IL POTERE IN TASCA (II)

1024px-Miniassegno_UpimAppunti di studio sulla teoria marxiana del denaro

«La merce ama il denaro, ma
the course of true love never
does run smooth» (1).

«La natura – scriveva Marx – non produce denaro» (2). Verrebbe da dire: gran bella scoperta, complimenti! Mille di queste perle euristiche! In effetti, nessuno ha finora visto monete appese ai rami degli alberi in guisa di foglie, monete che sbocciano nei campi come fiori, o che svolazzano fra alberi e fiori come farfalle, e via di seguito con altre idilliche – o psichedeliche? – immagini di analogo conio. No, decisamente «la natura non produce denaro». Eppure! La frase marxiana, ancorché estrapolata da un preciso contesto critico-argomentativo, deve suonarci tutt’altro che banale. Spesso non ci comportiamo forse con il denaro, e con tutto il variegato e complesso universo sociale che esso, al contempo, presuppone e pone sempre di nuovo, esattamente come se ci trovassimo di fronte a qualcosa di naturale, a un’entità oltremodo seducente e ammiccante che tuttavia non necessita di tante spiegazioni, un po’ come quando qualcuno osserva, con tenera ingenuità, che senza ossigeno non possiamo vivere (bella scoperta!)? Per noi il denaro è qualcosa di dato e di scontato; un mondo senza denaro forse non riusciamo neanche a concepirlo, e se, dando fondo alla nostra residuale capacità immaginativa, alla fine riusciamo a sfiorare quell’idea, quella eccezionale possibilità, la nostra testa si riempie subito e immancabilmente di concetti che richiamano l’idea di miseria. Associare il denaro alla ricchezza sociale è, infatti, la cosa più semplice e spontanea che ci riesca di fare; ma è anche la cosa più fondata, più razionale, ossia, detta in termini hegeliani (ciò che è reale, è pure razionale), più adeguata alla prassi sociale di questa epoca storica.

Perciò, lungi dall’invitare il lettore di queste righe a un soprassalto etico intorno al suo rapporto con il denaro, chi scrive intende appunto suggerire l’idea che l’atteggiamento mentale appena considerato non ha nulla di sbagliato (sbagliata, cioè disumana, è piuttosto la società che rende possibile quell’atteggiamento), e ha un preciso fondamento sociale nelle relazioni e nei rapporti che realizzano la fitta trama della nostra esistenza. Il denaro è, infatti, la forma universale che la ricchezza ha assunto storicamente nelle società classiste in generale, e in quella borghese in particolare: è nella società dominata dal Capitale che il denaro ha assunto la smisurata potenza che ciascuno di noi sperimenta quotidianamente, e di cui fa l’abitudine fin dalla più tenera età. Chi non è provvisto di denaro non ha alcun potere su nulla, nemmeno sulle sue più elementari e vitali necessità: questa realtà sorprende forse qualcuno? Tutto ciò non ci suona ancora una volta del tutto naturale? Magari ci si può indignare e scandalizzare della cosa, e proclamare con Papa Francesco e con tutti i riformatori del Capitalismo che «è l’uomo che deve comandare sul denaro, e non viceversa», testimoniando con ciò stesso un’assoluta incomprensione circa il mondo in cui viviamo; ma questo è tutto. Nelle società precapitalistiche, anche in quelle a ridosso, per così dire, della modernità borghese, una vita senza denaro era almeno concepibile e financo praticabile, sempre entro certi limiti; spazi sociali più o meno vasti si sottraevano ancora al dominio delle stringenti necessità economiche, e anche il più miserabile degli individui poteva arraffare qualcosa alla terra senza incorrere necessariamente nei rigori della Legge. Oggi se non hai un soldo in tasca sei candidato alla morte, a quella sociale e, presto o tardi, alla morte reale: «È impossibile essere più morti di così!» (3). Oltre i recinti che delimitano il dominio del rapporto sociale capitalistico (e quindi della totalitaria signoria del denaro) non esiste più niente: quel dominio e quella sovranità non conoscono più alcun limite; tutta l’esistenza dell’umanità si dipana sotto il plumbeo cielo del Capitalismo, il quale ha nella forma-denaro la sua più adeguata e abbagliante sintesi.

