Alta volatilità!
Questo post è stato scritto ieri, mentre andava in scena il rimbalzo borsistico su scala planetaria e giungevano eccellenti notizie circa l’«economia reale» del Capitalismo a stelle e strisce, ritornato a essere almeno per un giorno la locomotiva del mondo. Che cosa accadrà oggi? E domani? Ci vorrebbe un Nostradamus, né più né meno. Anche perché la volatilità rimane alta, sotto ogni aspetto!
Una crisi di transizione?
Per George Magnus, economista del Financial Times, ciò che accade in Cina va senz’altro rubricato come «crisi di transizione». Si tratta di vedere fino a che punto questa crisi possa rivelarsi “di crescita”, com’è ovviamente negli auspici dei leader cinesi e di chiunque nel mondo ha interesse a che la Cina ritorni a essere la locomotiva del capitalismo planetario. In diversi punti l’analisi di Magnus sembra avvicinarsi alla mia; ne suggerisco comunque la lettura perché essa illumina aspetti importanti del problema in oggetto. Riporto alcuni passi dell’articolo:
«Agosto in Cina è stato tutt’altro che il tranquillo mese del mito. Gli sviluppi nei mercati azionari, nei mercati dei cambi e anche il terribile incidente industriale a Tianjin potrebbero sembrare, se considerati singolarmente, mera sfortuna. Tuttavia, se presi insieme, questi episodi simboleggiano l’epilogo in slow motion del modello economico e politico della Cina. Il paese sta attraversando una crisi di transizione senza precedenti dal momento in cui Deng Xiaoping decise di porre una soluzione di continuità tra l’era di Mao e il futuro della Cina. Ripristinare l’autorità e il primato del Partito comunista, proseguire sulla strada di riforme spesso controverse, liberalizzare la finanza e riequilibrare l’economia tentando di sostenere un tasso di crescita irrealistico appaiono obiettivi complessi e reciprocamente incompatibili. Il compito di Deng, in una società pre-industriale senza una classe media e dei social media, è stato per molti versi più facile. […] Per far fronte ai gravi problemi del Paese, il presidente Xi Jinping ha portato indietro le lancette dell’orologio. Ha accumulato più potere di qualsiasi altro leader da Mao in poi e ha sottolineato la necessità di una “purezza di partito” di stampo leninista per evitare il destino del partito comunista sovietico. […] La transizione economica della Cina è stata sempre difficile, ma gli sviluppi di quest’anno suggeriscono che le cose non stanno andando secondo i piani. La centralizzazione del potere si sta rivelando una spada a doppio taglio per la riforma; la campagna contro la corruzione sta soffocando l’iniziativa privata e la crescita dell’economia non può essere mantenuta su un sentiero di espansione non realistico da stimoli senza fine. […] Una parte centrale della sfida per la Cina sarà la sua capacità di gestire l’occupazione, un indicatore più politicamente sensibile del PIL. Il tasso di disoccupazione ufficiale, che si aggira da molti anni intorno al 4 per cento, è una finzione. Molte ragioni (come gli attuali livelli di investimento nella produzione ad alta intensità di manodopera) inducono a credere che il tasso reale di disoccupazione può solo essere superiore al 6,3 per cento stimato dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro. […] Sarà questo scenario a mettere alla prova la credibilità e la volontà riformatrice dei leader cinesi nei modi che determineranno le prospettive del Paese per gli anni a venire».
A proposito di conti truccati! Secondo diversi analisti economici (anche cinesi) i dati reali sui conti cinesi attestano quanto segue: crescita del Pil non al 7%, ma già sotto il 5%, debito pubblico esploso oltre il 300% del Pil, sopra i 30 mila miliardi di dollari, metà evaporati nei debiti immobiliari e metà generato dalle banche ombra. Se son spine, pungeranno. Questo è sicuro, e a questo punto non ci vorrà molto per accertarlo.
