Scriveva ieri Federico Morganti sul Foglio:
«Se vi recate in un punto Feltrinelli, reparto “Filosofia”, e date un’occhiata alle novità, vi sarà impossibile non notare la pila di copie del nuovo libro di Slavoj Žižek, filosofo marxista e critico del neoliberismo tra i più acclamati al mondo. Il titolo è di quelli forti: “Problemi in paradiso. Il comunismo dopo la fine della storia” (Ponte alle Grazie). “Il filosofo più pericoloso d’Occidente, ci fa pensare l’impensabile”, sono alcuni dei giudizi che campeggiano in copertina, non lontani dalla perentoria invocazione: “È ora di uscire dal capitalismo”.
Il contenuto del libro è quanto mai vago. Se c’è qualcosa in cui Žižek eccelle, sembra essere la capacità di dare l’impressione di dire tantissimo dicendo in realtà molto poco. Uso di immagini ed evocazioni, discettazione disinvolta su film di Hollywood, libera transizione da un argomento all’altro e, di conseguenza, estrema difficoltà a restare sul punto, insieme alla pretesa tipicamente marxista di mettere a nudo le altrui ideologie restandone però miracolosamente al riparo, sono alcune delle caratteristiche salienti di questo lavoro. In quello che costituisce l’ennesimo capitolo dell’eterna lotta tra capitalismo e comunismo, sembra che l’autore non capisca il primo e lasci volutamente vago il secondo.
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Che il sistema capitalistico sia la causa di questo o quel disastro, come la disoccupazione o la povertà, sono affermazioni che, come tutte le affermazioni causali, dovrebbero essere sostanziate empiricamente. Ma di una simile volgarità modernista in questo libro non c’è traccia. Quando Žižek contesta la curva di Laffer, raccontandoci che non è vero che c’è una soglia oltre la quale tasse troppo alte riducono il gettito, dovrebbe quantomeno fornire ricerche che abbiano indagato questo fenomeno e mostrato che tale riduzione non sussiste (se così è), anziché produrre astratti ragionamenti (tutt’altro che ineccepibili) su perché essa non dovrebbe avere luogo.
Ostentare una dimestichezza con l’economia che non si ha, e farlo gridando ai quattro venti circa i mali che affliggono il mondo, non denota grande correttezza.
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Siamo poi informati che la soluzione a tutti questi problemi, l’evento rivoluzionario che consentirà la “liberazione” dell’umanità dovrebbe essere pensato all’interno dell’“orizzonte comunista”. Cosa ciò significhi è però a dir poco oscuro. Più volte incontriamo ammissioni molto chiare circa le atrocità commesse in Unione sovietica, Cambogia, Cina, ecc., ammissioni che dovrebbero tranquillizzarci circa il fatto che no, questa forma di violenza non la vogliamo. Ma se è vero che quelli, come dice Žižek, erano comunisti che tradivano le loro stesse premesse, il libro non ci spiega in cosa tale tradimento consista. I critici del comunismo dimenticano che se oggi è possibile constatare gli “orrori e fallimenti” comunisti è proprio grazie all’apertura di questo “spazio delle utopie” operata dal comunismo stesso. E benché non si possa non ammettere che “la democrazia capitalista caratterizzata dallo stato sociale risulta incomparabilmente migliore, (…) ciò che redime il ‘totalitarismo’ stalinista è l’aspetto formale, lo spazio che esso dischiude”.
Insomma, aprire uno “spazio” al di fuori del capitalismo in cui sia pensabile non si sa quale utopia è un merito intrinseco, anche se ti chiami Stalin, indipendentemente da come quello spazio poi lo riempi. E fa specie leggere che una sottigliezza formale sia sufficiente a riscattare regimi sanguinari, mentre problemi circoscritti che appartengono al nostro sistema siano talmente intollerabili da rendere inutile qualsiasi tentativo di riforma».
Non commento la recensione di Morganti, che personalmente trovo molto interessante, anche se informata da un punto di vista “neoliberista” che naturalmente non condivido; essa è però tale da suscitare in me una forte curiosità per l’ultima fatica editoriale dell’intellettuale sloveno. Sulla concezione “comunista” di Žižek qui mi limito a commentare un solo passo del libro in questione che la dice lunga sulla sua interpretazione dell’Evento stalinismo* (un reale Capitalismo, più o meno “di Stato”, passato alla storia come «Socialismo reale»): «La Corea del Nord incarna il vicolo cieco del progetto comunista del ventesimo secolo». A mio modesto avviso il «vicolo cieco» concettuale che impedisce a molti amici dell’uomo in quanto uomo di svolgere una critica più fondata e autenticamente radicale della vigente Società-Mondo, con ciò che ne segue (o potrebbe seguirne) in termini di iniziativa politica, è rappresentato proprio dalla lettura dello stalinismo come «comunismo novecentesco». Non a caso Žižek ha sostenuto, ad esempio, Tsipras e ha scritto tante borghesissime riflessioni intorno al «sogno europeo».