Come già sappiamo dal precedente post, nel remotissimo 1857 Marx osservava che l’individuo «porta con sé, in tasca, il proprio potere sociale, così come la sua connessione con la società» (4). E questa incredibile realtà non è forse tanto più vera oggi? Com’è stato possibile quest’esito «fantasmagorico» della millenaria prassi sociale umana? Naturalmente qui non tenterò nemmeno di abbozzare una risposta a una domanda così impegnativa; mi limiterò piuttosto a suggerire un approccio essenzialmente storico-sociale al problema, in modo da lasciare sullo sfondo quei giudizi di natura etico-morale che sovente si esauriscono in un impotente moralismo che orienta il pensiero umanamente sensibile su false piste, sulle piste non raramente battute con successo da populisti e demagoghi d’ogni risma e confessione politico-religiosa.

Fermiamoci un attimo e fissiamo questa fondamentale acquisizione “scientifica”: è la società, e non la natura, che produce il denaro; si tratta allora di capire sotto quali condizioni storiche e sociali avviene questa singolare produzione.

Lo straordinario potere sugli individui evocato sopra, al denaro – magari pensato nella sua vecchia guisa aurea, per facilitare il ragionamento e per connetterci al tempo in cui Marx scriveva le sue profonde riflessioni critico-analitiche sul Capitalismo – non deriva dunque da qualche sua intrinseca qualità naturale (stavo per scrivere soprannaturale, considerata la già menzionata smisuratezza di quel potere); il denaro aureo è l’oggetto della brama universale non a causa delle intrinseche qualità minerali dell’oro, ma in virtù di ben determinate condizioni sociali che hanno attribuito al denaro una specifica funzione sociale – dal cui sviluppo sono poi sorte altre funzioni più o meno ancillari rispetto alla funzione principale. Le “demoniache” qualità del denaro si spiegano solo a partire dalle qualità disumane del Dominio, e non viceversa, come da sempre cercano di spiegare gli “umanisti” (laici e religiosi) soprattutto alle classi subalterne, le quali avendo in tasca ben poco denaro e zero potere nella società, sono da sempre le più esposte al messaggio demagogico sintetizzato nella ben nota sentenza: il denaro è lo sterco del Demonio – e a volte degli ebrei…. In realtà sarebbe anche sbagliato considerare il denaro come sterco del Dominio, essendone anzi un momento vitale e costitutivo, oltre che altamente contraddittorio; e sicuramente ne è l’aspetto di gran lunga più seducente. Se proprio dobbiamo alludere alla sostanza escrementizia, personalmente suggerisco di riferirla alla società classista tout court.

Secondo il Marx del 1859 il processo sociale capitalistico colto nella sua totalità (produzione, distribuzione e consumo – produttivo e improduttivo; industria, commercio e finanza) trova la sua più adeguata espressione nel denaro, da egli considerato nella sua forma aurea, ossia come «metallo nascosto nelle viscere della terra e da essa estraibile» (5). Tuttavia, il fondamento sociale del denaro, concepito nella sua pura essenza funzionale di equivalente generale, di misura del valore delle merci (di “valorimetro”), è nascosto nelle viscere della società, e come dei minatori è da quelle viscere che noi dobbiamo estrarre il concetto e la prassi del denaro. E con ciò ho introdotto di soppiatto diversi concetti fondamentali che cercherò di spiegare tra poco.

Posso riassumere nel modo che segue la tesi di fondo che intendo argomentare (sulla scorta di Marx, inutile precisarlo ancora): il denaro è in primo luogo ed essenzialmente – ossia in radice – la forma generale e, per questo, più astratta che il lavoro umano assume nella società dominata dal Capitale (6). Il fatto che la prassi sociale considerata nel suo complesso sembra contraddire in pieno questa tesi, ciò non solo non è per me fonte di imbarazzo o di perplessità ma piuttosto conferma in pieno l’idea che mi sono fatto della società capitalistica. L’esistenza del denaro, anche nella sua forma capitalisticamente più sviluppata e sofisticata, presuppone l’esistenza del lavoro salariato, ossia del lavoro sfruttato dal Capitale nel processo produttivo in vista di un profitto (si tratta della marxiana valorizzazione del capitale investito in una qualsiasi attività: D – M – D’). Posto il lavoro salariato, ossia il lavoratore (e non solo il suo lavoro, la sua prestazione professionale, il suo “capitale umano”, com’è di moda dire oggi con spregevole terminologia) venduto e acquistato alla stregua di una qualsiasi merce, si hanno necessariamente da un lato la forma merce del prodotto del lavoro, e dall’altro il denaro che della merce (più precisamente: del suo valore di scambio) è la più adeguata rappresentazione sociale. Di qui, l’ossessivo quanto fecondo “tormentone” concettuale marxiano: «La moneta non è una cosa, è un rapporto sociale» (7). Un rapporto sociale di dominio e di sfruttamento, se posso permettermi di “completare” il Moro di Treviri – peraltro sintetizzando suoi concetti!