Scrive L’Huffington Post del 24 agosto: «Gli effetti della crisi cinese sui mercati globali sono sotto gli occhi di tutti, eppure non è facile rendersi conto perché Pechino, da sola, possa far tremare l’economia mondiale. Una strada immediata per rendersene conto è osservare queste quattro tabelle realizzate FTN Financial, che mostrano chiaramente perché il rallentamento dell’economia cinese spaventa così tanto i mercati di tutto il mondo». Ecco dunque le tabelle:
Per la Goldman Sachs l’Occidente non ha motivo per allarmarsi più di tanto: «La Cina sta frenando più di quanto ci si aspettasse. E per i Paesi emergenti il rallentamento di Pechino, il crollo delle materie prime e il rialzo dei tassi americani (quando arriverà, aspettando Godot) saranno una bella sberla. Ma ha senso parlare di recessione globale? Secondo un recentissimo report di Goldman Sachs no. La crescita degli Stati Uniti e la lenta progressione dell’Europa non verranno seriamente azzoppate dai guai di Pechino, anzi riceveranno un colpo di acceleratore dallo scivolone del petrolio. Anche se quest’ultimo terrà l’inflazione più bassa di quanto si stimasse qualche mese fa, gli analisti di Goldman Sachs rimangono convinti che “una recessione globale sia davvero improbabile”» (Enrico Marro, Il Sole 24 Ore, 24 agosto 2015).
Romano Prodi invita alla calma, come si conviene a uno statista (peraltro molto apprezzato dalla leadership cinese) ben temperato del suo calibro, ma non nasconde le sue preoccupazioni, anche di natura geopolitica: «Se la Borsa cinese continua a calare non dobbiamo preoccuparci troppo perché, dopo che era tanto irragionevolmente cresciuta, un bel calo entra nella normalità. Il vero pericolo è che la crisi cinese, che è insieme crisi della sua economia reale e della sua finanza, non infetti tutta l’economia mondiale che è già debole di per sé. Lo vogliono gli Stati Uniti? Lo vuole di conseguenza la Germania? Lo vuole davvero la Cina sapendo quale riforme deve fare per raggiungere questo obiettivo? Date le tensioni politiche che montano ogni giorno vedo molto difficile questo percorso» (Il Sole 24 Ore, 26 agosto).
Qualche giorno fa mi chiedevo se si fosse esaurita la spinta propulsiva del Capitalismo con caratteristiche cinesi; Giampaolo Visetti risponde positivamente alla domanda e descrive una situazione che ricorda molto la vigilia di una crisi di regime: «Nemmeno la censura riesce più a reprimere un dissenso nuovo, che da ideologico diventa finanziario, che da studenti e intellettuali contagia operai, classe media e milionari, l’immenso popolo consegnato al capitalismo comunista. L’accusa collettiva contro i vertici del partito non ha precedenti e supera ormai i blocchi del web: “Vi abbiamo obbedito, ci avete tradito e infine venduto”. Milioni di cinesi non dimenticano che proprio le autorità, ancora in giugno, incitavano la gente a comprare azioni, a vendere casa e a fare debiti per gettarsi nel sogno del mercato di Stato, gonfiato del 150% in un anno. Quelle stesse autorità ora tacciono, scatenano censura e repressione, aggiustano le statistiche, rincorrono con imbarazzante ritardo gli scoppi delle bolle. È come se la fine di un’era del suo sviluppo colpisse a morte lo stesso Dragone». Sull’«immenso popolo consegnato al capitalismo comunista» [sic!] oggi sorvolo: non posso sempre diffondermi sulla balla speculativa del «comunismo con caratteristiche cinesi»! Sulla natura nazionale-borghese della rivoluzione maoista e sulla mia interpretazione della cosiddetta Grande Rivoluzione Culturale rimando a Tutto sotto il cielo – del Capitalismo.
Linea rossa
Oggi molti nella “sinistra radicale” stanno rispolverando la figura del compagno statalista Bo Xilai, il «principe rosso», nonché «leader neomaoista», caduto in disgrazia nel 2012 a causa di una vicenda politico-giudiziaria i cui contorni rimangono ancora oscuri, come del resto capita spesso in Cina quando i Cari Leader di Pechino dibattono su quale sia la migliore via da prendere per il bene del Paese. Nello scontro interno al Partito-Stato Bo Xilai difese gli interessi politici ed economici della fazione continuista («linea rossa») messi pesantemente in discussione dai “riformisti” («linea nera»). Scrivevo su un mio post del 16 marzo 2012 dal titolo, forse un po’ “profetico”, Cina: ora per allora:
«Che accade in Cina? Cambiato il molto che c’è da cambiare, nel Celeste Impero del Capitalismo mondiale è in corso l’ennesima lotta tra le due tradizionali fazioni (la “linea rossa” e la “linea nera”) del PCC? E qual è la posta in gioco? È ancora presto per dirlo. Certo è che l’improvviso siluramento dell’astro nascente Bo Xilai avviene in un momento in cui l’economia del Paese inizia a risentire l’onda lunga della crisi economica internazionale, la quale ha messo in luce le contraddizioni e i punti deboli del gigantesco balzo sistemico compiuto dalla società cinese negli ultimi trent’anni. La crescita economica rallenta, e il raggiungimento della pericolosa soglia del 7 per cento annuo di crescita del Pil appare più che un’ipotesi. La tensione sociale, mai bassa per la verità, deve perciò necessariamente crescere, pericolosamente. “Bo Xilai ha cercato di rappresentare questi malumori con una campagna molto demagogica, e ha condito le implicite critiche al governo con un tripudio di bandiere rosse e canti popolari che appartengono al vecchio repertorio della Rivoluzione culturale” (Sergio Romano, Corriere della sera, 16 marzo 2012). Dopo aver descritto una situazione economica non eccellente, e aver perorato la causa di riforme economiche e politiche “radicali”, il Primo ministro Wen Jiabao ha chiuso la sessione annuale del Parlamento cinese stigmatizzando ogni tentativo di ripristinare i vecchi metodi della “Rivoluzione Culturale”».
