greci, preparate la corda: da tutte le parti vi si vuol… consultare.
Scrive Jacques Sapir a proposito della “relazione egemonica” che lega l’Unione Europea alla recalcitrante (o “antagonista”) Grecia: «Una comunità che, a causa dei trattati, potesse prendere solo decisioni senza importanza sulla vita dei suoi membri non sarebbe meno asservita di quella che si trovasse effettivamente oppressa da una potenza straniera». Ma di che «comunità» stiamo parlando? Si tratta forse della «comunità» capitalistica oggi vigente in tutto il pianeta? La risposta non può che essere affermativa, ovviamente. Personalmente ne ricavo quanto segue: Sapir ha eliminato per decreto divino (forse si tratta di Zeus in persona, vista la fattispecie di cui si tratta) la divisione classista delle comunità ospitate dal nostro capitalistico mondo, così che la contesa fra gli Stati possa apparire in guisa di “contraddizione principale”, come ai vecchi tempi del Terzomondismo. Il Capitale come potenza estranea che tutti e tutto domina deve insomma lasciare il passo alla «potenza straniera», comunque declinata (Stati Uniti, Germania, Unione Europea, Troika e così via), che si accanisce contro l’autonomia e la dignità di una “libera” comunità nazionale. Ai tempi di Lenin i “marxisti rivoluzionari” spiegavano al proletariato occidentale che parlare di dignità e autonomia nazionale nell’epoca imperialistica equivaleva a una truffa politico-ideologica tentata ai loro danni dalle classi dominanti, le quali naturalmente sono felici tutte le volte che possono annegare i contrasti di classe nel veleno della solidarietà nazionale – e qui il concetto (borghese) di Popolo gioca un importante ruolo. Se, come io penso, quel discorso era valido allora, figuriamoci se non lo è oggi, nella Società-Mondo del XXI secolo, nell’epoca del dominio totalitario e mondiale del Capitale.
I partigiani dell’UE quale essa è», continua Sapir, «hanno allora subito preteso che i sovranisti non siano che nazionalisti. Ma facendo questo dimostrano la loro incomprensione profonda di quello che è in gioco nel principio di sovranità: di fatto, l’ordine logico che va dalla sovranità alla legalità attraverso la legittimità, e che è costitutivo di ogni società». Ora, nel contesto del XXI secolo ha certamente senso parlare di sovranità borghese, di legalità borghese, di legittimità borghese e, va da sé, di società borghese, mentre non ha alcun senso, se non quello riconducibile all’ideologia e agli interessi che fanno capo alla classe dominante, parlare in astratto di quei concetti e delle corrispondenti realtà politico-istituzionali. I sovranisti difendono la vecchia configurazione del potere politico (borghese), la quale fa sempre più fatica a stare dietro ai mutamenti sistemici innescati dal processo sociale capitalistico, la cui dimensione oggi è appunto planetaria, la dimensione più adeguata al concetto e alla natura (espansiva, totalizzante, invasiva, “rivoluzionaria”) del Capitale. Il sovranismo (o nazionalismo!) è una delle carte che la classe dominante di un Paese può giocare, o si vede costretta a giocare, in un momento di acuta crisi sociale, ma in nessun caso esso è in grado di far girare all’indietro la ruota del processo sociale. Faccio del volgare “determinismo economico”? No: mi limito a prendere atto della storia dell’ultimo secolo e mi sforzo di capire la natura della società con cui abbiamo a che fare.
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