Da Marx in poi, il moderno pensiero critico-radicale si è trovato a dover fare i conti con l’idea piccolo-borghese, e perciò stesso diffusa in ogni ambiente della società, secondo cui non esisterebbe una necessaria correlazione tra merce e denaro, tra merce e salario, tra lavoro (salariato) e denaro, tra capitale e denaro; si tratta di quello che potremmo definire l’eterno proudhonisno, che anch’io, nel mio infinitamente piccolo, cerco di denunciare come concezione sommamente reazionaria tutte le volte che ne ho l’occasione – ad esempio, criticando i teorici della «moneta del Comune» e analoghe «acciarpature monetarie», polemizzando con i teorici del benecomunismo, ma anche con i salvatori del Capitalismo dai capitalisti «avidi, incompetenti e irresponsabili», nonché con gli economisti belli e alla moda tipo Thomas Piketty e Yanis Varoufakis. In effetti, la circolazione delle merci non genera sempre di nuovo solo il concetto e la prassi del denaro, ma anche le ingenuità economiche e politiche di chi critica il Capitalismo da un punto di vista piccolo-borghese.

Per Marx il denaro è dunque nella sua essenza l’espressione di un peculiare rapporto sociale di produzione. Come vedremo in seguito, il termine produzione ha qui un’accezione che supera i ristretti limiti concettuali riconducibili a una sua declinazione in termini puramente – e piattamente – economici, per investire l’intera esistenza degli individui. Si tratta in poche parole della produzione della vita umana considerata nella sua complessa totalità sociale, una totalità ricca di determinazioni materiali, spirituali, psicologiche, affettive, in una sola parola “antropologiche”. «Il denaro è quindi immediatamente la reale comunità, in quanto è la sostanza universale dell’esistenza per tutti, e nello stesso tempo il prodotto comune di tutti» (8). Penetrare i misteri che da sempre avvolgono in una spessa e grigia nuvola di idee il concetto di denaro significa dunque fare un decisivo passo in avanti verso la comprensione della nostra «reale comunità». «Ciò che rende particolarmente difficile la comprensione del denaro nella sua piena determinazione di denaro è che qui un rapporto sociale, una determinata relazione degli individui tra loro, si presenta come un metallo, come una cosa puramente corporea fuori di essi» (9). Ed è precisamente in questa realtà sociale reificata e alienante che da sempre inciampa il punto di vista che difende le supposte reali esigenze della produzione (capitalistica), concepita praticamente alla stregua di un’attività metastorica (e comunque pensata sempre come una cosa “buona, giusta e bella”), dalle pretese di supremazia che fanno capo al denaro, pensato invece come un’entità artificiale, come uno strumento che solo se posto al servizio dell’«economia reale» può giocare un ruolo positivo ai fini del progresso sociale. Ai cultori del duro ma onesto lavoro produttivo neanche sfiora l’idea che è proprio nella sfera della circolazione (delle merci e del denaro) che il prodotto del lavoro assume la sua più compiuta determinazione sociale; che è solo quando il prezzo della merce si converte in denaro il produttore riceve la convalida circa la natura sociale del suo prodotto. Anche su questo punto ritorneremo.

Per quanto la cosa possa suonare strana, assurda e forse financo bizzarra, la marxiana critica dell’economia politica ci dice che nel concetto di denaro converge e si riassume un intero mondo: il mondo della produzione e della distribuzione della ricchezza sociale nella sua attuale forma storica. Il denaro riassume in sé il concetto di lavoro sociale astratto, e per questa via in esso convergono, nelle forme mediate e il più delle volte mistificate che l’analisi deve imparare a cogliere, i concetti (e le relative prassi) di tecnologia, di scienza, di scambio, di consumo e così via. Insomma, dici “denaro” ed evochi un intero universo di concetti e di attività sociali. È come se il solido mondo del Capitale si sciogliesse nel liquido denaro. Altro che Vita liquida, caro Zygmunt Bauman!