Il già citato Visetti ieri raccontava scene e sentimenti che evocano un clima da “Nuova Rivoluzione Culturale”: «Sparite, nel quartiere dei grattacieli eleganti di Pudong, auto sportive e borsette di lusso. Chiusi i ristoranti gourmet, spente le vetrine con gli orologi svizzeri. Lavorare in Borsa, fino a due mesi fa, in Cina era il simbolo del successo e proiettava nella “dolce vita all’ occidentale”. Regola numero uno: esibire l’ eccesso, mostrare a tutti di avercela fatta. Oggi il “compagno economista” recupera dall’armadio i vecchi jeans, sandali e t-shirt, va in ufficio in metrò ed entra dal retro, succhiando tagliolini liofilizzati assieme alle giovani migranti interne assunte per le pulizie. L’alternativa è venire linciati dalla folla, o essere arrestati dalla polizia. […] La risposta del Quotidiano del Popolo, organo del politburo, alla crisi del Duemila è da purghe anni Sessanta. Annuncia la mobilitazione della polizia, scatenata contro “banche ombra, funzionari sospetti e finanziamenti illeciti”». […] Centinaia di milioni di cinesi, assieme al resto del mondo, si chiedono se i successori di Deng Xiaoping stiano «cavalcando la crisi», oppure se ne siano travolti, se “il nuovo Mao stia in sella o tra le zampe del cavallo”. L’ Occidente scopre di essere orfano del suo motore della crescita, ma milioni di cinesi si vedono rubare il sogno di archiviare per sempre fame, sacrifici e ciotola di riso» (La Repubblica, 26 agosto 2015).
Secondo Simone Pierani la dirigenza del PCC è «divisa e starebbe ingaggiando una battaglia contro le volontà di cambiamento di Xi. Mancano ancora le riforme più importanti sulle aziende di stato, sulla terra e sui poteri fiscali dell’Assemblea nazionale. Riforme fortemente osteggiate. Il desiderio di quasi tutti i potenti del Partito è che in realtà nulla cambi: che il socialismo di mercato della Cina possa riformarsi, senza dover provocare scossoni ai centri di potere» (Il Manifesto, 25 agosto 2015). Bo Xilai era appunto uno dei leader dell’ala antiriformista, il quale, come scriveva sempre Pierani sul Manifesto due anni fa, «ottenne visibilità per la sua campagna nota come “canta il rosso, picchia il nero”. Da un lato recuperò tutta la retorica maoista, attraverso la spedizione degli studenti a imparare dai contadini, l’invio di messaggi sui cellulari con celebri frasi del Timoniere. Dal punto di vista politico ed economico, agì da despota incontrastato: utilizzò una spericolata politica economica che fece crescere Chongqing anche del 16 percento, con una bolla immobiliare vertiginosa, che attraverso la costruzione di molti alloggi popolari, gli fece guadagnare un’ottima fama specie tra i ceti meno agiati del paese. Il suo mix di investimenti pubblici e privati, per altro spesso accaparrati a spese di Pechino, crearono quello che venne definito “modello Chongqing”. Canta il rosso, picchia il nero: sono motti militanti come questi che “ai bei tempi” mandavano in visibilio il popolo maoista che sfilava nelle italiche strade sventolando il mitico Libretto rosso di Mao, come ricorda oggi Lanfranco Caminiti in un articolo abbastanza sfizioso pubblicato dal Garantista e dal titolo quantomeno bizzarro: Dal maoismo al “borsismo”. La Cina è vicina e fa di nuovo paura alla borghesia. Per fortuna chi scrive non è un borghese e non ha quindi nulla da temere da un eventuale crollo del colosso asiatico! E soprattutto chi scrive non è mai stato un maoista.