* Da Lo scoglio e il mare. Riflessioni sulla sconfitta della Rivoluzione d’Ottobre – 1917-1924:
Un’interpretazione completamente infondata del «fenomeno» stalinismo la troviamo anche nel noto sociologo-filosofo Slavoj Žižek, i cui lavori teorici, dedicati all’analisi delle società capitalisticamente avanzate d’Occidente, non risultano peraltro del tutto indigesti a chi scrive, tutt’altro (soprattutto per la dichiarata avversione dell’autore per l’odioso «politicamente corretto» tanto caro ai “progressisti” del pianeta), e questo scrivo per testimoniare la mia “obiettività” nei suoi riguardi. Scrive Žižek: «Anche per quanto riguarda l’effettiva trasformazione sociale, o “taglio nella sostanza del corpo sociale”, la vera rivoluzione non fu quella di ottobre, ma la collettivizzazione degli ultimi anni Venti. La rivoluzione di ottobre lasciò la sostanza del corpo sociale intatta; da questo punto di vista, essa fu simile alla rivoluzione fascista, la quale impose soltanto una nuova forma di potere esecutivo sulla rete preesistente di relazioni sociali, proprio per mantenere questa rete di relazioni sociali … Fu soltanto la collettivizzazione forzata degli ultimi anni Venti a sovvertire e smembrare completamente la “sostanza sociale” (la rete di relazioni che era stata ereditata dal passato), perturbando e intaccando profondamente i tessuti sociali elementari» (1).
In questi passi troviamo, tra l’altro, la negazione della tesi fin qui sostenuta, vale a dire l’interpretazione della Rivoluzione d’Ottobre e della Controrivoluzione Stalinista come processi sociali antagonisti l’uno nei confronti dell’altro, sebbene collegati «dialetticamente» sul piano storico. Non per niente parlo di «Rivoluzione» e di «Controrivoluzione» in riferimento ai due «Eventi». Non solo lo studioso sloveno non coglie la reale rottura controrivoluzionaria rispetto all’esperienza rivoluzionaria «leniniana» (1917-1924) rappresentata dallo stalinismo, ma anzi concepisce quest’ultimo come il vero momento di svolta, il salto di qualità nel processo politico e sociale apertosi nell’ottobre del ’17. Ora, è pur vero che lo stalinismo impattò violentemente sul corpo sociale della Russia, generandovi rapidi e profondi cambiamenti (peraltro al prezzo di sofferenze inimmaginabili patite da decine di milioni di individui appartenenti a tutte le classi sociali), mentre i primi anni di esperienza rivoluzionaria non avevano praticamente intaccato il quadro complessivo dei vecchi rapporti sociali. Ma ciò che ha importanza ai fini del giudizio storico e, soprattutto, politico su questi due momenti del processo rivoluzionario (con il primo, quello «leniniano», che lo avvia, e il secondo, quello «staliniano», che lo conclude nei modi paradossali, e alla fine anche parossistici, che cerchiamo di lumeggiare) è il confronto tra le potenzialità storiche e sociali che facevano capo all’«Evento-Ottobre», e la qualità (borghese) delle trasformazioni sociali che si produssero nella Russia assoggettata alla collettivizzazione forzata e feroce (2) promossa dal partito Bolscevico alla fine degli anni Venti. Senza poi considerare la qualità del rapporto che si venne a instaurare tra lo stalinismo e il movimento comunista internazionale, quest’ultimo completamente sussunto sotto gli interessi della «Patria Socialista». Tutte le trasformazioni sociali promosse e attuate, più o meno felicemente, dallo stalinismo non solo non esorbitavano dal quadro storico e sociale capitalistico (come moltissimi altri storici e sociologi, Žižek interpreta il capitalismo di Stato «sovietico» come «socialismo reale»), ma al contrario del periodo precedente (rivoluzionario) non offrivano neanche la più pallida prospettiva di un suo superamento, né per l’immediato né per il futuro. Con lo stalinismo il processo storico avanza in Russia su un solidissimo terreno borghese-imperialista, sebbene intorno alla povera mummia di Lenin sventolasse la bandiera rossa e si facesse un gran parlare di «mirabili conquiste socialiste» (3).
(1) Slavoj Žižek, Il soggetto scabroso, Raffaello Cortina ed., 2003.
(2) «Nel 1929, simultaneamente al Piano Quinquennale, lo stato sferrò un’altra grande campagna antireligiosa … Solo la propaganda antireligiosa fu considerata legale» (B. Pares, Russia). Al contadiname russo, tradizionalmente devoto all’ortodossia cristiana, fu tolto anche il conforto dell’oppio. Una vera crudeltà! Al contadino è prescritto che egli «porti la catena spoglia e sconfortante» (Marx).
(3) Seguendo le sue false piste Žižek giunge a individuare nello stesso Marx il vizio d’origine dello stalinismo: «Marx è dunque rimasto all’interno dei confini della “prima modernizzazione”, la quale mirava a stabilire una società autotrasparente regolata dall’”intelletto collettivo”; non ci si dovrebbe sorprendere che questo progetto abbia trovato una sua realizzazione perversa nel Socialismo reale, il quale ha forse rappresentato il tentativo più radicale di sospendere l’incertezza propria della modernizzazione capitalistica» (Il soggetto scabroso). In questa sede ci sentiamo di proferire una sola scabrosa esclamazione: povero Marx!
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