Anche fra i migliori esponenti della scuola marxista non mancano esempi di sottovalutazione, se non di veri e propri errori, circa la natura e la dinamica della moneta. Come ricordano S. Brunhoff e P. Ewenczyk nella loro Introduzione generale ad alcuni scritti marxiani dedicati alla moneta e al credito, «Benché uno dei capitoli de L’accumulazione del capitale di Rosa Luxemburg, apparso nel 1913, riguardi la circolazione del denaro, vi si trova ben poco riguardante la moneta e nulla sul valore e la merce. La circolazione monetaria è inclusa nella riproduzione del capitale come fenomeno secondario, una “espressione superficiale delle diverse fasi della circolazione delle merci”. La moneta, quindi, ha un ruolo puramente funzionale, quello di assicurare le molteplici transazioni che costituiscono la circolazione sociale» (10). Forse l’incapacità di cogliere la natura sociale del denaro nella sua essenza non è estranea alla falsa relazione che la Luxemburg teorizzò tra (la supposta) incapacità di realizzazione del valore nelle metropoli capitalistiche del pianeta e la genesi dell’Imperialismo come ricerca di sbocchi nella periferia del mondo capitalistico (11).

Detto questo, nessuno può nutrire dubbi circa l’oggettiva complessità del tema qui proposto all’attenzione del lettore, e se chi scrive dicesse di averlo tutto perfettamente chiaro in testa, di padroneggiarlo almeno nelle sue parti fondamentali, probabilmente direbbe una millanteria, come peraltro il lettore stesso avrà modo di verificare. Cogliere la complessa dialettica sociale che si cela dietro la forma-denaro non è davvero impresa facile, e d’altra parte «ogni scienza sarebbe superflua se l’essenza delle cose e la loro forma fenomenica direttamente coincidessero» (12). Il problema si riduce dunque nei termini che seguono: chi scrive è in possesso di una qualche, sia pur rudimentale, capacità scientifica? Sorvolo bellamente sull’auto-provocazione e osservo che è probabilmente nel denaro (considerato sempre nella sua doppia dimensione: concettuale e reale) che la tensione dialettica tra essenza e fenomeno (tra contenuto e forma) che investe l’intera prassi sociale in regime capitalistico ha il suo momento topico. Intorno alla forma-denaro si addensano paradossi concettuali e contraddizioni reali che, a mio avviso, solo la marxiana (co)scienza del profondo ha saputo cogliere nel loro autentico significato e nel loro movimento dialettico; da parte sua, «l’economia volgare si sente particolarmente a suo agio in questa forma estraniata dai rapporti economici, in cui questi prima facie sono assurdi e del tutto contraddittori» (13). E noi non abbiamo alcuna intenzione di disturbare l’«economia volgare» (si tratta dell’odierna Scienze Economica, sia chiaro), nevvero?

Prima ho introdotto en passant un concetto che nell’impianto teorico marxiano occupa un posto centrale: il lavoro sociale come categoria astratta, una tesi che di primo acchito non sembra poter superare l’esame di materialismo storico. Ma non è così.  L’astrazione di cui parla Marx è sempre un’«astrazione determinata», ossia un concetto, o, ancor meglio, una costellazione di concetti che prende corpo in conformità a un reale e storicamente determinato processo sociale. Il processo astrattivo (ad esempio, la riduzione dei lavori concreti, specifici: metallurgia, falegnameria, edilizia ecc., a lavoro semplicemente – astrattamente – sociale) avviene in primo luogo nella realtà delle relazioni umane (come vedremo, nell’antichissima prassi dello scambio tra prodotti qualitativamente diversi è implicito il concetto di lavoro generale, mera sostanza di valore), e al pensiero non rimane che esprimerlo nella forma più adeguata possibile. Processo concettuale e processo sociale; processo logico e processo storico; realtà del pensiero e realtà della cosa: in Marx troviamo un continuo sforzo teso a cogliere il movimento dei concetti e degli oggetti sottoposti all’analisi critica (modi di produzione, classi sociali, rapporti di classe, contraddizioni sociali, guerre, rivoluzioni, istituzioni, forme politiche e giuridiche ecc.) nella loro inestricabile relazione dialettica (14).