Bando ai personalismi piccolo-borghesi e veniamo al neomaoismo del XXI secolo. Secondo Pierani, «La “visione” di Bo Xilai rappresenta ancora oggi – con tutti i suoi limiti [chi non ha limiti scagli la prima pietra!] – l’unica alternativa alla crisi del capitalismo di Stato cinese». Vedremo. Di sicuro io non faccio il tifo per il Celeste Capitalismo, «di Stato» o «neoliberista» che sia. Come ovviamente non faccio il tifo per nessun’altro Capitalismo presente sulla faccia della Terra, a cominciare da quello italico. Da molto tempo ho imparato a ragionare in termini di Società-Mondo, e oggi il mondo si estende interamente sotto il cielo plumbeo dei rapporti sociali capitalistici.
Linea nera
Abbiamo visto la «linea rossa» del noto “Quotidiano comunista”. Adesso giriamo lo sguardo verso la «linea nera» dei “neoliberisti”. Secondo Oscar Giannino ciò che l’Occidente sta chiedendo di fare alla leadership cinese serve solo a «bloccare la paura» dei mercati, ma a lungo termine si tratta di una ricetta sbagliata. Soprattutto Europa e Stati Uniti sbagliano a sollecitare l’intervento dello stato cinese nella sfera economica del Paese, mentre si tratta di auspicare proprio il contrario, perché le attuali magagne cinesi hanno molto a che fare con lo statalismo, o, detto altrimenti, con il cosiddetto «socialismo con caratteristiche cinesi». Allo Stato cinese Giannino chiede una ritirata strategica ma ordinata dall’economia, non prima, però, di aver fatto esso stesso pulizia e chiarezza nella celeste e caotica nebulosa capitalistica del Paese. Leggiamo: «No, la riposta cinese di ieri non è quella più adeguata alle ormai gravi contraddizioni dell’economia cinese, è solo una pezza a colori. […]
Le mosse della banca centrale cinese appaiono più figlie della disperazione che della lezione sin qui appresa. […] L’oceano di liquidità monetaria figlia di politiche monetarie troppo lasche gonfia le bolle finanziarie e immobiliari, perché con le borse che guadagnano a ritmi imparagonabili ai rendimenti del capitale nell’economia reale, è ovvio che il denaro poco caro prenda sempre più la via della finanza facile». Com’è noto, il cavallo capitalistico beve solo l’acqua che porta profitti, possibilmente alti e di rapida acquisizione. Ma riprendiamo la citazione: «L’Occidente deve offrire alla Cina una finestra spalancata per fare dello yuan una valuta di riserva visto il peso che la Cina ha nel mondo, chiedendo alla Cina nel frattempo di fare in grande scala quanto fece la Svezia negli anni Novanta, cioè avviare un enorme processo di scouting sui troppi debiti insostenibili e sui troppi asset dichiarati a un valore che non esiste. Che lo Stato cinese si concentri su quello, mentre attua una vera vigilanza sulle sue banche e chiude nel tempo alla possibilità che oltre un terzo della sua intermediazione finanziaria sia operata da chi non è soggetto ad alcuna regolazione. Un enorme programma pluriennale cinese di stabilità e pulizia finanziaria, da assumere come priorità internazionalmente condivisa perché la Cina resti una locomotiva mondiale, continui ad assorbire sempre più esportazioni mondiali ad alto valore aggiunto per le sue centinaia di milioni di nuovi consumatori, e dipenda sempre meno da un proprio export forte per un basso costo della manodopera destinato comunque ad alzarsi».
Un bel programma “neoliberista”, non c’è che dire. Si tratta di vedere quanto realistico. È chiaro che nel brevissimo periodo è la “linea rossa” della gestione demagogica delle contraddizioni sociali che appare quella più praticabile dal Partito-Regime. Intanto, giusto per dispiacere Giannino, dalla Cina giunge la notizia di una «Nuova iniezione di liquidità da parte della Banca centrale cinese a sostegno del sistema bancario. La People’s bank of China, nel corso della notte, ha iniettato 150 miliardi di yuan, circa 23,4 miliardi di dollari» (Ansa, 27 agosto 2015). Con tutta questa liquidità in giro la papera della speculazione finanziaria galleggerà alla grande!
La calda estate del dragone – Si tratta di una nota pubblicata su Facebook il 23 agosto.