Cerchiamo adesso di focalizzare gradualmente la riflessione sulla genesi del denaro.

Per Marx non si può comprendere la natura sociale del denaro se non si passa attraverso l’analisi della merce: «La principale difficoltà che si presenta nell’analisi del denaro si può considerare superata una volta che si è compreso come esso abbia origine dalla merce stessa» (15). Il punto di partenza della nostra riflessione è dunque la merce. Marx riassume così la filiera del valore che dalla merce porta necessariamente al denaro: «Il prodotto diventa merce. La merce diventa valore di scambio. Il valore di scambio della merce assume un’esistenza particolare accanto alla merce: è la merce come denaro», ossia «la forma comune in cui si trasformano tutte le merci in quanto valore di scambio» (16).

L’analisi marxiana del denaro prende dunque avvio dalla circolazione mercantile semplice, sintetizzata nella nota formula M – D – M: vendere (M – D) per poi acquistare (D – M). Qui il denaro si limita a mediare la transazione, mentre il movente di essa è da ricercarsi nel bisogno del produttore di merce, il quale è al contempo un consumatore di merce. A questo livello l’arricchimento nella sua peculiare forma capitalistica non gioca alcun ruolo: il valore che compare alla fine della transazione è identico a quello che compare all’inizio. Ma già a questo grado assai elementare di sviluppo economico prende corpo la funzione regina del denaro: essere l’equivalente generale di tutte le merci, esserne la misura in termini di valore. Il denaro come «valorimetro», per dirla con Georg Simmel. Di che si tratta? E in che senso qui si parla di valore?

La marxiana forma semplice di valore è la seguente «x merce A = y merce B, oppure x merce A vale y merce B» (17); il primo polo dell’equazione è chiamato da Marx forma relativa di valore, il secondo polo forma equivalente. La forma di equivalente fa da specchio di valore alla forma relativa. Come vedremo tra poco non è il denaro che rende commensurabili le merci; in effetti, il denaro può fungere da misura di valore solo perché le merci hanno in se stesse qualcosa che li accomuna nella loro qualità di prodotti del lavoro, in quanto «sono lavoro umano oggettivato».  Il denaro, detto in altri termini, non crea il presupposto della commensurabilità, ma si pone piuttosto come «forma fenomenica necessaria» di questo presupposto, che poi altro non è che il tempo di lavoro. A sua volta il denaro («per semplicità» Marx presuppone «sempre che l’oro sia la merce denaro») ha potuto conquistare la sua altissima posizione sociale solo perché è esso stesso un prodotto del lavoro. A questo punto si tratta di lumeggiare le condizioni che hanno reso possibile l’irresistibile ascesa della merce-denaro con potere funzionale assoluto, monopolistico. A quanto pare troppi nodi si sono affollati in poche righe!

Continua (?).

(1) K. Marx, Il Capitale, I, p. 140, Editori Riuniti, 1980. «Le vie del vero amor non sono mai piane». Accipicchia! Pensavo fosse critica dell’economia politica e invece era una poesia!
(2) K. Marx, Per la critica dell’economia politica, 1859, p. 183, Newton Compton editori, 1981.
(3) L. Tolstoj, Resurrezione, p. 228, Lucchi, 1958.
(4) K. Marx, Lineamenti Fondamentali di critica dell’economia politica (Grundrisse), I, p. 88, Einaudi, 1983. «Il denaro è proprietà “impersonale”. In esso posso portare in giro, con me, in tasca, il potere sociale universale e la connessione sociale generale, la sostanza della società. Il denaro consegna il potere sociale come oggetto nelle mani della persona privata che in quanto tale esercita questo potere. La connessione sociale […] in esso si presenta come qualcosa di completamente esteriore, che non sta in alcun rapporto individuale con il suo possessore, e quindi fa apparire anche il potere che egli esercita come qualcosa di assolutamente accidentale, esteriore a esso» (Lineamenti, II, p. 1060).
(5) K. Marx, Per la critica dell’economia politica, p. 183.
(6) «In quanto forma generale di equivalente di tutte le merci, il denaro è l’incarnazione, immediatamente sociale, di tutto il lavoro umano» (K. Marx, Il Capitale, I, p. 165). In effetti, più che di lavoro umano dovremmo piuttosto parlare di lavoro disumano.
(7) «Il denaro è solo un rapporto sociale oggettivato» (K. Marx, Scritti inediti di economia politica, p. 89).
(8) K. Marx, Lineamenti, I, p. 165.
(9) Ibidem, p. 181. Qui Marx si riferisce alla sostanza aurea e argentea del denaro, ossia alla forma materiale in cui ai suoi tempi si presentava la moneta mondiale, che è poi la modalità (la funzione) del denaro  che più delle altre si avvicina al concetto stesso di denaro come forma generale della ricchezza in epoca capitalistica. Vedremo in seguito se a Marx si possono imputare concezioni “metallare” intorno alla natura del denaro, in generale, e della sua espressione monetaria in particolare.
(10) S. Brunhoff, P. Ewenczyk, Introduzione generale a K. Marx, La moneta e il credito, p. 28, Feltrinelli, 1981.
(11) «La realizzazione del plusvalore è a priori legata in quanto tale a produttori e consumatori non-capitalistici. L’esistenza di acquirenti non-capitalistici del plusvalore è dunque condizione diretta di vita per il capitale e per la sua accumulazione, e rappresenta perciò il punto decisivo del problema dell’accumulazione del capitale» (R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale, p. 361, Einaudi, 1980). Il processo sociale capitalistico dell’ultimo secolo rappresenta la migliore “replica” al grossolano errore della pur grande rivoluzionaria di Zamość. Com’è noto, Lenin non aspettò tutto questo tempo per metterne a nudo le magagne teoriche. Una puntuale critica delle tesi luxemburghiane si trova nell’importante libro di H. Grossmann Il crollo del capitalismo (1928, Jaca Book, 1971).
(12) K. Marx, Il Capitale, III, p. 930, Editori Riuniti, 1980.
(13) Ivi.
(14) «Quanto al metodo del lavoro mi ha reso un grandissimo servizio il fatto che by mere accident […] mi ero riveduto la Logica di Hegel. Se tornerà mai il tempo per lavori del genere, avrei una gran voglia di rendere accessibile all’intelletto dell’uomo comune in poche pagine, quanto vi è di razionale nel metodo che H. ha scoperto ma nello stesso tempo mistificato» (lettera di Marx a Engels del 14 gennaio 1858, in Marx-Engels, Lettere sul Capitale, p. 19, Laterza, 1971). Purtroppo quel tempo non ritornò, e a noi uomini comuni non rimane che rimpiangere quelle poche pagine mai scritte. Ecco cosa accade quando la genialità si lascia ipnotizzare dalla «merda economica» e disarmare dagli acciacchi («Io soffro talmente della mia bile che per questa settimana non posso né pensare, né leggere, né scrivere, né fare qualsiasi cosa»)!
(15) K. Marx, Per la critica dell’economia politica, p. 79. «L’enigma del feticcio denaro è soltanto l’enigma del feticcio merce divenuto visibile e che abbaglia l’occhio» (K. Marx, Il Capitale, I, p. 125, Editori Riuniti, 1980).
(16) K. Marx, Lineamenti, I, p. 97.
(17) K. Marx, Il Capitale, I, p. 80. «L’arcano di ogni forma di valore sta in questa forma semplice di valore. La vera e propria difficoltà sta dunque nell’analisi di essa».

3 pensieri su “IL POTERE IN TASCA (II)

  1. ottimo post. l’uso del termine lavoratori, invece che forza-lavoro, potrebbe ingenerare qualche equivoco. perciò va usato con parsimonia e con attenzione al contesto: forse marchionne non si sente lavoratore come e più degli altri?

    • Grazie! Perché non vuoi lasciare una piccola soddisfazione “morale”al povero Marchionne, il quale si sbatte H24, in giro per il capitalistico mondo, per trovare il modo migliore per valorizzare la capacità lavorativa dei suoi “collaboratori”? E magari il prossimo anno riporta pure alla Ferrari il Titolo Mondiale che tanto ci manca. Che cattivo che sei! Ciao!

  2. Pingback: IL POTERE IN TASCA (III) | Sebastiano Isaia

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