Scrive Alessandro Mauceri: «Ormai non esistono più frontiere che non possano essere valicate dai prodotti cinesi, che hanno invaso la vita di tutti. Ma se i prodotti realizzati in Cina viaggiano veloci, non altrettanto può dirsi per le informazioni. Dopo l’esplosione lo scorso 12 agosto di un magazzino a Tianjin, che ha causato 114 morti (ma mancano all’appello ancora un centinaio di persone tra cui 85 pompieri), circa 700 feriti e l’evacuazione di buona parte della popolazione della città, restano ancora forti dubbi su cosa sia realmente avvenuto. Le notizie ufficiali hanno parlato di un “incidente” in uno stabilimento dove si adoperavano sostanze contenenti cianuro. Secondo la versione ufficiale, il deposito conteneva 700 tonnellate di cianuro di sodio, ben 70 volte di più di quello che avrebbe dovuto contenere, una sostanza altamente tossica. Anche l’esplosione è stata anomala e di intensità tale da essere stata rilevata dall’istituto sismologico cinese che ha valutato la potenza della seconda esplosione, la più forte, equiparandola alla detonazione di 21 tonnellate di tritolo. E, nel frattempo, piccole esplosioni continuano ad essere segnalate nella zona del disastro e la vista dall’alto mostra un cratere di dimensioni spaventose, che a molti ha ricordato quelli lasciati dopo l’esplosione di ordigni nucleari. […] Nelle ultime ore ad essere accusate sono state anche le autorità cinesi, ree di non aver diffuso dati veri sulla reale contaminazione ambientale: nel fiume Haihe, vicino alla città, si è verificata una inspiegabile moria di migliaia di pesci, con tutta probabilità avvelenati dalle sostanze rilasciate dall’esplosione della scorsa settimana» (Notizie Geopolitiche, 21 agosto 2015).
A proposito! «Nuova esplosione in un impianto chimico in Cina. A soli dieci giorni dalla tragedia di Tianjin, a essere colpito oggi è uno stabilimento nella provincia orientale cinese dello Shandong. Secondo il primo bilancio comparso sui media locali sono almeno nove i feriti. L’esplosione ha mandato in frantumi i vetri degli edifici e delle abitazioni nel raggio di un chilometro dall’impianto, gestito dal gruppo Runxing Chemical. Secondo le prime testimonianze, le scosse dovute all’esplosione sono state avvertite in un raggio di due chilometri» (Il Sole 24 Ore, 22 agosto 2015).
Intanto, il Partito Capitalista Cinese è alle prese con una crisi che rischia di farsi esplosiva (è proprio il caso di dirlo!) anche sul versante della cosiddetta economia reale. «Quali eventi hanno scatenato questa “tempesta perfetta” dopo una settimana già preda di forti turbolenze? Le indicazioni sul marcato rallentamento dell’economia cinese continuano a pesare sulle borse mondiali. I problemi non appaiono più circoscritti alla finanza ma anche all’economia reale, come dimostrato ieri dalla performance molto negativa del Pmi manifatturiero cinese sceso in luglio a 47,1 punti, il livello più basso da oltre sei anni» (Il Giornale, 22 agosto 2015).
Sbaglia, a mio avviso, chi profetizza un crollo del Celeste Capitalismo, almeno come lo conosciamo oggi, nel breve termine; però la sua crisi sistemica mi sembra abbastanza evidente, e i Cari Leader di Pechino sono i primi ad averne coscienza. Ma le “riforme strutturali” sono una brutta bestia dappertutto, non solo nella Vecchia Europa. Si tratta poi di vedere come il Partito-Regime fronteggerà le contraddizioni sociali (di tutti i tipi!) che stanno mettendo in tensione l’intero Sistema-Paese. Probabilmente alla lunga le immancabili “campagne moralizzatrici” promosse dal Partito (con tanto di arresti, processi esemplari e carcere duro ai danni di burocrati locali e nazionali, ma anche di Cari Leader caduti improvvisamente in disgrazia: praticamente il migliore dei mondi possibili per i giustizialisti di casa nostra!*) mostreranno i loro limiti in termini di ricerca del consenso e di controllo sociale. Staremo a vedere!
* «La polizia cinese ha arrestato 12 persone in relazione alle esplosioni che a Tianjin hanno ucciso 139 persone e devastato l’area del porto, riporta oggi l’agenzia di stampa Nuova Cina citando il Ministero della Sicurezza pubblica. Tra gli arrestati anche il presidente della Tianjin International Ruihai Logistics, Yu Xuewei, il vice presidente Dong Shexuan e tre vicedirettori generali» (ANSA, 27 agosto 2015 ).